martedì 24 gennaio 2012

favorisca i documentari





Da tutta la vita mi ripeto che mi piacerebbe fare un documentario sulla bestia uomo, giocando sui criteri narrativi dei documentari classici, quelli col leone nella savana che si spanza sotto l’albero e la scena dopo con la leonessa che attacca gli impala mentre si abbeverano al fiume. Alcuni potranno riscontrare in questa mia suggestione l’ennesimo indizio che porta i più intimi a ritenermi ossessionato in maniera compulsiva dalla figura filmica di Tarzan e ammetto che certa mia propensione alla mutanda leopardata non aiuta ma in questo caso lo scopo scientifico prevale. Proviamo a immaginare una sorta di storyboard, una traccia su cui muovere i passi del mio racconto documentaristico. Lo scenario è la città che è qui che la bestia uomo agisce in tutta la sua agghiacciante ferinità. Il risveglio con l’ingozzo al bancone di certi bar del centro dove fai colazione inzuppando nel cappuccino i gomiti degli altri pressati con te. Bave di marmellata sospese tra il labbro e il cornetto, tracce di grevi strati di rossetto impastano i bordi delle tazzine, qualcuno chiede un caffè corretto e son quelli più rassicuranti che a quest’ora a far paura sono i cravattuti che stanno rientrando nel loro mondo smartphone e ne usciranno solo a sera per la partita di calcetto con gli amici o una scopata alla veloce con la donna, spesso altrettanto coinvolta nello smartmondo, giusto per timbrare il cartellino all’esistenza. Li chiamo da sempre i tecnocasa perché sotto casa mia ce n’erano una schiera colle sopracciglia sottilissime e la cravatta sgargia e le femmine taglierizzate il giusto. E poi la mattina fanno paura quelle tutte corazzate di trucco e spazzola che vanno a lavorare al negozio e si portano dentro una vipera che morde l’anima. E poi quelli e quelle che corrono a portare i figli ai nonni, all’asilo, a scuola e fanno i conti col respiro corto e con la cena che comporta rapide incursioni serali al supermercato e ancora fiato che manca.  Ma non sono questi quelli che mi interessano davvero per il mio documentario, questi son facili, li trovi in ogni angolo della giungla città. A me piacciono quelli che restano dopo la grande mareggiata, quelli che non hanno fretta e quelli che non hanno e basta. I vecchietti al parco che li vedi e pensi “eccerto, tu te lo puoi permettere di portare il botolo alle dieci ma io che lavoro…” salvo poi ritrovarli anche alle sei del mattino al parco. Il mio preferito era un serbo che dormiva nelle panchine del parco quest’estate e che come gli altri è sparito dopo che hanno lasciato stecchito un puscher proprio lì. Questo tizio si alzava e andava seminudo a lavarsi alla fontana. Poi si rivestiva avendo cura di mettersi le magliette e i calzoni che aveva lavato la sera prima e messo a asciugare sulla panchina. Poi dallo zaino militare, lui stesso aveva avuto un passato in armi e la traccia di certi condizionamenti era evidente, tirava fuori un fornelletto un bricco di alluminio e si faceva il tè. Il fornelletto era di quelli pieghevoli che vanno con la pastiglietta di combustibile. Minimalissimo ma efficace. Poi si faceva una sigaretta, se c’ero io facevamo due chiacchiere, rimetteva tutto nello zaino e spariva verso il centro. La sera era di nuovo lì. Mi colpiva questa sua ossessione per l’abitudine, che pensi sempre che se davvero ti vuoi lasciare andare alla strada a quel punto fai come cazzo viene e invece lui aveva ‘sta disciplina che non capivo, che non mi appartiene e che sarebbe stato un bel documentario di insuccesso. Del resto sono il più grande narratore di insuccesso che la storia delle storie ricordi e quindi il cerchio si chiude.

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