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Una storia che passa dalla
storia. Del resto c’è da aspettarselo da uno come me, che mischia vita e
mestiere nel gioco della memoria e del tempo. Mi sono inventato un lavoro in
bilico su fotografie che muoiono ogni giorno un po’ alla luce che volevano rubare,
lettere chiuse per decenni nei cassetti e di cui non c’è risposta certa,
canzoni incise anche solo su un muro, film girati e da girare con i fotogrammi
che portano il tempo del muscolo cardiaco del mondo. Troppe volte queste tracce
della memoria, la bestia imprendibile che mi ostino a inseguire da bella parte
della vita, mi hanno fatto prendere le misure alla mia storia personale, generando
a volte dolore e divertimento ma anche veli di un disagio che non so
concretamente restituire sulla pagina. Un imbarazzo narrativo che va oltre la
misura lecita di quello che per patto stabilito ho scelto di mettere in gioco
di me nel racconto corale che cerco nelle storie e per la storia. Un bagaglio
emotivo che ti si apre all’improvviso in mezzo alla strada, regalando al mondo
la misera intimità delle tue poche cose che credevi di poter celare.
Questa volta è andata peggio.
Credevo di essermi irrobustito e pure un po’ sterilizzato all’emozione e al
dolore che si genera dalla frequentazione delle tracce della memoria,
chiamateli documenti se volete riguadagnarmi a un briciolo di dignità
accademica ma sappiate che non ci tengo per niente. Sto lavorando da anni, ho
delle pagine mie che lo testimoniano, al racconto dell’Italia del Miracolo
economico, che già a chiamarlo così è chiaro che non c’era volontà politica e
istituzionale a generare quella bella disposizione italiana dell’epoca a
proporsi sui mercati internazionali con successo ma piuttosto si riteneva che
la cosa era capitata per intercessione divina. Altro che mano di dio tesa verso
le sue creaturine che brulicavano per la penisola come i vermi del formaggio in quei giorni, con la guerra che
era alle spalle ma ne sentivi ancora l’alito maledetto. Alla base del successo
di quell’Italia lì, che già bussava alle porte della voglia di rivoluzione,
c’era una manodopera a basso costo pescata dalla bella vocazione agricola di un
paese disteso in mezzo al Mediterraneo e privo di materie prime, deportata nel
triangolo industriale del Nord in massa.
Lavorando all’analisi dei flussi
migratori degli anni Sessanta a Torino mi sono imbattuto in una documentazione
tutta riferita agli archivi scolastici. A partire dagli anni Trenta, un po’
prima a ben vedere, erano state istituite in Italia le classi differenziali. Vi
si avviavano gli alunni cosiddetti “tardivi” che avrebbero fruito di un
percorso personalizzato per essere poi reintrodotti nella scuola ordinaria. A
queste classi accedevano originariamente bambini affetti da problemi che
venivano valutati da commissioni mediche e che passavano dal ritardo mentale all’
handicap fisico. Queste strutture potevano rivelarsi drammaticamente come l’anticamera
del manicomio. Sto procedendo grossolanamente ma giusto per darvi il quadro
generale della mia storia di oggi. Teniamo comunque presente che le
differenziali, che accoglievano quelli che venivano definiti “falsi anormali”
verrano abolite nel 1975. Insomma quando a Torino arrivano migliaia di famiglie
meridionali la città non è preparata ad accoglierle. Si costruiranno
rapidamente dei quartieri di periferia dominati da palazzoni tremendi ma
sostanzialmente si tratta di ridefinire antropologicamente il capoluogo
piemontese sulla base del radicale cambiamento e la città, le istituzioni, sono
assolutamente impreparate. Se negli anni Cinquanta le classi differenziali a
Torino erano una sessantina, a metà degli anni Sessanta sono 490. Cosa sta
succedendo? Capita che i ragazzini meridionali sono dialetti, abitudini e santi
patroni diversi che cadono tutti nel calderone ribollente dell’Italia del Miracolo.
Capita che le famiglie meridionali, inseguite dai cartelli che minacciano di
non volergli affittare quelle soffitte che giusto loro e la loro disperazione
potrebbero abitare, vivano in condizioni precarie, maledettamente precarie. Capita che non è che
arrivando in città si venga automaticamente assorbiti dalla fabbrica e ci sono
centinaia di persone che conducono vite in bilico, che fanno i conti con una
quotidianità in cui non c’è garanzia di quel pane che pure nelle preghiere si
invoca. Capita che i ragazzini crescano in quelle periferie, nel caso torinese
anche il fatiscente centro storico viene colonizzato, lasciati in mezzo alla
strada mentre i genitori si misurano con il tempo maledetto della macchina
produttiva. Capita che a scuola ci si vada poco e male e i compiti non si
riescono a fare in quelle stanze ingombre di odori e rumori e voci e parole che
non sono mai le stesse del libro, alla faccia del fare gli italiani. Capita che
le maestre e i maestri guardino con ripugnanza, tutta testimoniata dalle
relazioni dell’epoca, a quei poveri cenci che ricoprono i ragazzi e alla pelle
macchiata da regimi dietetici poco mirati. Capita che i ragazzi rispondano
male, vedendo nell’istituzione scolastica il riverbero di quel potere
oppressivo che costringeva i padri ad affrontare l’alba fredda ogni giorno.
Capita insomma che le classi differenziali, ricordiamolo ancora anticamera di
esistenze tragiche e segnate, siano riempite di questi ragazzini portatori di
un disagio di cui sono solo la voce più debole. E sfogliando le note con cui si
condanna un bambino a ripetere l’anno alle differenziali leggo che il piccolo, si
sottolinea con grande enfasi che è figlio di genitori separati, sa fare di
conto e legge ma si atteggia sconvenientemente con i suoi dieci anni, avendo
come riferimento, cito testuale, Celentano e i Beatles. La cosa potrà anche far
sorridere e chi ora immagina questo piccoletto che gira per i corridoi della
scuola cantando Yellow Submarine fa
un errore grossolano. Dietro quella relazione scolastica c’è tutto un racconto
complesso.
Anche l'abito fa il monaco; la blusa nera e i calzoni d'oltreoceano
costituiscono una specie di immunizzazione morale di quell'esercito di
gaglioffi.
Con queste parole il ministro di
Grazia e Giustizia Guido Gonella tuona dalle pagine della rivista Oggi del 17 settembre 1959. Promotore di
una legge mai approvata contro il teppismo Gonella si fa portavoce di una
diffusa inquietudine che trova conferme in alcune pellicole proiettate nelle
sale cinematografiche e sulle pagine di volumi come Giovani al doppio gin. I titoli dei giornali frequentemente
segnalano con allarme che la situazione sta tragicamente degenerando. Il
Messaggero del 27 maggio 1959 ai lettori sgomenti propone il seguente titolo:
Aggredisce per strada una signora tentando di strapparle le vesti poi
va a giocare a flipper.
Il bravo cittadino, padre di
famiglia, legge queste cronache recandosi al lavoro con il tram. "Mi chiedo, di questo passo, dove andremo a
finire" mormora mentre attorno a lui altri scuotono la testa. E,
ancora, destano preoccupazione le canzoni diffuse dagli infernali juke-box,
antenati commerciali degli store on line dei nostri giorni, che consentono
l'ascolto di un brani grazie alla moneta che si inseriva nell'apposita fessura.
Cantanti stranieri, presto imitati anche dalle nostre nuove leve canore, con i
loro brani si contrappongono alla consolidata linea melodica della canzone
tradizionale. I testi poi, almeno quelli in italiano, sembrano un oltraggio
sistematico alla morale. Una provocazione continua proposta lì a bella posta
agli adulti che passano davanti a quei juke box con la fretta che quei giorni
di esplosione della produzione e del mercato impongono. Siamo in pieno Boom
economico, a metà tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, e l'Italia è ai vertici
dei mercati internazionali. La produzione di elettrodomestici, l'industria
automobilistica, il settore del petrolchimico e delle materie plastiche sono
alcuni dei settori che decretano il successo italiano nel mondo. Tra il 1959 e
il 1963, mentre nell'aria suonano i juke box, si quintuplica la produzione di
autoveicoli. Nello stesso periodo un milione e mezzo di frigoriferi prodotti e
634.000 televisori ci raccontano che oltre alla produzione sono di certo
aumentati i consumi. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche
macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato
sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia
e quello degli adulti. A partire dagli anni Cinquanta i consumi vengono
pilotati su specifiche categorie che, fino a quel momento, si può dire non
fossero riconoscibili nel tessuto sociale. Le casalinghe sono le destinatarie
di elettrodomestici e alimentari di produzione industriale, ma anche di riviste
e cataloghi a loro espressamente dedicati. Attorno ai bambini si costruisce un
fiorente mercato di articoli per l'infanzia, giocattoli, alimenti e
manualistica riferita ai temi dell'educazione e dello sviluppo. La vera novità
sono però i giovani. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche
macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato
sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia
e quello degli adulti. A volte la prima fase era decisamente e drammaticamente
ridotta per lasciare subito spazio al mondo del lavoro. I giovani si collocano
dunque in una sorta di terra di mezzo tra queste due fasi temporali
dell'esistenza. A partire da questo momento, i giovani, in tutto il mondo
occidentale, diventato una realtà fortemente connotata. Vogliono parlare in
maniera diversa dai loro padri, vogliono vestirsi e pettinarsi diversamente dai
loro padri, vogliono leggere libri e giornali e ascoltare musica diversa da
quella che ascoltano i loro padri, vogliono mangiare cose diverse dai loro
padri, vogliono avere una vita sentimentale diversa da quella dei loro padri. E
il nostro ragazzino finito nelle spire tragiche delle scuole differenziali?
Agli occhi della commissione giudicante non c’è sacmpo per quel suo atteggiarsi
seguendo il modello proposto da Celentano e dai Beatles, e ricordiamo che il
Celentano di allora si scatena a Sanremo, sul palco sacro della tradizione
canora, e s’agita scosso da movimenti pelvici gridando di ventiquattromila baci
mentre la Pizzi è ancora lì a ringraziare per i fiori ricevuti e ad avvincersi
come l’edera. In fondo alla relazione leggiamo RESPINTO. Chissà dov’è ora, con
quei pochi anni più dei miei.
E poi ho letto le schede di
ragazzine in sospetto di prostituzione, ed era il sospetto a turbarmi, e ancora
giudizi che erano evidentemente la traccia tragica di menti segnate e contorte,
quelle di chi giudicava.
D’un tratto occuparmi di storia e
storie ha cominciato a farmi male, a ficcarsi in una piega profonda del mio
vivere che forse non sopportavo. Per giorni ho ripensato a quel timbro in fondo
ai fogli. RESPINTO. Era una cosa che sapevo misurare con bella memoria
personale ma in quel caso era un oltraggio tragico alla possibilità che tutti
dobbiamo spendere per dirci uomini.E mi sono ricordato che avevano chiesto ai miei genitori, io sono nato nel 1965, visto che arrivavo così da lontano, se non volevano che in prima elementare fossi alleggerito dalla pressione didattica frequentando le belle e simpatiche differenziali, sospettandomi di un dialetto e di un accento che nemmeno avevo ma che gli piaceva immaginare visto che lì di gente che arrivava dal sud non ce n'era e non gli sembrava vero di fare come nelle grandi città. Nel nome delle circolari che arrivavano in bisbiglio. Strategia da campo di concentramento. I miei rifiutarono e da allora mi bastava chiedere di andare al bagno per sentire la maestra dire "avete sentito ragazzi, loro il gabinetto lo chiamano bagno". Giusto perchè la differenza la volevano vedere anche forzando la realtà al loro delirio didattico.
Dovrebbero andare a cercarli
adesso quei ragazzi che a migliaia riempivano le classi differenziali in quei
giorni. Per chiedergli scusa. Ma non avrebbero nessun presente decente da
offrire in riscatto e allora restano le storie e l’unico desiderio mio di
ritrovarci davanti al bar d'abitudine, che stando al faldone e con buona pace dei dati sensibili è a un passo dalla casa di quel ragazzo di allora, per
una birra insieme. Alla faccia delle categorie storiografiche. E per ribadire
che io preferivo i Rolling Stones. Ce lo diremo come due Baradel, seduti uno di fronte all'altro mentre il vento non gira ancora.
come dici tu...il vento non gira ancora.
RispondiEliminaComplimenti!!!
grazie.
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