giovedì 2 febbraio 2012

JUST IN TIMBERLAND che non è un attore ma se lo fosse reciterebbe coi piedi




Lettera aperta al signor Timberland."Egregio,come immagino lei sappia, in considerazione di questa mia vita nomade e in dispregio alle mode del momento, negli anni ho selezionato il suo marchio come riferimento invernale per i miei piedi perchè, se è vero che i prezzi delle sue scarpe sono alti è pur vero che, mi ripetevo, le stesse durano oltre ogni aspettativa. Spio dunque le svendite per fallimento, le cessioni d'attività, per comprare da venticinque anni scarponi della marca testè citata. Oggi c'è parecchia neve ma io ho un vecchissimo pick up e le mie Timberland e guardo alla calamità con il sorriso, che io vivo in calamità permanente e ora gioco in casa. Per l'occasione mi infilo le Timberlan PRO super imbottite, quelle alte da cantiere che non si vendono nelle boutique ma nelle ferramenta e che, me lo lasci dire, costano parecchio di meno di quegli altri modelli da aperitivo nella giungla. Serro bene i lacci, che nessun gelo possa penetrare. Porto Orso a scuola, che così si chiama mio figlio e questo dovrebbe farle intuire quato siam ben disposti nei confronti della glaciazione che incalza. Marcio nella neve come un allegro ritirando della sacca del Don e le sento tintinnare nel cuoricino mio le centomila gavette di ghiaccio e sento l’odore del grasso del bianco leviatano che brucia e sento lo scricchiolio del sale sotto i piedi che è metafora leggiadra del maschio pestello dell’umana specie che affonda nel mortaio di tutti i riti fertili possibili. Belle suggestioni dirà lei, grazie dirò io. Una vecchia quasi mi schiaccia con la Punto che scivola sul ghiaccio come la otto all’ultima buca. Mi vien voglia di spaccarle sulla testa colbaccata le centomila gavette di ghiaccio. In ogni caso arrivo davanti alla scuola e visto che stiamo entrando in bella confidenza le voglio raccontare, a lei che vive coi boscaioli in Oregon o magari sta mangiando un panino con la foca con la Sarah Palin, che dev’essere una bella peperina quella lì, che lunedì qui è nevicato per diciannove secondi e hanno chiuso le scuole. Ai bambini, per regalargli qualche bella suggestione, gli abbiamo sguazzato le finestre con la neve a spruzzo che si usa per il presepe ma poi si sono rotti i coglioni e son scesi a giocare in canottiera. Oggi la città è coperta da uno spesso strato di neve, ghiaccio e vecchi con il femore rotto ma le scuole le tengono aperte. In compenso hanno chiuso l’ospedale delle Molinette, che dicono è il terzo ospedale d’Italia, una medaglia di bronzo che mi fa cagare addosso pensando a come sarà il quindicesimo o il trentaduesimo, perché non c’è il riscaldamento. Questo intoppo nel sistema sanitario spiega l’ammucchiarsi di vecchi inerti col femore rottto a bordo strada. Le ambulanze sfrecciano ma portano carbone peggio della più stronza delle befane. Meno male che siamo entrati in Europa che era una bella giornata perché se la decisione la dovevano prendere oggi eravamo del gatto e sceglievano al nostro posto il Gabon, fosse solo per un fatto climatico. Insomma porto mio figlio e i suoi amici davanti alla scuola con Ste, che è mia moglie di fatto e che è una che quando ci sono queste cose tipo la neve ride con un ghigno che mi mette ansia e guarda la gente e dice “avete mangiato tutto, avete consumato tutto e non siete più buoni a reggere due fiocchi di neve sulle spalle”. Di solito Ste è una tranquilla, che fa un sacco di cose folli ma per conto suo, senza manifestare un astio spiccato per l’umano genere ma quando c’è la calamità prende ‘sta piega tipo “eccoci qua, ora ragioniamo da pari a pari” che le regala un occhio spiritato mica da ridere. Detto questo devo confessarle che Ste ha degli occhi bellissimi e ogni volta, a distanza di vent’anni, io resto davanti a quello spettacolo come la lepre davanti alla 127 di mio zio che s’era abbagliata e lui per farle capire come gira il mondo ha accelerato di botto e poi ce la siamo mangiata. A me ancora non mi hanno accelerato di colpo o forse l’hanno fatto ma non me lo dicono.  Sto cercando di non divagare per arrivre dritto al nodo del mio problema. Le Timberland che indosso oggi, le stesse che ho ai piedi in questo momento, dopo diciannove anni di onorato servizio, me li son contati all’indietro per farmene una ragione cronologica precisa e è come quando stai per morire perché s’è rotta la corda del bangingiampin e ti salvi e ti intervistano e ti chiedono cosa hai provato e tu dici “mi è passata tutta la vita davanti” e io che ti ho visto dal vero penso che se riesci a far passare tutta la vita in una bestemmia hai delle belle doti di sintesi. Non si distragga, torniamo al tema, le scarpe dicevamo, dopo diciannove anni mi hanno abbandonato oggi che è l’unico giorno della mia vita in cui erano realmente giustificate ai piedi. Diciannove anni di peso demenziale ai piedi, di caviglie serrate col nodo del sega abeti dell’Oregon, diciannove anni a giustificare la spesa sostenuta andando in spiaggia ad agosto con ai piedi queste scarpe che ti attivano la sindrome della lupara bianca perché ti senti colato nel cemento. E oggi che è oggi e l’avversità climatica finalmente giustifica la scelta di diciannove anni prima, la suola non si è limitata ad abbandonarmi ma si è letteralmente polverizzata, sbriciolata, dissolta. Cammino per la redazione lasciando una agghiacciante sabbietta nera, una sorta di fondo di caffè in cui se provi a leggere il futuro leggi morte per assideramento. Perché le suole procedono in questo inarrestabile e rapidissimo processo di dissoluzione, tutte e due insieme in un sincrono tragicamente magico e stasera, quando dovrò riaffrontare la strada e guadagnare il fidato pick up, altra suggestione boscaiola che ora guardo con sospetto, camminerò come il peggiore dei lazzari risorti a piedi nudi nella neve. I più attenti diranno che m’era già successso e ne avevo già parlato. Allora era a Venezia e ai piedi avevo un paio di scarpe in cartone pressato e andavo a un incontro di lavoro decisivo per il mio futuro d’economia d’arrangio e le scarpe si sono sciolte sotto la pioggia e ho fatto finta di niente e ho raccontato il tutto nell’introduzione al mio libro su De Andrè (edizioni Ricordi, signor Timberland, casomai fosse punto da curiosità e senza scopi pubblicitari). Quel giorno a Venezia, mentre camminavo per le calli con le scarpe sciolte in poltiglia ai piedi, era morto De Andrè. Da allora ho sempre calzato scarpe che non mi facessero ricadere in quell’imbarazzo e ora guardo desolato le mie Timberland PRO polverizzate e penso che forse farei bene a fare un paio di telefonate per accertarmi della buona salute di Guccini. Con immutata stima.


1 commento:

  1. Come ti capisco!! Beato te che le scarpe ti hanno dato il tempo di sciogliersi, almeno hanno fatto il loro onesto lavoro per un pò.
    A me l'altro giorno, acquistate originali da un noto sito on line, sono arrivate già aperte!! Buona fortuna ... magari con un marchio un pò più performante ...

    RispondiElimina