Da tutta la vita mi ripeto che mi piacerebbe fare un
documentario sulla bestia uomo, giocando sui criteri narrativi dei documentari
classici, quelli col leone nella savana che si spanza sotto l’albero e la scena
dopo con la leonessa che attacca gli impala mentre si abbeverano al fiume.
Alcuni potranno riscontrare in questa mia suggestione l’ennesimo indizio che
porta i più intimi a ritenermi ossessionato in maniera compulsiva dalla figura
filmica di Tarzan e ammetto che certa mia propensione alla mutanda leopardata
non aiuta ma in questo caso lo scopo scientifico prevale. Proviamo a immaginare
una sorta di storyboard, una traccia su cui muovere i passi del mio racconto
documentaristico. Lo scenario è la città che è qui che la bestia uomo agisce in
tutta la sua agghiacciante ferinità. Il risveglio con l’ingozzo al bancone di
certi bar del centro dove fai colazione inzuppando nel cappuccino i gomiti
degli altri pressati con te. Bave di marmellata sospese tra il labbro e il
cornetto, tracce di grevi strati di rossetto impastano i bordi delle tazzine,
qualcuno chiede un caffè corretto e son quelli più rassicuranti che a quest’ora
a far paura sono i cravattuti che stanno rientrando nel loro mondo smartphone e
ne usciranno solo a sera per la partita di calcetto con gli amici o una scopata
alla veloce con la donna, spesso altrettanto coinvolta nello smartmondo, giusto
per timbrare il cartellino all’esistenza. Li chiamo da sempre i tecnocasa
perché sotto casa mia ce n’erano una schiera colle sopracciglia sottilissime e
la cravatta sgargia e le femmine taglierizzate il giusto. E poi la mattina
fanno paura quelle tutte corazzate di trucco e spazzola che vanno a lavorare al
negozio e si portano dentro una vipera che morde l’anima. E poi quelli e quelle
che corrono a portare i figli ai nonni, all’asilo, a scuola e fanno
i conti col respiro corto e con la cena che comporta rapide incursioni serali
al supermercato e ancora fiato che manca.
Ma non sono questi quelli che mi interessano davvero per il mio
documentario, questi son facili, li trovi in ogni angolo della giungla città. A
me piacciono quelli che restano dopo la grande mareggiata, quelli che non hanno
fretta e quelli che non hanno e basta. I vecchietti al parco che li vedi e
pensi “eccerto, tu te lo puoi permettere di portare il botolo alle dieci ma io
che lavoro…” salvo poi ritrovarli anche alle sei del mattino al parco. Il mio
preferito era un serbo che dormiva nelle panchine del parco quest’estate e che
come gli altri è sparito dopo che hanno lasciato stecchito un puscher proprio
lì. Questo tizio si alzava e andava seminudo a lavarsi alla fontana. Poi si
rivestiva avendo cura di mettersi le magliette e i calzoni che aveva lavato la
sera prima e messo a asciugare sulla panchina. Poi dallo zaino militare, lui stesso
aveva avuto un passato in armi e la traccia di certi condizionamenti era
evidente, tirava fuori un fornelletto un bricco di alluminio e si faceva il tè.
Il fornelletto era di quelli pieghevoli che vanno con la pastiglietta di
combustibile. Minimalissimo ma efficace. Poi si faceva una sigaretta, se c’ero
io facevamo due chiacchiere, rimetteva tutto nello zaino e spariva verso il
centro. La sera era di nuovo lì. Mi colpiva questa sua ossessione per
l’abitudine, che pensi sempre che se davvero ti vuoi lasciare andare alla
strada a quel punto fai come cazzo viene e invece lui aveva ‘sta disciplina che
non capivo, che non mi appartiene e che sarebbe stato un bel documentario di
insuccesso. Del resto sono il più grande narratore di insuccesso che la storia delle
storie ricordi e quindi il cerchio si chiude.
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