martedì 11 giugno 2013

Fare la differenza

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Una storia che passa dalla storia. Del resto c’è da aspettarselo da uno come me, che mischia vita e mestiere nel gioco della memoria e del tempo. Mi sono inventato un lavoro in bilico su fotografie che muoiono ogni giorno un po’ alla luce che volevano rubare, lettere chiuse per decenni nei cassetti e di cui non c’è risposta certa, canzoni incise anche solo su un muro, film girati e da girare con i fotogrammi che portano il tempo del muscolo cardiaco del mondo. Troppe volte queste tracce della memoria, la bestia imprendibile che mi ostino a inseguire da bella parte della vita, mi hanno fatto prendere le misure alla mia storia personale, generando a volte dolore e divertimento ma anche veli di un disagio che non so concretamente restituire sulla pagina. Un imbarazzo narrativo che va oltre la misura lecita di quello che per patto stabilito ho scelto di mettere in gioco di me nel racconto corale che cerco nelle storie e per la storia. Un bagaglio emotivo che ti si apre all’improvviso in mezzo alla strada, regalando al mondo la misera intimità delle tue poche cose che credevi di poter celare.
Questa volta è andata peggio. Credevo di essermi irrobustito e pure un po’ sterilizzato all’emozione e al dolore che si genera dalla frequentazione delle tracce della memoria, chiamateli documenti se volete riguadagnarmi a un briciolo di dignità accademica ma sappiate che non ci tengo per niente. Sto lavorando da anni, ho delle pagine mie che lo testimoniano, al racconto dell’Italia del Miracolo economico, che già a chiamarlo così è chiaro che non c’era volontà politica e istituzionale a generare quella bella disposizione italiana dell’epoca a proporsi sui mercati internazionali con successo ma piuttosto si riteneva che la cosa era capitata per intercessione divina. Altro che mano di dio tesa verso le sue creaturine che brulicavano per la penisola  come i vermi del formaggio in quei giorni, con la guerra che era alle spalle ma ne sentivi ancora l’alito maledetto. Alla base del successo di quell’Italia lì, che già bussava alle porte della voglia di rivoluzione, c’era una manodopera a basso costo pescata dalla bella vocazione agricola di un paese disteso in mezzo al Mediterraneo e privo di materie prime, deportata nel triangolo industriale del Nord in massa.
Lavorando all’analisi dei flussi migratori degli anni Sessanta a Torino mi sono imbattuto in una documentazione tutta riferita agli archivi scolastici. A partire dagli anni Trenta, un po’ prima a ben vedere, erano state istituite in Italia le classi differenziali. Vi si avviavano gli alunni cosiddetti “tardivi” che avrebbero fruito di un percorso personalizzato per essere poi reintrodotti nella scuola ordinaria. A queste classi accedevano originariamente bambini affetti da problemi che venivano valutati da commissioni mediche e che passavano dal ritardo mentale all’ handicap fisico. Queste strutture potevano rivelarsi drammaticamente come l’anticamera del manicomio. Sto procedendo grossolanamente ma giusto per darvi il quadro generale della mia storia di oggi. Teniamo comunque presente che le differenziali, che accoglievano quelli che venivano definiti “falsi anormali” verrano abolite nel 1975. Insomma quando a Torino arrivano migliaia di famiglie meridionali la città non è preparata ad accoglierle. Si costruiranno rapidamente dei quartieri di periferia dominati da palazzoni tremendi ma sostanzialmente si tratta di ridefinire antropologicamente il capoluogo piemontese sulla base del radicale cambiamento e la città, le istituzioni, sono assolutamente impreparate. Se negli anni Cinquanta le classi differenziali a Torino erano una sessantina, a metà degli anni Sessanta sono 490. Cosa sta succedendo? Capita che i ragazzini meridionali sono dialetti, abitudini e santi patroni diversi che cadono tutti nel calderone ribollente dell’Italia del Miracolo. Capita che le famiglie meridionali, inseguite dai cartelli che minacciano di non volergli affittare quelle soffitte che giusto loro e la loro disperazione potrebbero abitare, vivano in condizioni precarie, maledettamente precarie. Capita che non è che arrivando in città si venga automaticamente assorbiti dalla fabbrica e ci sono centinaia di persone che conducono vite in bilico, che fanno i conti con una quotidianità in cui non c’è garanzia di quel pane che pure nelle preghiere si invoca. Capita che i ragazzini crescano in quelle periferie, nel caso torinese anche il fatiscente centro storico viene colonizzato, lasciati in mezzo alla strada mentre i genitori si misurano con il tempo maledetto della macchina produttiva. Capita che a scuola ci si vada poco e male e i compiti non si riescono a fare in quelle stanze ingombre di odori e rumori e voci e parole che non sono mai le stesse del libro, alla faccia del fare gli italiani. Capita che le maestre e i maestri guardino con ripugnanza, tutta testimoniata dalle relazioni dell’epoca, a quei poveri cenci che ricoprono i ragazzi e alla pelle macchiata da regimi dietetici poco mirati. Capita che i ragazzi rispondano male, vedendo nell’istituzione scolastica il riverbero di quel potere oppressivo che costringeva i padri ad affrontare l’alba fredda ogni giorno. Capita insomma che le classi differenziali, ricordiamolo ancora anticamera di esistenze tragiche e segnate, siano riempite di questi ragazzini portatori di un disagio di cui sono solo la voce più debole. E sfogliando le note con cui si condanna un bambino a ripetere l’anno alle differenziali leggo che il piccolo, si sottolinea con grande enfasi che è figlio di genitori separati, sa fare di conto e legge ma si atteggia sconvenientemente con i suoi dieci anni, avendo come riferimento, cito testuale, Celentano e i Beatles. La cosa potrà anche far sorridere e chi ora immagina questo piccoletto che gira per i corridoi della scuola cantando Yellow Submarine fa un errore grossolano. Dietro quella relazione scolastica c’è tutto un racconto complesso.

Anche l'abito fa il monaco; la blusa nera e i calzoni d'oltreoceano costituiscono una specie di immunizzazione morale di quell'esercito di gaglioffi.

Con queste parole il ministro di Grazia e Giustizia Guido Gonella tuona dalle pagine della rivista Oggi del 17 settembre 1959. Promotore di una legge mai approvata contro il teppismo Gonella si fa portavoce di una diffusa inquietudine che trova conferme in alcune pellicole proiettate nelle sale cinematografiche e sulle pagine di volumi come Giovani al doppio gin. I titoli dei giornali frequentemente segnalano con allarme che la situazione sta tragicamente degenerando. Il Messaggero del 27 maggio 1959 ai lettori sgomenti propone il seguente titolo:

Aggredisce per strada una signora tentando di strapparle le vesti poi va a giocare a flipper.

Il bravo cittadino, padre di famiglia, legge queste cronache recandosi al lavoro con il tram. "Mi chiedo, di questo passo, dove andremo a finire" mormora mentre attorno a lui altri scuotono la testa. E, ancora, destano preoccupazione le canzoni diffuse dagli infernali juke-box, antenati commerciali degli store on line dei nostri giorni, che consentono l'ascolto di un brani grazie alla moneta che si inseriva nell'apposita fessura. Cantanti stranieri, presto imitati anche dalle nostre nuove leve canore, con i loro brani si contrappongono alla consolidata linea melodica della canzone tradizionale. I testi poi, almeno quelli in italiano, sembrano un oltraggio sistematico alla morale. Una provocazione continua proposta lì a bella posta agli adulti che passano davanti a quei juke box con la fretta che quei giorni di esplosione della produzione e del mercato impongono. Siamo in pieno Boom economico, a metà tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, e l'Italia è ai vertici dei mercati internazionali. La produzione di elettrodomestici, l'industria automobilistica, il settore del petrolchimico e delle materie plastiche sono alcuni dei settori che decretano il successo italiano nel mondo. Tra il 1959 e il 1963, mentre nell'aria suonano i juke box, si quintuplica la produzione di autoveicoli. Nello stesso periodo un milione e mezzo di frigoriferi prodotti e 634.000 televisori ci raccontano che oltre alla produzione sono di certo aumentati i consumi. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia e quello degli adulti. A partire dagli anni Cinquanta i consumi vengono pilotati su specifiche categorie che, fino a quel momento, si può dire non fossero riconoscibili nel tessuto sociale. Le casalinghe sono le destinatarie di elettrodomestici e alimentari di produzione industriale, ma anche di riviste e cataloghi a loro espressamente dedicati. Attorno ai bambini si costruisce un fiorente mercato di articoli per l'infanzia, giocattoli, alimenti e manualistica riferita ai temi dell'educazione e dello sviluppo. La vera novità sono però i giovani. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia e quello degli adulti. A volte la prima fase era decisamente e drammaticamente ridotta per lasciare subito spazio al mondo del lavoro. I giovani si collocano dunque in una sorta di terra di mezzo tra queste due fasi temporali dell'esistenza. A partire da questo momento, i giovani, in tutto il mondo occidentale, diventato una realtà fortemente connotata. Vogliono parlare in maniera diversa dai loro padri, vogliono vestirsi e pettinarsi diversamente dai loro padri, vogliono leggere libri e giornali e ascoltare musica diversa da quella che ascoltano i loro padri, vogliono mangiare cose diverse dai loro padri, vogliono avere una vita sentimentale diversa da quella dei loro padri. E il nostro ragazzino finito nelle spire tragiche delle scuole differenziali? Agli occhi della commissione giudicante non c’è sacmpo per quel suo atteggiarsi seguendo il modello proposto da Celentano e dai Beatles, e ricordiamo che il Celentano di allora si scatena a Sanremo, sul palco sacro della tradizione canora, e s’agita scosso da movimenti pelvici gridando di ventiquattromila baci mentre la Pizzi è ancora lì a ringraziare per i fiori ricevuti e ad avvincersi come l’edera. In fondo alla relazione leggiamo RESPINTO. Chissà dov’è ora, con quei pochi anni più dei miei.
E poi ho letto le schede di ragazzine in sospetto di prostituzione, ed era il sospetto a turbarmi, e ancora giudizi che erano evidentemente la traccia tragica di menti segnate e contorte, quelle di chi giudicava.
D’un tratto occuparmi di storia e storie ha cominciato a farmi male, a ficcarsi in una piega profonda del mio vivere che forse non sopportavo. Per giorni ho ripensato a quel timbro in fondo ai fogli. RESPINTO. Era una cosa che sapevo misurare con bella memoria personale ma in quel caso era un oltraggio tragico alla possibilità che tutti dobbiamo spendere per dirci uomini.E mi sono ricordato che avevano chiesto ai miei genitori, io sono nato nel 1965, visto che arrivavo così da lontano, se non volevano che in prima elementare fossi alleggerito dalla pressione didattica frequentando le belle e simpatiche differenziali, sospettandomi di un dialetto e di un accento che nemmeno avevo ma che gli piaceva immaginare visto che lì di gente che arrivava dal sud non ce n'era e non gli sembrava vero di fare come nelle grandi città. Nel nome delle circolari che arrivavano in bisbiglio. Strategia da campo di concentramento. I miei rifiutarono e da allora mi bastava chiedere di andare al bagno per sentire la maestra dire "avete sentito ragazzi, loro il gabinetto lo chiamano bagno". Giusto perchè la differenza la volevano vedere anche forzando la realtà al loro delirio didattico.
Dovrebbero andare a cercarli adesso quei ragazzi che a migliaia riempivano le classi differenziali in quei giorni. Per chiedergli scusa. Ma non avrebbero nessun presente decente da offrire in riscatto e allora restano le storie e l’unico desiderio mio di ritrovarci davanti al bar d'abitudine, che stando al faldone e con buona pace dei dati sensibili è a un passo dalla casa di quel ragazzo di allora, per una birra insieme. Alla faccia delle categorie storiografiche. E per ribadire che io preferivo i Rolling Stones. Ce lo diremo come due Baradel, seduti uno di fronte all'altro mentre il vento non gira ancora.

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