questa storia la vorremmo raccontare in giro appoggiandola alle canzoni di Loris Vescovo, facendola vivere su un palco dove si muovono danze e immagini. è la storia di una guerra e di tutte le guerre, senza spazio e tempo ma tutto quello che si racconta è accaduto davvero e l'abbiamo ritrovato tra i documenti che accompagnano con dovizia di particolari la fine di una guerra che non è mai la fine della guerra. stateci vicini.
Da piccole mia nonna ci ha insegnato a
distinguere il bene dal male attraverso i suoi racconti, che erano un
intreccio fitto di parole a fil di voce, con le sue dita mosse
nell’aria come mantidi tese ad afferrare la nostra attenzione. Il
bene era tutto concentrato nelle storie di solidarietà, di lealtà,
di generosità, di dignità, tutte parole con un accento che scoppia
in fondo per dare clamore a quello che devono evocare. Il male era
una massa densa e scura di gesti che andavano dal sorriso negato alla
morte inferta. Ci voleva poco a capire che il marcatore del male, una
sorta di prova del nove quando ti afferrava qualche dubbio etico,
passava tutto dal dolore degli altri che avrebbe potuto essere anche
il tuo dolore.
Uccidere, assassinare, strappare alla
vita, colpire, tagliare, smembrare. Il delitto orrendo, quello
maledetto di cui non ci si deve macchiare mai. Assolutamente. Questa
idea ce la portavamo dentro piantata a cuneo, qualcuno canterebbe,
tra l’aorta e l’intenzione. Sembrava una certezza
incancellabile. Fino a quando s’è cominciato a parlare del nemico.
All’inizio erano vaghe allusioni, più un dirselo per bisbigli,
guardandosi attorno per vedere se ad ascoltare c’erano i più
piccoli. In ragione del fatto che i bambini non sanno dominare la
paura. Così si diceva tra adulti. Nei giorni successivi però il
nemico s’è imposto nei nostri gesti quotidiani come una presenza
carica di angoscia ma sempre con quel sospeso che non sai afferrare.
Dentro, in fondo alla pancia, dove va a frugare la bestia fottuta
della paura, scattava un meccanismo di difesa piuttosto elementare
che ti sussurrava “vedrai che non è vero”.
Un giorno vidi il cane dei vicini
precipitarsi su un uccellino, un nidiaceo caduto dal tetto e rimasto
sul piazzale stordito e incapace d’essere volo. Il cane lo afferrò
e in quel morso e in quello scuotimento c’era già il senso di una
fine ineluttabile. Eppure corsi a vedere, negando l’evidenza di
quella violenza, sperando di non trovare quella morte che già
sapevo. Già… sperando. Sempre per quella difesa minima che
possiamo permetterci quando è già difficile darci definizione
plausibile del male.
All’inizio il nemico aveva forma di
nebbia nei nostri racconti. Mai concreto, era da subito
maledettamente cattivo, maledettamente efficiente nella sua pratica
dolorosa e nell’altra valle dice che li hanno portati sulla riva
del torrente e poi uccisi lasciando i corpi ad avvelenare l’acqua.
Ma prima hanno bruciato, violentato, mutilato, deriso, rubato. A ogni
nuovo racconto della stessa storia s’aggiungeva un particolare
ennesimo, qualcosa che fino a quel momento non s’era riusciti
neppure a immaginare. A riprova che anche con la fantasia il nemico
ci superava. Una fantasia esercitata con la morte assegnata
d’ufficio, ancora, una fantasia che noi non sapevamo eccitare nei
nostri pensieri. Perché, ve l’ho già detto, l’assassinio era
per noi il peggiore di tutti i peccati.
Ora sono mesi che questa guerra
continua e non servono più i racconti, perché il fumo che si alza
nero dagli altri villaggi lo sappiamo vedere anche senza indicarcelo
con il dito puntato. Del resto tutti i racconti hanno perso la foga
dei primi tempi. Ora quello che c’è da sapere lo leggiamo sulla
faccia dei nostri che tornano. Le ferite sono sangue vero che azzera
tutti i bastioni difensivi dietro cui abbiamo asserragliato i nostri
pensieri. La realtà non lascia nessuno scampo ai dubbi. Non c’è
più “sarà vero?”, sostituito da un lacerante “vorrei non lo
fosse”. A darci conferma che anche da adulti dominare la paura è
un bell’azzardo. E uccidere non è più una colpa incancellabile e
la nostra regola più rigida si piega ogni giorno alla convinzione
che monta dentro gli uomini del nostro villaggio. Uccidere non è più
una colpa maledetta e basta, adesso è chiaro che la misura della
colpa sta tutta nel colore del sangue che ora, mentre torni al
villaggio, t'ha sporcato le mani. Ci sono i morti giusti e quelli
sbagliati. Ci sono i morti. Quest'evidenza lacerante ci ha rubato i
giorni e il respiro del sonno. Abbiamo paura di morire e paura della
maledizione che i nostri uomini si portano addosso con il sangue dei
nemici. Ci hanno fatto a pezzi. Ci hanno sbranato la libertà di non
voler ricevere e dare dolore. La libertà appunto.
Poi i nostri uomini sono spariti. Non
sono più tornati al villaggio. Al tramonto partivano e tornavano a
giorno fatto. Restavano lì, buttati in un angolo a dormire con un
respiro di cui avevamo paura di riconoscere l’alito. Le armi in
piedi, appoggiate alle pareti, e i più piccoli che le spiavano in
bilico sul divieto assoluto di toccarle, di pensarle, di sfiorarle.
Gli uomini di giorno parlavano solo tra loro, a bassa voce.
Mangiavano quel poco che si riuscivano a procurare le donne e poi
dormivano. La nonna ci diceva di non fare rumore per non svegliarli
ma noi avevamo visto mille volte i nostri padri, gli zii, i fratelli,
i cugini e i vicini di casa buttati lì per terra con gli occhi
sbarrati nel vuoto. Lo sapevamo che quello non si poteva chiamare
sonno. E poi erano partenze e ancora ritorni. Quando li vedevano
risalire verso il villaggio le donne da lontano tenevano il conto e
cercavano di leggere nel passo pesante di quell’ultimo tratto di
sentiero l’esito di quella notte ancora maledetta. I feriti già da
lontano venivano valutati ma erano tornati e già era qualcosa. Poi
c’erano quelli che non ricomparivano sulla strada del ritorno e
vecchi e donne che piangevano di un lamento silenzioso, chè tutto
ormai andava misurato sulla paura d’essere solo intuiti in quel
lembo di terra che pensavamo nostro da sempre. Poi gli uomini, tutti
gli uomini, hanno smesso di tornare e qualche donna ha preso le armi
rimaste ancora al villaggio ed è stata inghiottita dall’orrore
oltre la collina. E il fumo c’era sempre ma ora ne sentivamo anche
l’odore.
Sono arrivati al villaggio la prima
volta. Sono scesi dai camion e gridavano. Polvere sollevata e le
poche bestie che correvano terrorizzate e bambini che piangevano.
Tutti correvano senza sapere dove. Il prezioso contenuto delle
pentole magre restava abbandonato al fuoco o rovesciato in terra e
nemmeno i cani a lappare. Gridavano quegli uomini, coperti di panni
tutti uguali e armi, molte più armi di quante ne avessimo mai solo
sospettate oltre la collina. Non capivamo ma c’erano altri uomini,
vestiti come i nostri, con la faccia e le mani come quelle dei nostri
che non erano tornati ma non era un buon motivo per dimenticare. E
poi c’erano quegli altri, come e peggio di tutti i racconti. Ce li
avevamo davanti. Esistevano sul serio se esistevano quelle grida e la
polvere e i bambini che piangevano. Erano pochi e davano ordini a
quegli altri, gente come noi ma qualcosa ci diceva di non fidarci. Ci
hanno radunati e qualcuno ha parlato nella nostra lingua. Volevano
sapere dov’erano gli uomini, volevano che s’ammucchiassero le
nostre provviste sui loro camion. Poi sono arrivati due di quegli
uomini cattivi con la pelle chiara. Trascinavano mio zio. Era vecchio
mio zio. L’hanno portato al centro dello spiazzo e hanno iniziato
con le botte e non ci potevo credere a sentire quel rumore. Non lo
sospetti fino a quando non lo senti che le ossa che si rompono hanno
il rumore dei rami spezzati, della legna che si spacca alla fiamma la
sera. L’hanno lasciato morto lì.
A volte non li vedevamo per settimane.
A volte arrivavano e si fermavano qualche notte al villaggio.
Mangiavano tra loro. Noi non esistevamo. Di giorno non esistevamo.
Una sera vennero da noi mentre dormivamo con quel sonno che era stato
dei nostri uomini che tornavano al villaggio. Mi trascinarono via. Mi
portarono in una capanna e c’erano altre ragazze del villaggio. Ci
strapparono i vestiti e nessuna gridava. Per la maledetta vergogna
che nelle altre capanne capissero quello che ci stava per accadere.
Sei soldati mi hanno afferrato e ridevano e puzzavano e si sono
ficcati dentro di me e mi facevano male e graffiavano e mordevano e
mi scavavano. Poi uno mi ha girata a pancia sotto e, con la bocca che
mordeva la terra e mentre gli altri ridevano mi ha scavata ancora più
forte e m’ha fatto morire le urla in gola. Ci hanno riportato
all’alba alle nostre capanne. Nessuno mi ha detto nulla ma le donne
sapevano. Lo sapeva anche il sangue che si raggrumava sulla tela
povera di quello che restava del mio abito. E poi per altre notti,
fino a farci andare da sole a testa bassa alle capanne dei soldati. A
volte erano come noi, a volte erano quegli altri con la pelle chiara.
Cattivi.
Un giorno è arrivata una macchina e
sono scesi alcuni uomini che, a giudicare da come si muovevano gli
altri, dovevano essere dei capi importanti di quelli lì, degli
italiani. Già, a un certo punto avevamo iniziato a chiamarli così,
senza idea di dove potesse mai essere la loro terra, la loro madre.
Gli italiani erano lì e non si sapeva da dove fossero venuti. Una
punizione certamente. Ci radunarono ancora e uno reggeva una scatola
di latta che originariamente, ma non potevamo sospettarlo, era
destinata ai biscotti. C’era scritto “Lazzaroni” su quella
scatola. L’uomo che la reggeva l’aprì. Dentro c’era la testa
di mio padre.
Quando arrivò, il respiro degli
italiani arrivò dal cielo e si rubò il nostro di respiro. I gas, i
gas, gridavano tutti e quante parole nuove avevamo imparato in
fretta. Ma la fretta non bastò a nulla. L’aria degli italiani
uccise la nostra aria e al villaggio dopo non restò che fare i conti
con la polvere. E una vecchia scatola di biscotti di latta incrostata
di sangue.
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