Ballavo tra i venti e i ventuno e vivevo insieme a un
mucchio di gente. Un numero mai determinanto con picchi d’affollamento e altri giorni
a misurare l’eco solitario dei passi miei su una scala di legno
vecchia come un galeone. Un giardino che diventava orto e che dividevamo con
una donna di quasi cent’anni che si chiamava Venere e c’è da dire che se ti
chiami così puoi averci addosso i morsi del buono e del cattivo tempo ma ti
resta un fascino che non son buono a dire. Venere tutte le mattine partiva con
la bicicletta e quando dormiva nella casa accanto le tornavano agli occhi certe
cose della vita sua e gridava e bestemmiava e combatteva i sogni e gli incubi
con quella forza sua. Poi c’era il
canale, la roggia e oltre, dopo certe casette di marzapane e sudore, c’era e
c’è Villaggio Metallico con le baracche e le roulotte e le grigliate e la
musica e i cavalli a pascolare davanti al cimitero. Dall’altra parte c’era il
campo di atletica e un numero impossibile di osterie e bar. Avevo una 127 verde
che stava in piedi con il nastro adesivo e non per modo di dire, proprio grazie
a vari giri di nastro passati nei punti vitali. La stanza nostra era quella di
mezzo, che la casa si sviluppava come una torre e avevamo una terrazza enorme
che era poi il tetto del piano di sotto. In quella stanza ci stavamo giorno e
notte ficcati nel letto a impazzire di noi ma detto così sembra una canzone di
Baglioni e invece era una cosa da misurare con la scala Mercalli, che il giorno
dell’esame della patente son rimasto impigliato nelle lenzuola e non mi sono
presentato ma rifarei uguale mille altre volte. Poi c’erano gli altri esami,
quelli dell’università, e si stava la notte sbattuti sul divano verde sfondato
da me medesimo un giorno che c’eravamo imbenzinati di ananas e non mi ricordo
che alcolici. Libri e dispense aperti in giro, gente aperta in giro, casino
sempre, senza tetto né legge e sigarette accese e latte e biscotti alle tre di
notte e musica con le cassette. Sul campanello c’era scritto “Baudo
Pippo”. I soldi erano una cosa che
più che altro intuivamo. Appena c’era odor di moneta in giro ce ne andavamo a
cena e facevamo delle feste a bestia e poi si passava i giorni a organizzare
dei pasti in bilico sull’esistenza, prendendo il pane dalle ceste della mensa
universitaria e l’altro cibo in mille altri modi che non ho voglia di
descrivere perché non mi è chiarissimo il concetto di prescrizione. Scherzo
ovviamente. Ci hai creduto faccia di velluto. Ecco, ora che mi son messo in
piedi un’alibi mica da ridere proseguo con il racconto. Un giorno di settembre
stavamo facendo i conti con le bollette o forse con la cena, vai a ricordarti.
Eravamo al bar che noi chiamavamo in confidenza Cicorione per la qualità del
suo caffè che ricordava certi splendidi succedanei d’autarchia. Sul giornale
leggiamo che cercavano gente per la vendemmia a Buttrio. La fame batteva alla
porta e mica per scherzo. Si decide. Io e Jump, abili e arruolati tra i
procacciatori di cibo in ragione della forza delle braccia, che nemmeno l’uomo
di Cro Magnon aveva una struttura sociale così raffinata. Raccogliamo i soldi
rimasti tra tutti per un fondo di benza da regalare alla 127 e partiamo alla
volta delle vigne. Arrivati lì ci prendono al volo ma ci dicono di tornare dopo
pranzo. Abbiamo due spiccioli, che poi è il capitale di tutta la comunità, e
decidiamo di mangiare un boccone per metterci in forze. Entriamo in una casa
osteria, con la famiglia che vive dove mesce il vino e affetta il salame per i
clienti. Ci sediamo al tavolo e alla signora che ci sorride diciamo “Mangiamo
quello che si può mangiare con milleottocento lire”. Ci porta due piatti enormi
di penne al ragù, ci chiede se siamo lì per lavorare nelle vigne, ci porta il
bottiglione del vino e un pezzo significativo di formaggio. Capisce che siamo intimiditi
e ci dice di magiare quello che vogliamo. Praticamente ci regala un pranzo che
ci convince ancora una volta che tocca vivere tutto quello che si può. Pure il
caffè ci porta e pure la grappa per correggerlo. E ci sorride mentre ci alziamo
e ci guarda andare via con una tenerezza che per me non è d’abitudine sentirmi
addosso. Usciamo e c’è il sole e siamo felici oltre ogni lecita misura.
Addormentarci nell’erba davanti alla chiesetta è un lampo. Ci svegliamo ore
dopo. Proviamo anche a presentarci a quelli della vendemmia che ci mandano via
di malo modo. Torniamo a casa e ci trattano come degli imbecilli. Come altro
altrimenti. Descriviamo pure il pranzo con un entusiasmo che non ci si
cancella. Arrangiamo la cena e non
voglio ricordarmi come. La notte son lì che ci penso a come sfamare la tribù,
che mi figuro che faceva così anche l’uomo delle caverne e di colpo mi ricordo.
La ceppaia dei pioppini. Ci sono andato mille volte con mio padre e mio
fratello da piccolo. Sta in culo ai lupi la maledetta ceppaia ma il periodo è
quello buono. In culo a quei lupi poi mi ci sono comprato la casa che a quel
prezzo nel resto del mondo ci compravo un monopattino. Per arrivarci prendo la
bici da corsa di Jump, una Bottecchia che un tempo fu di un suo zio. La bici
aveva i suoi anni e se l’era vista alla pari con Girardengo e Bartali. Parto
sotto un cazzo di sole che uccide per andare a raccogliere i funghi della
ceppaia, i pioppini che per una vita hanno fatto la magia della cena a casa
mia. Pedalo pedalo pedalo. Ancora, pedalo pedalo pedalo. Bevo da una borraccia militare
che si ricorda le offensive con i gas sul Carso triestino nella prima guerra
mondiale e infatti l’acqua è leggermente gasata. Pedalo pedalo pedalo. Arrivo
alla fine sul posto e comincio a frugare sotto i tronchi, tra le vene a fior di
terra delle radici. Niente. Vedo le basi dei funghi nel terreno. Un taglio
preciso a coltello. Sono stato preceduto. Poi la trovo sul sentiero con un
cesto pieno di funghi e è una cazzo di vecchia mammana che quasi quasi le rubo
il paniere ma poi lei mi fa un sortilegio e divento un toporagno e allora
lascio perdere che con certe cose non si scherza. Giro la bici e torno e pedalo
pedalo pedalo. Pedalo pedalo pedalo. Arrivato a qualche centinaio di metri da
casa un tizio m’afferra il braccio e io non sono tipo che mi afferri il braccio
e resto lì a sorridere e penso che cazzo vuole e già lo afferro a mia volta ma
questo sorride. “Ce la dai una mano, dai che sei grande e grosso”. Sta storia
del grande e grosso non porrta vantaggi. Devono portare un pianoforte al terzo
piano di una casa. Il pianoforte a sollevarlo mi immagino che dentro sia pieno
di armi. Sono trafficanti internazionali di porfido e lo contrabbandano nei
pianoforti penso ancora, che io quando penso faccio paura per intuito e raziocinio.
Pesa come il carro di Matera prima dello strappo. Siamo in tre. Una puttana
fatica. Arrivati a destinazione sorrido e saluto e quello mi insegue e mi ficca
in tasca diecimila lire. Nessuno mi toglie dalla testa che è stata la mammana
del bosco o la fata dell’osteria o una botta di culo, che io il culo lo venero
da sempre come un dio. Alla memoria dei pioppini.
Nessun commento:
Posta un commento