mercoledì 8 febbraio 2012

calzolai vogliosi per femmine diplomate

-->



Al supermercato ci arrivo come al solito verso le otto di sera. Un’ora buona prima della chiusura. Le cassiere sono allo stremo delle forze e le teste ricadono sul piano e il lettore legge le ciglia finte come codici a barre e tocca fare lo storno, che io una volta che una ha detto dobbiamo fare lo storno mi son messo a trillare che io so fare anche il merlo e il gabbiano e questa gli si è iniettata la pupilla d’odio e mi ha strappato la raccolta punti. I salumieri a fine giornata se gli chiedi il salame ti dicono “è finito” e dietro hanno seicento salami appesi e se gli chiedi ragione ti dicono che quella è una collezione privata non in vendita. Al banco del pesce di fanno delle offerte imperdibili proponendoti delle splendide decomposizioni di frutti di mare. Le donne delle pulizie si avvantaggiano passando dei solventi chimici sul pavimento mentre tu ancora sei in giro col carrello e se ti cade una monetina si scioglie subito. Un anziano l’altro giorno è scivolato e son rimasti solo i bottoni del loden e tutti a chiedersi in che cazzo di materiale son fatti ‘sti bottoni del loden. Il posto, il supermercato intendo, è vicino casa. Un grosso supermercato di una grossa catena di supermercati grossi che a vederlo a petto agli altri grossi che hanno piazzato per la grossa Torino è un piccolo supermercato. A confrontarlo con la bottega del signor Mezzelani dove facevo la spesa da piccolo è davvero enorme ma per l’onore del signor Mezzelani c’è da dire che la bottega del signor Coccolo Otello, cito come da insegna, era ancora più piccola ma pure sfamava mezzo quartiere. Le dimensioni non sono importanti. Ma fanno la differenza.



All’ingresso c’è uno sceriffo di gomma che mi guarda sempre male e chiede “Cosa c’è nel zaino”. La vita mia c’è nello zaino, e glielo ripeto tutte le volte. C’è la macchina fotografica e il computer e i quadernetti scritti fitti e le penne stilo e le matite e le gomme e le schede di memoria e la pinza leatherman che fa suonare tutti i metal detector  del quartiere ogni volta che esco di case, e Cip e Ciop che sono due pupazzetti che mi ha regalato Orso, e il cappello di lana e i guanti da moto e un accendino e un vecchio numero di Zagor e un libro a caso, spesso un Urania, da leggere un po’ qui e un po’ lì. Della pinza leatherman non gliene frega mai niente ma dice sempre “Minchia Cippe e Cioppe, e che ci devi fare, ci devi dare a manciare i biscottini” e ride muovendo le sopracciglia fatte dall’estetista. Non posso fare a meno di pensare che attaccato al cinturone gli penzola una Beretta. Me lo immagino la sera davanti allo specchio del cesso, in mutande e col ferro in pugno, muove il filo di sopracciglia e dice “stai pallando commè, no ci sta nessuno qua, allora stai a pallare a mme, ci sono pobblemi, no dico, dico  a te…”. Poi va di là e picchia la moglie. Indipendentemente.



Il carrello non lo prendiamo mai ma ci impossessiamo di certi cestelli con rotelle e manico telescopico che stanno alle casse. A quest’ora a far la spesa ci sono gli abituali, che ormai ci si conosce tutti ma non è certo un buon motivo per salutarsi. Tra gli scaffali frulla anche qualche frettoloso che sta accroccando la cena al volo. Ci sono gli operai romeni che comprano un paio di bistecche in offerta, che vuol dire che la bestia è morta da mesi e l’hanno tenuta sepolta in un terreno k, qualche merendina e diciannove bottiglie di birra di quelle grosse grosse colla birra schifa dentro che quando la apri invece di fare il sibilo fa un rantolo che è bella evocazione di morte. Ci sono i portoricani che abitano all’altro portone e hanno un numero biologicamente impossibile di bambini al seguito, che si sguinzagliano tra gli scaffali come la più efferata delle pandillas e cercano di convincere madri culone e sorridenti, alte come il carrello, a comprare confezioni enormi di patatine e ciclopiche scatole di qualsiasi cosa. Spesso i nanetti s’azzuffano e sembra il set di un film di Rodriguez ma più vero e si affrontano brandendo Mars e Bounty. Uno una volta ha scassato un barattolo di yogurth in testa al fratello. Gliel’ha scoppiato sulla testa con uno spettacolare effetto di colata. La madre quando se n’è accorta ha chiesto ragione e parlava incazzata che sembrava uno Speedy Gonzales horror ma quelli se ne restavano lì tostissimi nei loro sei anni e circa e nessuno accusava nessuno. Neppure quello ricoperto di yogurth si lamentava. Credo che la madre alla fine abbia rinunciato alle sberle per non imbrattarsi tutta ma nelle orecchie mi girava una frase che è stata uno dei cardini della mia infanzia: “Poi a casa avrai il resto”. A casa questi qui hanno anche tre cani razza pechinese e il mio cane è innamorato perso della pechinesa femmina. Ma questa è un’altra storia.

Stiamo girando tra i reparti cercando di fare il punto sulla cena. La proposta delle pappardelle con la salsiccia e i funghi è approvata all’unanimità, in culo al gelo che fuori se la tira da boss del quartiere. Il secondo è un’opzione da valutare di volta in volta ma il pane lo prendiamo che c’è il lardo da fare a fettine sottili e pure mezza forma di pecorino da lavorare in punta di appetito. Prendiamo pure i taralli che la nostra dieta base prevede i taralli un po’ come le foglie di eucalipto per i koala. Io continuo a guardare la gente. Prima la faccia poi il contenuto del carrello. Afferro frasi al volo e rubo microstorie. Una cosa compulsiva ma che non procura dolori né fastidio. E di colpo mi si palesano davanti. Stanno al centro del reparto macelleria che è una sorta di curva di Lesmo del circuito dei consumi e i carrelli ci arrivano coll’impeto delle acque minerali, altra curva celebre, appena passate in volata e cabrano per non piantarsi nel girarrosto dei polli che a quest’ora è vuoto e gronda il grasso pompato a ormoni e mangimi chimici di tutti i volatili che ha fatto girare nella giornata. Comunque loro, i miei personaggi del giorno, sono lì e li intuisco nella loro potente macchina narrativa già all’altezza dei dentifrici. Lascio il resto della ganga che punta verso il bancone della frutta, che due arance a scongiurare il raffreddore ci stanno tutte. Mentre punto, e i miei lo sanno che quando parto così non c’è nulla che può fermarmi, sibilo “A me prendetemi i fichi secchi” che è pur sempre frutta. Sono in tre i miei personaggi del giorno. Lui ha all’incirca una quarantacinquina d’anni sulle spalle secche secche. Siamo coetanei alla grossa che a ben vedere lui potrebbe anche avercene una paccata di meno ma portati malissimo. E ne ha ben donde. Ha le occhiaie scavate e dentro due occhi rabbiosi, uno di quelli che di colpo scattano e ti spaccano una sedia in testa dopo che s’è riso insieme tutta la sera. Che cazzo di gente frequenti direte voi. Fatevi i cazzi vostri dirò io. Ha un berrettino di lana calcatissimo fino agli occhi che guizzano sotto. Un bomber e pantaloni della tuta da ginnastica. Un pugile di strada di quelle catogorie magretti e cattivi. Un truzzo da chilo che parla con una voce baritonale che gli esce senza muovere le labbra. Le dita addobbate con certi anelli cianfrusaglia e un tatuaggio da casanza sul dorso della mano. Barba lunga, una di quelle barbe dure che ci puoi accendere i fiammiferi. Magrissimo. Ai piedi ha un paio di mocassini che non vedevo da un pezzo, neri con la frangetta di cuoio sulla mascherina. Si tiene per mano con una che sembra la fattucchiera di Colobraro fotografata da Franco Pinna, solo un po’ più giovane. Ora ho scritto Colobraro e se qualche lucano legge si tocca e fa le corna ma io non vi dico niente. Cercate in rete. Lei è davvero tremenda. Gli mancano un mucchio di denti, ha un naso adunco e gli occhi con un trucco pesantissimo a far coppia con le occhiaie. I capelli sono di colori diversi stesi in sovrapposizione e a casaccio. Mi fanno sospettare che sia un’istallazione d’arte contemporanea che non saprò mai capire. Ha un giacchetto blu impermeabile e una voce stridente e strascicatissima. Parole lentissime e acute che se rimani esposto a quei suoni per venti minuti ne riporti danni gravi e permanenti. Ma non sono loro il centro della scena. A spingere il carrello c’è una donna enorme, con un cappotto blu elettrico che sembra il tendone del circo e un paio di occhiali spessi. Nel carrello appunto c’è un carico che per spostarlo ci vorrebbe il muletto ma a lei basta mettersi di peso sulla maniglia e  via andare. Quando sono a portata di orecchio me li sono già studiati e ho capito che il cetaceo cappottuto è la madre di lui. Non è difficile arrivarci, lui si aggira tra gli scaffali e ripete come in un mantra “mamma, mamma, mamma” con quella voce profonda che già ho descritto. Ogni volta lei si gira e lui mostra una busta enorme di fondenti alla menta, una confezione di polaretti, una bottiglia di Zabov con in regalo un mazzo di carte. Lei lo guarda, piega la testa di lato con un sorriso e dice “Certo amore, se ti piace prendilo”.  Lui tutto felice trotta verso il carrello che è ormai uno ziggurath del superfluo domestico. Intanto la madre afferra dei pacchi di carne da sfamarci un condominio e dice a lei “questa la metti nel forno a duecento gradi che a Ezio con le patatine piace tantissimo e poi quando si fa la crosticina…”. Una cantilena che si incunea nei residui di crack che l’altra si porta nei pensieri e che la costringono a emettere dei monosillabi prolungati e acutissimi. Gli passo vicino decine di volte, sempre con una cosa diversa in mano, La mia guerra con quelli dell’antitaccheggio mi ha insegnato a sapere come si muovono, fingendo interesse per le ali di pollo e l’idrolitina. Sono ipnotizzato. Ste e Orso che son venuti a recuperarmi ridacchiando della mia faccia estatica, cadono a loro volta nel trappolone e restano lì imbambolati. A un certo punto Ezio, che ho scoperto anche come si chiama, spunta dal corridoio delle bibite e dice “mamma, mamma, mamma” mostrando un bottiglione di cedrata, di una sottomarca che nulla ha a che vedere con la mia adorata Tassoni. Lei sorride da copione e dice “prendila, prendila” e rivolgendosi all’altra “ma voi ce l’avete il forno a casa?” che mi fa intuire che a casa loro non c’è mai entrata. Appena riceve l’occhei della madre il signor Ezio da il giro al tappo della cedrata e se la spara in gola gorgogliando.  Si sbrodola tutto e poi si pulisce con la manica.  La madre sorride e capisco che in quel sorriso c’è concentrato il cancro del terzo millennio, la madre nutrice motore distruttivo dell’umanità che quell’altro ha cercato di esorcizzare fidanzandosi con un’antidonna, un surrogato di umanità minima da mettere al passo della sua inutile fuga dai sorrisi di mamma. Lui dopo aver bevuto la cedrata la chiude e la appoggia su uno scaffale, finalmente un gesto di buona umanità in tutto quel tragico zuccherino. La mamma scuote la testa e dice “Birbante, metti nel carrello”. Proprio così, dice birbante a un quarantacinquenne che normalmente quando sta in secca la cedrata se la spara in vena mischiandola coll’antigelo. L’altra sorride e non si ricorda perché. Arrivano alla cassa, sono proprio dietro di noi. Comprano anche due carrellini per portare la spesa e la madre dice “quando avete finito le cose mi telefonate e rifacciamo la spesa” dondolando il cappotto ipnotico. Lui dice “minchia, gli ovetti Kinder” e la madre ne prende due e dice “Uno per ciascuno”. Orso mi guarda e mi sussurra “chiedigli se mi danno la sorpresa”. Lo spingo avanti e ridiamo tutti e due. Orso è tutta la vita che arrivato alla cassa sogna che gli si compri l’ovetto Kinder e noi s’è sempre opposto resistenza ma senza nemmeno saperne il motivo recondito. Ora è tutto chiaro. Istinto di babbo. Se vi state chiedendo del titolo lasciate perdere, è una trappola tesa ai motori di ricerca. Sono un mago della comunicazione io.






Nessun commento:

Posta un commento