Al supermercato ci arrivo come al solito verso le
otto di sera. Un’ora buona prima della chiusura. Le cassiere sono allo stremo
delle forze e le teste ricadono sul piano e il lettore legge le ciglia finte
come codici a barre e tocca fare lo storno, che io una volta che una ha detto
dobbiamo fare lo storno mi son messo a trillare che io so fare anche il merlo e
il gabbiano e questa gli si è iniettata la pupilla d’odio e mi ha strappato la
raccolta punti. I salumieri a fine giornata se gli chiedi il salame ti dicono
“è finito” e dietro hanno seicento salami appesi e se gli chiedi ragione ti
dicono che quella è una collezione privata non in vendita. Al banco del pesce
di fanno delle offerte imperdibili proponendoti delle splendide decomposizioni
di frutti di mare. Le donne delle pulizie si avvantaggiano passando dei
solventi chimici sul pavimento mentre tu ancora sei in giro col carrello e se
ti cade una monetina si scioglie subito. Un anziano l’altro giorno è scivolato
e son rimasti solo i bottoni del loden e tutti a chiedersi in che cazzo di
materiale son fatti ‘sti bottoni del loden. Il posto, il supermercato intendo,
è vicino casa. Un grosso supermercato di una grossa catena di supermercati
grossi che a vederlo a petto agli altri grossi che hanno piazzato per la grossa
Torino è un piccolo supermercato. A confrontarlo con la bottega del signor
Mezzelani dove facevo la spesa da piccolo è davvero enorme ma per l’onore del
signor Mezzelani c’è da dire che la bottega del signor Coccolo Otello, cito
come da insegna, era ancora più piccola ma pure sfamava mezzo quartiere. Le
dimensioni non sono importanti. Ma fanno la differenza.
All’ingresso c’è uno sceriffo di gomma che mi guarda
sempre male e chiede “Cosa c’è nel zaino”. La vita mia c’è nello zaino, e
glielo ripeto tutte le volte. C’è la macchina fotografica e il computer e i
quadernetti scritti fitti e le penne stilo e le matite e le gomme e le schede
di memoria e la pinza leatherman che fa suonare tutti i metal detector del quartiere ogni volta che esco di
case, e Cip e Ciop che sono due pupazzetti che mi ha regalato Orso, e il
cappello di lana e i guanti da moto e un accendino e un vecchio numero di Zagor
e un libro a caso, spesso un Urania, da leggere un po’ qui e un po’ lì. Della
pinza leatherman non gliene frega mai niente ma dice sempre “Minchia Cippe e
Cioppe, e che ci devi fare, ci devi dare a manciare i biscottini” e ride
muovendo le sopracciglia fatte dall’estetista. Non posso fare a meno di pensare
che attaccato al cinturone gli penzola una Beretta. Me lo immagino la sera
davanti allo specchio del cesso, in mutande e col ferro in pugno, muove il filo
di sopracciglia e dice “stai pallando commè, no ci sta nessuno qua, allora stai
a pallare a mme, ci sono pobblemi, no dico, dico a te…”. Poi va di là e picchia la moglie. Indipendentemente.
Il carrello non lo prendiamo mai ma ci impossessiamo
di certi cestelli con rotelle e manico telescopico che stanno alle casse. A
quest’ora a far la spesa ci sono gli abituali, che ormai ci si conosce tutti ma
non è certo un buon motivo per salutarsi. Tra gli scaffali frulla anche qualche
frettoloso che sta accroccando la cena al volo. Ci sono gli operai romeni che
comprano un paio di bistecche in offerta, che vuol dire che la bestia è morta
da mesi e l’hanno tenuta sepolta in un terreno k, qualche merendina e
diciannove bottiglie di birra di quelle grosse grosse colla birra schifa dentro
che quando la apri invece di fare il sibilo fa un rantolo che è bella
evocazione di morte. Ci sono i portoricani che abitano all’altro portone e
hanno un numero biologicamente impossibile di bambini al seguito, che si
sguinzagliano tra gli scaffali come la più efferata delle pandillas e cercano
di convincere madri culone e sorridenti, alte come il carrello, a comprare
confezioni enormi di patatine e ciclopiche scatole di qualsiasi cosa. Spesso i
nanetti s’azzuffano e sembra il set di un film di Rodriguez ma più vero e si
affrontano brandendo Mars e Bounty. Uno una volta ha scassato un barattolo di
yogurth in testa al fratello. Gliel’ha scoppiato sulla testa con uno
spettacolare effetto di colata. La madre quando se n’è accorta ha chiesto
ragione e parlava incazzata che sembrava uno Speedy Gonzales horror ma quelli
se ne restavano lì tostissimi nei loro sei anni e circa e nessuno accusava nessuno.
Neppure quello ricoperto di yogurth si lamentava. Credo che la madre alla fine
abbia rinunciato alle sberle per non imbrattarsi tutta ma nelle orecchie mi
girava una frase che è stata uno dei cardini della mia infanzia: “Poi a casa
avrai il resto”. A casa questi qui hanno anche tre cani razza pechinese e il
mio cane è innamorato perso della pechinesa femmina. Ma questa è un’altra
storia.
Stiamo girando tra i reparti cercando di fare il
punto sulla cena. La proposta delle pappardelle con la salsiccia e i funghi è
approvata all’unanimità, in culo al gelo che fuori se la tira da boss del
quartiere. Il secondo è un’opzione da valutare di volta in volta ma il pane lo
prendiamo che c’è il lardo da fare a fettine sottili e pure mezza forma di
pecorino da lavorare in punta di appetito. Prendiamo pure i taralli che la
nostra dieta base prevede i taralli un po’ come le foglie di eucalipto per i
koala. Io continuo a guardare la gente. Prima la faccia poi il contenuto del
carrello. Afferro frasi al volo e rubo microstorie. Una cosa compulsiva ma che
non procura dolori né fastidio. E di colpo mi si palesano davanti. Stanno al
centro del reparto macelleria che è una sorta di curva di Lesmo del circuito
dei consumi e i carrelli ci arrivano coll’impeto delle acque minerali, altra curva celebre, appena
passate in volata e cabrano per non piantarsi nel girarrosto dei polli che a
quest’ora è vuoto e gronda il grasso pompato a ormoni e mangimi chimici di
tutti i volatili che ha fatto girare nella giornata. Comunque loro, i miei personaggi del giorno, sono lì e li
intuisco nella loro potente macchina narrativa già all’altezza dei dentifrici.
Lascio il resto della ganga che punta verso il bancone della frutta, che due
arance a scongiurare il raffreddore ci stanno tutte. Mentre punto, e i miei lo
sanno che quando parto così non c’è nulla che può fermarmi, sibilo “A me
prendetemi i fichi secchi” che è pur sempre frutta. Sono in tre i miei personaggi del giorno. Lui ha
all’incirca una quarantacinquina d’anni sulle spalle secche secche. Siamo
coetanei alla grossa che a ben vedere lui potrebbe anche avercene una paccata
di meno ma portati malissimo. E ne ha ben donde. Ha le occhiaie scavate e
dentro due occhi rabbiosi, uno di quelli che di colpo scattano e ti spaccano
una sedia in testa dopo che s’è riso insieme tutta la sera. Che cazzo di gente
frequenti direte voi. Fatevi i cazzi vostri dirò io. Ha un berrettino di lana
calcatissimo fino agli occhi che guizzano sotto. Un bomber e pantaloni della
tuta da ginnastica. Un pugile di strada di quelle catogorie magretti e cattivi. Un truzzo da chilo che parla con una voce baritonale che
gli esce senza muovere le labbra. Le dita addobbate con certi anelli
cianfrusaglia e un tatuaggio da casanza sul dorso della mano. Barba lunga, una
di quelle barbe dure che ci puoi accendere i fiammiferi. Magrissimo. Ai piedi
ha un paio di mocassini che non vedevo da un pezzo, neri con la frangetta di
cuoio sulla mascherina. Si tiene per mano con una che sembra la fattucchiera di
Colobraro fotografata da Franco Pinna, solo un po’ più giovane. Ora ho scritto
Colobraro e se qualche lucano legge si tocca e fa le corna ma io non vi dico
niente. Cercate in rete. Lei è davvero tremenda. Gli mancano un mucchio di
denti, ha un naso adunco e gli occhi con un trucco pesantissimo a far coppia
con le occhiaie. I capelli sono di colori diversi stesi in sovrapposizione e a
casaccio. Mi fanno sospettare che sia un’istallazione d’arte contemporanea che
non saprò mai capire. Ha un giacchetto blu impermeabile e una voce stridente e
strascicatissima. Parole lentissime e acute che se rimani esposto a quei suoni
per venti minuti ne riporti danni gravi e permanenti. Ma non sono loro il
centro della scena. A spingere il carrello c’è una donna enorme, con un
cappotto blu elettrico che sembra il tendone del circo e un paio di occhiali
spessi. Nel carrello appunto c’è un carico che per spostarlo ci vorrebbe il
muletto ma a lei basta mettersi di peso sulla maniglia e via andare. Quando sono a portata di
orecchio me li sono già studiati e ho capito che il cetaceo cappottuto è la
madre di lui. Non è difficile arrivarci, lui si aggira tra gli scaffali e
ripete come in un mantra “mamma, mamma, mamma” con quella voce profonda che già
ho descritto. Ogni volta lei si gira e lui mostra una busta enorme di fondenti
alla menta, una confezione di polaretti, una bottiglia di Zabov con in regalo
un mazzo di carte. Lei lo guarda, piega la testa di lato con un sorriso e dice
“Certo amore, se ti piace prendilo”.
Lui tutto felice trotta verso il carrello che è ormai uno ziggurath del
superfluo domestico. Intanto la madre afferra dei pacchi di carne da sfamarci
un condominio e dice a lei “questa la metti nel forno a duecento gradi che a
Ezio con le patatine piace tantissimo e poi quando si fa la crosticina…”. Una
cantilena che si incunea nei residui di crack che l’altra si porta nei pensieri
e che la costringono a emettere dei monosillabi prolungati e acutissimi. Gli
passo vicino decine di volte, sempre con una cosa diversa in mano, La mia
guerra con quelli dell’antitaccheggio mi ha insegnato a sapere come si muovono,
fingendo interesse per le ali di pollo e l’idrolitina. Sono ipnotizzato. Ste e
Orso che son venuti a recuperarmi ridacchiando della mia faccia estatica, cadono
a loro volta nel trappolone e restano lì imbambolati. A un certo punto Ezio, che ho scoperto
anche come si chiama, spunta dal corridoio delle bibite e dice “mamma, mamma,
mamma” mostrando un bottiglione di cedrata, di una sottomarca che nulla ha a
che vedere con la mia adorata Tassoni. Lei sorride da copione e dice “prendila,
prendila” e rivolgendosi all’altra “ma voi ce l’avete il forno a casa?” che mi
fa intuire che a casa loro non c’è mai entrata. Appena riceve l’occhei della
madre il signor Ezio da il giro al tappo della cedrata e se la spara in gola
gorgogliando. Si sbrodola tutto e
poi si pulisce con la manica. La
madre sorride e capisco che in quel sorriso c’è concentrato il cancro del terzo
millennio, la madre nutrice motore distruttivo dell’umanità che quell’altro ha
cercato di esorcizzare fidanzandosi con un’antidonna, un surrogato di umanità
minima da mettere al passo della sua inutile fuga dai sorrisi di mamma. Lui
dopo aver bevuto la cedrata la chiude e la appoggia su uno scaffale, finalmente
un gesto di buona umanità in tutto quel tragico zuccherino. La mamma scuote la
testa e dice “Birbante, metti nel carrello”. Proprio così, dice birbante a un
quarantacinquenne che normalmente quando sta in secca la cedrata se la spara in
vena mischiandola coll’antigelo. L’altra sorride e non si ricorda perché.
Arrivano alla cassa, sono proprio dietro di noi. Comprano anche due carrellini
per portare la spesa e la madre dice “quando avete finito le cose mi telefonate
e rifacciamo la spesa” dondolando il cappotto ipnotico. Lui dice “minchia, gli
ovetti Kinder” e la madre ne prende due e dice “Uno per ciascuno”. Orso mi
guarda e mi sussurra “chiedigli se mi danno la sorpresa”. Lo spingo avanti e
ridiamo tutti e due. Orso è tutta la vita che arrivato alla cassa sogna che gli
si compri l’ovetto Kinder e noi s’è sempre opposto resistenza ma senza nemmeno
saperne il motivo recondito. Ora è tutto chiaro. Istinto di babbo. Se vi state
chiedendo del titolo lasciate perdere, è una trappola tesa ai motori di ricerca.
Sono un mago della comunicazione io.
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