martedì 4 giugno 2013

vita a noleggio



Nel 1951 Luchino Visconti racconta una storia che è una riflessione sui meccanismi mediatici e che a distanza di tempo rimane spietatamente efficace e forse più comprensibile di quando fu proposta nelle sale cinematografiche. Il film si intitola “Bellissima” e racconta di una madre, interpretata da Anna Magnani, che punta tutto sulla figlioletta per cercare di raggiungere il successo nel mondo dello spettacolo che in gioventù le era stato negato. Soldi spesi per lezioni di ballo e di dizione, per album fotografici, sarti e parrucchieri, che gravano su un magrissimo bilancio familiare e che scatenano le liti in famiglia. Ma la madre non sente ragioni e rincorre il suo sogno trasferito sulle spalle esili della bambina che in questo vorticare di eventi si ritrova spaesata e intimidita. Il film finisce a trallucci e vino, con la madre che capisce, di fronte al tragico provino della figlia in lacrime mentre tutti ridono, che ha sbagliato tutto e rifiuta sdegnosamente il contratto che pure le verrà proposto in nome della rinnovata armonia familiare.  Del resto se vi capita di passare da una scuola calcio dove si allenano i ragazzini leggerete la malata frustrazione di genitori urlanti che si picchiano tra loro e urlano al figlio “spaccagli le gambe” perché non riescono a far tornare i conti con la loro vita.





  Mi ricordo la prima volta che ho visto a un concerto di Bruce Springsteen un bambino cantare “Waitin’ On A Sunny Day”. In quella tourneé il Boss s’era inventato che a un certo punto prendeva un ragazzino dal pubblico e gli faceva cantare il ritornello e tutti impazzivano. 






 Negli States la cosa pareva plausibile ma poi arriva in Italia, in Francia, in Germania e puntuale c’è sempre un ragazzino che canta perfetto il ritornello. Ho visto il miracolo del sangue di cinquantamila che si scioglieva mentre una voce bambina cantava timida. E anche quest’anno davanti ai palchi ci sono sempre i ragazzini preparatissimi e allora penso a mio figlio anni dodici che si spacca le dita sulla chitarra ma se gli dici canticchia la canzoncina ti manda a fare in culo per timidezza certo, che a lui Bruce gli piace e gli piace il tiro della E Street Band e dorme abbracciato alla Telecaster. Però mi sono immaginato i genitori che stanno lì a far imparare il ritornello alla bimba e poi magari la portano sotto il palco e ne scelgono un’ altra o magari, probabilmente anzi, è tutto combinato e comunque quella piccolina o piccolino s’è dovuto imparare il suo ritornello e sta lì davanti col cuore in gola e di certo non è stata una sua idea. Proprio per niente. E non mi fa più sorridere e non mi piace neanche che gli altri, tutti gli altri fingano che sia una cosa spontanea. Non c’è più sorpresa ma una macchina scenica poco convincente, imbarazzante, ficcata dentro la polpa di uno degli spettacoli rock più belli di sempre. Insomma, non m’è sembrata una cosa bella questa volta la canzoncina. Troppo plasticosa. Come Obama che mangia il panino al fast food. Come il papa che si siede su una sediuccia al posto del trono e guarda che ora s’è fatta all’orologio da polso. Forse come Springsteen che arriva a Milano in treno. Ho ben presente quanto amo e ho amato le canzoni di Bruce. Ho ben presente a cosa fanno da preludio nella storia quelli che ti spiegano che sono come la gente normale. La gente normale non lo deve spiegare mai, la differenza è lì. Forse Elvis e Nixon non stavano sullo stesso palco ma forse ne muoiono oggi in Iraq come allora in Vietnam. I conti non tornano ma il conto del panino soprattutto chi lo paga. Ora se questo ragionamento me lo faceva un altro mi sarei incazzato ma me lo faccio da solo e il mio amore per quelle canzoni e fuori discussione per cui condivido serenamente. Però provo un disagio strano, lo stesso che provo tutte le volte che vedo le cose e mi sembrano troppo finte. O davvero credete che Mussolini falciasse il grano sul serio. No, vi conosco e me lo immagino che non ci avete creduto. Soprattutto non avete creduto alla gioia della bimba che tendeva il mazzo di fiori. Nemmeno in nome dello spettacolo.

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