sabato 8 giugno 2013

un nemico qualsiasi

questa storia la vorremmo raccontare in giro appoggiandola alle canzoni di Loris Vescovo, facendola vivere su un palco dove si muovono danze e immagini. è la storia di una guerra e di tutte le guerre, senza spazio e tempo ma tutto quello che si racconta è accaduto davvero e l'abbiamo ritrovato tra i documenti che accompagnano con dovizia di particolari la fine di una guerra che non è mai la fine della guerra. stateci vicini.


Da piccole mia nonna ci ha insegnato a distinguere il bene dal male attraverso i suoi racconti, che erano un intreccio fitto di parole a fil di voce, con le sue dita mosse nell’aria come mantidi tese ad afferrare la nostra attenzione. Il bene era tutto concentrato nelle storie di solidarietà, di lealtà, di generosità, di dignità, tutte parole con un accento che scoppia in fondo per dare clamore a quello che devono evocare. Il male era una massa densa e scura di gesti che andavano dal sorriso negato alla morte inferta. Ci voleva poco a capire che il marcatore del male, una sorta di prova del nove quando ti afferrava qualche dubbio etico, passava tutto dal dolore degli altri che avrebbe potuto essere anche il tuo dolore.



Uccidere, assassinare, strappare alla vita, colpire, tagliare, smembrare. Il delitto orrendo, quello maledetto di cui non ci si deve macchiare mai. Assolutamente. Questa idea ce la portavamo dentro piantata a cuneo, qualcuno canterebbe, tra l’aorta e l’intenzione. Sembrava una certezza incancellabile. Fino a quando s’è cominciato a parlare del nemico. All’inizio erano vaghe allusioni, più un dirselo per bisbigli, guardandosi attorno per vedere se ad ascoltare c’erano i più piccoli. In ragione del fatto che i bambini non sanno dominare la paura. Così si diceva tra adulti. Nei giorni successivi però il nemico s’è imposto nei nostri gesti quotidiani come una presenza carica di angoscia ma sempre con quel sospeso che non sai afferrare. Dentro, in fondo alla pancia, dove va a frugare la bestia fottuta della paura, scattava un meccanismo di difesa piuttosto elementare che ti sussurrava “vedrai che non è vero”.



Un giorno vidi il cane dei vicini precipitarsi su un uccellino, un nidiaceo caduto dal tetto e rimasto sul piazzale stordito e incapace d’essere volo. Il cane lo afferrò e in quel morso e in quello scuotimento c’era già il senso di una fine ineluttabile. Eppure corsi a vedere, negando l’evidenza di quella violenza, sperando di non trovare quella morte che già sapevo. Già… sperando. Sempre per quella difesa minima che possiamo permetterci quando è già difficile darci definizione plausibile del male.



All’inizio il nemico aveva forma di nebbia nei nostri racconti. Mai concreto, era da subito maledettamente cattivo, maledettamente efficiente nella sua pratica dolorosa e nell’altra valle dice che li hanno portati sulla riva del torrente e poi uccisi lasciando i corpi ad avvelenare l’acqua. Ma prima hanno bruciato, violentato, mutilato, deriso, rubato. A ogni nuovo racconto della stessa storia s’aggiungeva un particolare ennesimo, qualcosa che fino a quel momento non s’era riusciti neppure a immaginare. A riprova che anche con la fantasia il nemico ci superava. Una fantasia esercitata con la morte assegnata d’ufficio, ancora, una fantasia che noi non sapevamo eccitare nei nostri pensieri. Perché, ve l’ho già detto, l’assassinio era per noi il peggiore di tutti i peccati.



Ora sono mesi che questa guerra continua e non servono più i racconti, perché il fumo che si alza nero dagli altri villaggi lo sappiamo vedere anche senza indicarcelo con il dito puntato. Del resto tutti i racconti hanno perso la foga dei primi tempi. Ora quello che c’è da sapere lo leggiamo sulla faccia dei nostri che tornano. Le ferite sono sangue vero che azzera tutti i bastioni difensivi dietro cui abbiamo asserragliato i nostri pensieri. La realtà non lascia nessuno scampo ai dubbi. Non c’è più “sarà vero?”, sostituito da un lacerante “vorrei non lo fosse”. A darci conferma che anche da adulti dominare la paura è un bell’azzardo. E uccidere non è più una colpa incancellabile e la nostra regola più rigida si piega ogni giorno alla convinzione che monta dentro gli uomini del nostro villaggio. Uccidere non è più una colpa maledetta e basta, adesso è chiaro che la misura della colpa sta tutta nel colore del sangue che ora, mentre torni al villaggio, t'ha sporcato le mani. Ci sono i morti giusti e quelli sbagliati. Ci sono i morti. Quest'evidenza lacerante ci ha rubato i giorni e il respiro del sonno. Abbiamo paura di morire e paura della maledizione che i nostri uomini si portano addosso con il sangue dei nemici. Ci hanno fatto a pezzi. Ci hanno sbranato la libertà di non voler ricevere e dare dolore. La libertà appunto.



Poi i nostri uomini sono spariti. Non sono più tornati al villaggio. Al tramonto partivano e tornavano a giorno fatto. Restavano lì, buttati in un angolo a dormire con un respiro di cui avevamo paura di riconoscere l’alito. Le armi in piedi, appoggiate alle pareti, e i più piccoli che le spiavano in bilico sul divieto assoluto di toccarle, di pensarle, di sfiorarle. Gli uomini di giorno parlavano solo tra loro, a bassa voce. Mangiavano quel poco che si riuscivano a procurare le donne e poi dormivano. La nonna ci diceva di non fare rumore per non svegliarli ma noi avevamo visto mille volte i nostri padri, gli zii, i fratelli, i cugini e i vicini di casa buttati lì per terra con gli occhi sbarrati nel vuoto. Lo sapevamo che quello non si poteva chiamare sonno. E poi erano partenze e ancora ritorni. Quando li vedevano risalire verso il villaggio le donne da lontano tenevano il conto e cercavano di leggere nel passo pesante di quell’ultimo tratto di sentiero l’esito di quella notte ancora maledetta. I feriti già da lontano venivano valutati ma erano tornati e già era qualcosa. Poi c’erano quelli che non ricomparivano sulla strada del ritorno e vecchi e donne che piangevano di un lamento silenzioso, chè tutto ormai andava misurato sulla paura d’essere solo intuiti in quel lembo di terra che pensavamo nostro da sempre. Poi gli uomini, tutti gli uomini, hanno smesso di tornare e qualche donna ha preso le armi rimaste ancora al villaggio ed è stata inghiottita dall’orrore oltre la collina. E il fumo c’era sempre ma ora ne sentivamo anche l’odore.




Sono arrivati al villaggio la prima volta. Sono scesi dai camion e gridavano. Polvere sollevata e le poche bestie che correvano terrorizzate e bambini che piangevano. Tutti correvano senza sapere dove. Il prezioso contenuto delle pentole magre restava abbandonato al fuoco o rovesciato in terra e nemmeno i cani a lappare. Gridavano quegli uomini, coperti di panni tutti uguali e armi, molte più armi di quante ne avessimo mai solo sospettate oltre la collina. Non capivamo ma c’erano altri uomini, vestiti come i nostri, con la faccia e le mani come quelle dei nostri che non erano tornati ma non era un buon motivo per dimenticare. E poi c’erano quegli altri, come e peggio di tutti i racconti. Ce li avevamo davanti. Esistevano sul serio se esistevano quelle grida e la polvere e i bambini che piangevano. Erano pochi e davano ordini a quegli altri, gente come noi ma qualcosa ci diceva di non fidarci. Ci hanno radunati e qualcuno ha parlato nella nostra lingua. Volevano sapere dov’erano gli uomini, volevano che s’ammucchiassero le nostre provviste sui loro camion. Poi sono arrivati due di quegli uomini cattivi con la pelle chiara. Trascinavano mio zio. Era vecchio mio zio. L’hanno portato al centro dello spiazzo e hanno iniziato con le botte e non ci potevo credere a sentire quel rumore. Non lo sospetti fino a quando non lo senti che le ossa che si rompono hanno il rumore dei rami spezzati, della legna che si spacca alla fiamma la sera. L’hanno lasciato morto lì.




A volte non li vedevamo per settimane. A volte arrivavano e si fermavano qualche notte al villaggio. Mangiavano tra loro. Noi non esistevamo. Di giorno non esistevamo. Una sera vennero da noi mentre dormivamo con quel sonno che era stato dei nostri uomini che tornavano al villaggio. Mi trascinarono via. Mi portarono in una capanna e c’erano altre ragazze del villaggio. Ci strapparono i vestiti e nessuna gridava. Per la maledetta vergogna che nelle altre capanne capissero quello che ci stava per accadere. Sei soldati mi hanno afferrato e ridevano e puzzavano e si sono ficcati dentro di me e mi facevano male e graffiavano e mordevano e mi scavavano. Poi uno mi ha girata a pancia sotto e, con la bocca che mordeva la terra e mentre gli altri ridevano mi ha scavata ancora più forte e m’ha fatto morire le urla in gola. Ci hanno riportato all’alba alle nostre capanne. Nessuno mi ha detto nulla ma le donne sapevano. Lo sapeva anche il sangue che si raggrumava sulla tela povera di quello che restava del mio abito. E poi per altre notti, fino a farci andare da sole a testa bassa alle capanne dei soldati. A volte erano come noi, a volte erano quegli altri con la pelle chiara. Cattivi.




Un giorno è arrivata una macchina e sono scesi alcuni uomini che, a giudicare da come si muovevano gli altri, dovevano essere dei capi importanti di quelli lì, degli italiani. Già, a un certo punto avevamo iniziato a chiamarli così, senza idea di dove potesse mai essere la loro terra, la loro madre. Gli italiani erano lì e non si sapeva da dove fossero venuti. Una punizione certamente. Ci radunarono ancora e uno reggeva una scatola di latta che originariamente, ma non potevamo sospettarlo, era destinata ai biscotti. C’era scritto “Lazzaroni” su quella scatola. L’uomo che la reggeva l’aprì. Dentro c’era la testa di mio padre.





Quando arrivò, il respiro degli italiani arrivò dal cielo e si rubò il nostro di respiro. I gas, i gas, gridavano tutti e quante parole nuove avevamo imparato in fretta. Ma la fretta non bastò a nulla. L’aria degli italiani uccise la nostra aria e al villaggio dopo non restò che fare i conti con la polvere. E una vecchia scatola di biscotti di latta incrostata di sangue.









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