giovedì 9 febbraio 2012

Da Timothy Leary ai puffi. Storie di funghi e di fango.




Ballavo tra i venti e i ventuno e vivevo insieme a un mucchio di gente. Un numero mai determinanto con picchi d’affollamento e altri giorni a misurare l’eco solitario dei passi miei su una scala di legno vecchia come un galeone. Un giardino che diventava orto e che dividevamo con una donna di quasi cent’anni che si chiamava Venere e c’è da dire che se ti chiami così puoi averci addosso i morsi del buono e del cattivo tempo ma ti resta un fascino che non son buono a dire. Venere tutte le mattine partiva con la bicicletta e quando dormiva nella casa accanto le tornavano agli occhi certe cose della vita sua e gridava e bestemmiava e combatteva i sogni e gli incubi con quella forza sua.  Poi c’era il canale, la roggia e oltre, dopo certe casette di marzapane e sudore, c’era e c’è Villaggio Metallico con le baracche e le roulotte e le grigliate e la musica e i cavalli a pascolare davanti al cimitero. Dall’altra parte c’era il campo di atletica e un numero impossibile di osterie e bar. Avevo una 127 verde che stava in piedi con il nastro adesivo e non per modo di dire, proprio grazie a vari giri di nastro passati nei punti vitali. La stanza nostra era quella di mezzo, che la casa si sviluppava come una torre e avevamo una terrazza enorme che era poi il tetto del piano di sotto. In quella stanza ci stavamo giorno e notte ficcati nel letto a impazzire di noi ma detto così sembra una canzone di Baglioni e invece era una cosa da misurare con la scala Mercalli, che il giorno dell’esame della patente son rimasto impigliato nelle lenzuola e non mi sono presentato ma rifarei uguale mille altre volte. Poi c’erano gli altri esami, quelli dell’università, e si stava la notte sbattuti sul divano verde sfondato da me medesimo un giorno che c’eravamo imbenzinati di ananas e non mi ricordo che alcolici. Libri e dispense aperti in giro, gente aperta in giro, casino sempre, senza tetto né legge e sigarette accese e latte e biscotti alle tre di notte e musica con le cassette. Sul campanello c’era scritto “Baudo Pippo”.  I soldi erano una cosa che più che altro intuivamo. Appena c’era odor di moneta in giro ce ne andavamo a cena e facevamo delle feste a bestia e poi si passava i giorni a organizzare dei pasti in bilico sull’esistenza, prendendo il pane dalle ceste della mensa universitaria e l’altro cibo in mille altri modi che non ho voglia di descrivere perché non mi è chiarissimo il concetto di prescrizione. Scherzo ovviamente. Ci hai creduto faccia di velluto. Ecco, ora che mi son messo in piedi un’alibi mica da ridere proseguo con il racconto. Un giorno di settembre stavamo facendo i conti con le bollette o forse con la cena, vai a ricordarti. Eravamo al bar che noi chiamavamo in confidenza Cicorione per la qualità del suo caffè che ricordava certi splendidi succedanei d’autarchia. Sul giornale leggiamo che cercavano gente per la vendemmia a Buttrio. La fame batteva alla porta e mica per scherzo. Si decide. Io e Jump, abili e arruolati tra i procacciatori di cibo in ragione della forza delle braccia, che nemmeno l’uomo di Cro Magnon aveva una struttura sociale così raffinata. Raccogliamo i soldi rimasti tra tutti per un fondo di benza da regalare alla 127 e partiamo alla volta delle vigne. Arrivati lì ci prendono al volo ma ci dicono di tornare dopo pranzo. Abbiamo due spiccioli, che poi è il capitale di tutta la comunità, e decidiamo di mangiare un boccone per metterci in forze. Entriamo in una casa osteria, con la famiglia che vive dove mesce il vino e affetta il salame per i clienti. Ci sediamo al tavolo e alla signora che ci sorride diciamo “Mangiamo quello che si può mangiare con milleottocento lire”. Ci porta due piatti enormi di penne al ragù, ci chiede se siamo lì per lavorare nelle vigne, ci porta il bottiglione del vino e un pezzo significativo di formaggio. Capisce che siamo intimiditi e ci dice di magiare quello che vogliamo. Praticamente ci regala un pranzo che ci convince ancora una volta che tocca vivere tutto quello che si può. Pure il caffè ci porta e pure la grappa per correggerlo. E ci sorride mentre ci alziamo e ci guarda andare via con una tenerezza che per me non è d’abitudine sentirmi addosso. Usciamo e c’è il sole e siamo felici oltre ogni lecita misura. Addormentarci nell’erba davanti alla chiesetta è un lampo. Ci svegliamo ore dopo. Proviamo anche a presentarci a quelli della vendemmia che ci mandano via di malo modo. Torniamo a casa e ci trattano come degli imbecilli. Come altro altrimenti. Descriviamo pure il pranzo con un entusiasmo che non ci si cancella.  Arrangiamo la cena e non voglio ricordarmi come. La notte son lì che ci penso a come sfamare la tribù, che mi figuro che faceva così anche l’uomo delle caverne e di colpo mi ricordo. La ceppaia dei pioppini. Ci sono andato mille volte con mio padre e mio fratello da piccolo. Sta in culo ai lupi la maledetta ceppaia ma il periodo è quello buono. In culo a quei lupi poi mi ci sono comprato la casa che a quel prezzo nel resto del mondo ci compravo un monopattino. Per arrivarci prendo la bici da corsa di Jump, una Bottecchia che un tempo fu di un suo zio. La bici aveva i suoi anni e se l’era vista alla pari con Girardengo e Bartali. Parto sotto un cazzo di sole che uccide per andare a raccogliere i funghi della ceppaia, i pioppini che per una vita hanno fatto la magia della cena a casa mia. Pedalo pedalo pedalo. Ancora, pedalo pedalo pedalo. Bevo da una borraccia militare che si ricorda le offensive con i gas sul Carso triestino nella prima guerra mondiale e infatti l’acqua è leggermente gasata. Pedalo pedalo pedalo. Arrivo alla fine sul posto e comincio a frugare sotto i tronchi, tra le vene a fior di terra delle radici. Niente. Vedo le basi dei funghi nel terreno. Un taglio preciso a coltello. Sono stato preceduto. Poi la trovo sul sentiero con un cesto pieno di funghi e è una cazzo di vecchia mammana che quasi quasi le rubo il paniere ma poi lei mi fa un sortilegio e divento un toporagno e allora lascio perdere che con certe cose non si scherza. Giro la bici e torno e pedalo pedalo pedalo. Pedalo pedalo pedalo. Arrivato a qualche centinaio di metri da casa un tizio m’afferra il braccio e io non sono tipo che mi afferri il braccio e resto lì a sorridere e penso che cazzo vuole e già lo afferro a mia volta ma questo sorride. “Ce la dai una mano, dai che sei grande e grosso”. Sta storia del grande e grosso non porrta vantaggi. Devono portare un pianoforte al terzo piano di una casa. Il pianoforte a sollevarlo mi immagino che dentro sia pieno di armi. Sono trafficanti internazionali di porfido e lo contrabbandano nei pianoforti penso ancora, che io quando penso faccio paura per intuito e raziocinio. Pesa come il carro di Matera prima dello strappo. Siamo in tre. Una puttana fatica. Arrivati a destinazione sorrido e saluto e quello mi insegue e mi ficca in tasca diecimila lire. Nessuno mi toglie dalla testa che è stata la mammana del bosco o la fata dell’osteria o una botta di culo, che io il culo lo venero da sempre come un dio. Alla memoria dei pioppini.

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