giovedì 29 settembre 2011

panciotto mio fatti capanna





Le dita, quelle grosse dita che gli fanno impaccio quando accarezza un bambino o tiene in mano una tazzina buona,  passano e ripassano sul velluto del panciotto. Seduto sulla poltrona nel buio del teatro che per questa sera è cinematografo. Palco d'onore il suo e su tutto ci son velluti di pregio. Come su quel panciotto che proprio non se lo voleva mettere e invece alla fine l'hanno convinto. Gli hanno assegnato una poltrona quasi vicino al signor Giovanni, al Pastrone direbbe parlando di confidenza con gli altri che lavorano con lui, che poi sono soprattutto gli attrezzisti e i facchini. Con quella gente ci sta bene, è la sua gente e la fatica di portare casse sulle spalle è una lingua universale e lui l'ha imparata che quasi era ancora bambino. E sarà stato quello a farlo grande e grosso. Bocche in casa da sfamare ce n'erano parecchie e allora via a lavorare giù al porto che per lui, genovese di Sant'Ilario, era il confine di tutti i mondi possibili. Con quei moli che si coprivano di merci e la gente che s'ammassava per prendere le navi, che a partire, con la maledetta miseria, che t'arriva alle spalle come un calcio nel sedere e ti butta fuori di casa, è un dispiacere anche quando la casa è ammobiliata solo di fame e freddo. E ora Bartolomeo il gigante del porto  è lì con quel panciotto da signori che le sue grosse dita non smettono di percorrere sulla traccia tattile del velluto. Seduto vicino a lui, nel palco d'onore, c'è anche il poeta, e davvero gli darebbe gusto caricarselo su quelle sue spalle larghe per portarlo all'osteria del Caricamento. Giusto per far vedere ai suoi amici di sempre com'è fatta quella gente lì. Gabriele d'Annunzio si chiama quell'omarino, il poeta, che lui quasi gli scappa da ridere a vedere come si comporta ma sente che tutti gli altri lo portano in rispetto e allora gli monta quella vergogna alla gola che ce l'aveva anche a Genova quando passava un signore ben vestito. Per non parlare delle donne eleganti, che si capiva che lui non sarebbe mai riuscito a parlarci nemmeno se si fosse caricato di coraggio con il vino. Il poeta, che roba. Hanno un bel ripetergli che questo suo nome qui del cinematografo, che lui ora lo chiamano Maciste anche quando non è nel film, l'ha inventato proprio il Gabriele d'Annunzio. Del resto a lui l'avevano battezzato Bartolomeo e con quel nome lì non ci crede nessuno che sei un personaggio di quei film di eroi, ambientati in una di quelle epoche che lui non l'ha neanche tanto capito ma è chiaro da come li vestono che è roba degli antichi tipo i romani o la bibbia o magari  anche quelli dell'Africa. Lui quasi si sente di conoscerla l'Africa meglio di quegli altri, per quanto siano signori. Fin da bambino ha sentito i racconti dei marinai che tornavano dai paesi lontani e gli pare proprio d'averla sentita mica una volta sola questa storia che in Africa ci sono quelle razze che hanno le tuniche bianche addosso e saranno vestiti come quando si gira la pellicola del cinematografo. Nè più nè meno. Certo in Africa è difficile che hanno la luce elettrica e invece il Pastrone l'ha usata moltissimo nel suo film per fare quella pellicola bellissima che adesso sono tutti lì a vederla alla proiezione al teatro Regio di Torino e c'è il coro e l'orchestra e il poeta e le donne eleganti e il panciotto a filo di dita. Quel Pastrone è uno che la sa lunga. Ha fatto costruire gli stabilimenti dove fanno il cinematografo e a Torino son tutti dietro a fare cinematografo ma il migliore è proprio il signor Giovanni che ha capito prima di tutti che quello lì è davvero un bell'affare e ha smesso di fare il musicista, proprio nell'orchestra del Teatro Regio che sta suonando questa sera, per buttarsi nell'avventura del cinema. E ha anche scoperto lui, Pagano Bartolomeo, che faceva lo scaricatore, il camallo si dice a Genova, e lo ha portato a Torino perchè gli serviva uno grande e grosso, un gigante buono con una forza spropositata, che poi tanto il cinema anche esagera certe volte e la gente se lo immagina ma gli piace crederci uguale. Adesso sono tutti lì che si proietta per la prima volta la pellicola di Cabiria che è stata un lavoro lungo e pieno di cose che l’hanno lasciato meravigliato e che vorrebbe far vedere a quelli rimasti a lavorare al porto. Questa pellicola dura quasi quattro ore, accompagnata dalla musica dell'orchestra perchè il sonoro in quei film, siamo nel 1914, non c'è ancora. La vicenda è d'ambientazione storica. Pastrone ha la passione per quel genere di pellicole e sembra destinato a grandissimi successi ma lui è uomo che si fa travolgere dai nuovi entusiasmi che il progresso tecnologico e scientifico gli suggerisce e, solo quattro anni dopo  Cabiria, abbandonerà la carriera cinematografica all'apice per dedicarsi agli studi di medicina. Bartolomeo Pagano ormai per tutti Maciste, girerà ancora moltissimi film, fino agli anni Trenta, tutti incentrati sulla figura del gigante forzuto al servizio del bene. Non tornerà più a fare il camallo al porto ma prenderà abitudine alle luci degli stabilimenti cinematografici, al ronzio della cinepresa .
Si riaccendono le luci e parte un lungo applauso. Tutti gli sguardi sono rivolti a loro. Pastrone fa brevi inchini, gli attori sorridono, il poeta fa quelle sue facce strane ma dev’essere per quello che è poeta.  Bartolomeo non gli presta attenzione e ringrazia di averci addosso un bel panciotto per quel’occasione.







sabato 24 settembre 2011

la vita ha la strada segnata e anche il bufalo





il viaggio di questa volta è scivolato via come un flusso di coscienza, come un guizzo di coscia, come un sorriso dal finestrino e una maledizione dal buio. in macchina ho tutto quello che mi serve per i tre giorni di strada che ho davanti. quarantasei anni nomadi m'hanno insegnato a sottrarre. e ora, per partire, mi basta una giacca con parecchie tasche nel sedile posteriore, una maglietta e una mutanda e mezzo sapone nello zaino insieme al computer e alla macchina fotografica e la vecchia leatherman consumata e penne stilo e quaderni e le carammelle alle erbe che compro in una piccolissima bottega di Brà. scarpe robuste e jeans d'abitudine e son pronto. Stavolta parto e tra una cosa e l'altra mi mangio millecinquecento chilometri in quaran'otto ore. praticamente sempre in macchina se si esclude un documentario che gireremo venerdi mattina al Maxxi a Roma. vado. Volo. scorta di musica e bottiglia d'acqua. ascolto la registrazione dal vivo di Lino Straulino, il portentoso Lino Straulino che a goderselo tutto ci vorrebbe il privilegio concesso a ognuno di una serata a tavola con lui e una chitarra e se vi dice culo anche il banjo asei corde costruito dl liutaio Catania per gli italiani che cercavano di misuarsi con la tradizione sonora d'oltreoceano ma che potevano farlo grazie a quello strumento continuando a suonare come se avessero avuto nelle mani una chitarra, una familiare chitarra. Devo scrivere qualche pagina su Lino e ascolto e raccolgo le idee e altre me ne vengono e passano da un autogrill all'altro e le pagine migliori come al solito le immagino e le perdo alle piazzole di sosta. Pisciando sull'asfalto smangiato del bordo della strada. Lino Straulino è una colonna sonora perfetta e alla fine di questo viaggio canteremo in coro io e lui a voce spiegata e a finestrini spalancati al tramonto che arriva. Sul sedile dietro c'è Sciumi, il cane mio Sciumi. La notte ci fermiamo in un uliveto e camminiamo e respiriamo quell'aria lì che mangia la stanchezza, ce secca la tristezza. Io e Sciumi insieme siamo perfettissimi e quando tocca ripartire lui mi fa un fischio e io salto in macchina.
All'alba, sul raccordo arrivo in planata e devo arrivare a Fiumicino a recuperare Massimiliano. sono in largo anticipo e me la prendo comoda. Ascolto Howlin' Wolf. Poi le macchine cominciano ad accatastarsi, a incolonnarsi colla tosse dei motori al mattino. Penso che sono sul raccordo ed è normale. Normale un cazzo. Si sono incartati tra loro, accartocciati e c'è un corpo in terra e sangue, un sacco di fottuto sangue in terra. arrivo a Fiumicino con due ore di ritardo e quindi quasi in orario. Arrivo a fiumicino che ancora faccio i conti col tempo e col tempo che finisce e con quel morto lì per terra. Arrivo a Fiumicino che è già tempo di ripartire. poi sarà un altro correre e altre mete e mille parole e Sciumi mangerà la migliore amatriciana della sua vita. la mangerò anche io e ci strizzeremo reciprocamente l'occhio più chiaro che entrambi ci portiamo addosso per un'attenzione monoculare alla vita che con l'altro occhio inseguiamo i sogni nostri. e guardiamo i morti in terra.

mercoledì 21 settembre 2011

la ballata delle bestemmie e del Boia




http://www.youtube.com/watch?v=WVuOo_LwzXs&feature=related



"Come sto ?”
“T’ho visto meglio fratello. Diciamo che hai avuto giorni migliori.”
Stai come uno che s’è piantato nel fianco d’un furgone, di slancio, moto, tuta in pelle e bestemmia tutto insieme. Stai come uno che non ci posso credere che dopo milioni di pieghe al limite e staccate a spezzare la leva e a mettergli l’ansia addosso ai Discacciati flottanti fatti fare su misura, poi si pianta col botto in una fila lenta, allungata su una statale della Val Susa. Davanti al forte di Exile e davanti pure agli occhi di Boia che è amico tuo, ombra tua che ora prova la fottuta paura addosso di non sentirti parlare, di non trovare niente sotto la visiera. Davanti pure a altri occhi, che da copione diranno di non avere visto.
“Come sto ?”
“T’ho visto meglio fratello. Diciamo che hai avuto giorni migliori.”
Stai come uno che era già un po’ che tirava i dadi e barava sulle caselle, mai per vincere, solo per andare un po’ più avanti del lecito. Stai come la migliore delle Gibson, la più cristallina delle Martin, la perfettissima tra le Fender nelle mani sbagliate. Nelle mie mani per esempio. Soprattutto stai per terra, con le labbra a un millimetro dall’asfalto e il fiato strozzato che appanna il catrame lucido. La puzza della benzina e della paura le senti anche oggi e le percepisco anche io, che tutti ogni tanto ci pensiamo. Giusto per poterci eventualmente dire poi “allora è così che arriva il dolore”. Con una guancia appoggiata all’asfalto in un lento appassionato con la puttana statale e il braccio a cingere… il braccio… già, il braccio.
“Dove cazzo è il mio braccio? S’è staccato? Non lo sento più:”
“Ce l’hai, ce l’hai. Ora però stai calmo che cerchiamo di sfilarti dalla moto, che te la sei parcheggiata sulla schiena e forse è meglio toglierla.”
Infatti, ne approfitto per svelartelo visto che Boia, con quella sua delicatezza che è marchio di fabbrica registrato, te ne ha fatto un accenno. Si sono invertite le parti e tra te e la Guzzi quello sotto sei tu. Se hai pazienza e devi averne fratello credimi, ora ti leviamo dalle ossa la bestia di ferro in agonia. Le hanno spezzato il filo della schiena, le hanno assestato una mazzata sulla fronte come si faceva coi tori. Da non crederci. Il telaio spezzato proprio sotto la sella e la forcella chiusa come la lama d’un tragico serramanico.
“Come sto ?”
“T’ho visto meglio fratello. Diciamo che hai avuto giorni migliori.”
“E la moto.”
“Non ci pensare adesso.”
Quando arriva l’elisoccorso e ti imballano a quell’altro scemo dell’amico tuo gli scappa pure di sussurrarti a filo d’orecchio “guarda che culo, ora ti fai pure un giro con l’elicottero”. Non ho mai smesso di pensare che almeno c’era Boia che è tuo fratello e pure mio fratello e siamo una cazzo di famiglia scassa che non vince quasi mai.. E tu forse, mentre l’altro ti saluta, già dormi e t’hanno tagliato la tuta tua di pelle in strisce buone per farci le cinture da vendere l’estate sulla spiaggia di Riccione.
“Come sto”dici.. Stai come uno che non se ne fa una ragione. Tutta colpa del generale Custer e di quegli altri che ne hanno massacrati a mucchi di indiani e li hanno terrorizzati e piegati alla logica della riserva. E tu hai avuto la sfiga di incontrare uno di quella razza lì cancellata, che gira senza frecce. Te l’avrei voluta dire questa merda di battuta, giusto per farmi insultare e spostare l’ago del dolore ma l’elica già tira delle sberle di peso all’aria e ti sollevano.

Nella stanza del CTO ci arriva ridotto davvero una mappina. La testa gli rimane voltata da un lato e fermata da certi rivetti invisibili al cuscino. Il corridoio, l’ascensore, la camera, tutto pieno di noi razza randagia e incollocabile.E certe infermiere sorridono e certe s’incazzano e certe ci guardano con la rassegnazione di quando scruti oltre il vetro e fuori piove. E la sfilata nostra è cosa lunga e articolata. Quei corridoi, quelle scale e quell’ascensore, niente è pronto, psicologicamente attrezzato, per ricevere l’orda. In quei giorni ogni tanto me lo sono chiesto perché la maggior parte di noi è fuori taglia, troppo grossi, troppo goffi, troppo chiasso e troppa polvere sollevata. Un impasto di bestemmie, grasso, inchiostro, tatuaggi e segni sparsi e calli da chitarra e cicatrici gastriche da eccesso e fegati indonabili e moto parcheggiate fuori e femmine, tutte le femmine, inquadrate nei mirini nostri per cabrate improbabili che non faremo mai. Quasi mai.
E in lunga processione arrivano tutti e ognuno, in uno scontro titanico davvero, s’affanna a dimostrarsi il più imbecille. Un po’ perché imbecilli lo siamo, un po’ per mostrargli il culo alla malasorte.
Un pomeriggio Tommy e Andrea non riuscendo a montare una forcella la prendono di peso e dall’officina la portano pari pari al capezzale. Rispettosi dell’orario di visita ovviamente. Parcheggiano la Fiat 124 grigia con interni in finta pelle rossa, siamo nel 2007,  e passano la reception sfoderando la faccia da culo migliore che conoscono. E quell’altro, col collo a tirargli la testa da un lato, a ringhiare la soluzione tecnica pregando di non sboccargli d’olio le lenzuola. E tutti, proprio tutti, vicino di letto compreso, a ridere come meravigliose teste di cazzo.

E’ una storia che non finisce bene e nemmeno male ma come per tutte le storie nostre è importante che soprattutto non finisca.

martedì 20 settembre 2011

tutto scomparirà e il vento ci porterà



http://www.youtube.com/watch?v=eUvApC0bwUk&feature=related



Oggi me la giravo coi cani e Ste dopo aver accompagnato Orso al semaforo. Di portarlo fino alla scuola non se ne parla che ormai ha timbrato undici anni a luglio e si misura coi passi suoi e con gli sguardi degli altri. Conosco quelle regole lì, che le regole della strada le sapevo anche senza prendere la patente, e m'attengo restandomene al parco coi cani e il giornale e con il fatto che io la colazione la faccio al bar e non è colpa mia se il bar è lì, a un passo dalla scuola, a un passo da casa, a un passo dal parco e dai cani, a un passo sempre che siamo razza di passo e siamo nomadi e quindi possiamo dire di tutto "a un passo da me". Insomma me ne stavo lì a guardare i nanetti che sgambettavano verso il plesso scolastico, che  le parole sono importanti e mentre mi ripeto "plesso" con quell'enfasi che ci mettono quando ti spiegano alle riunioni la didattica e lo spirito della scuola e ti chiedono i soldi per la carta igienica e le fotocopie, che va tutto nella stessa voce immagino, già mi sento che mio figlio ha un bel privilegio a frequentare un plesso scolastico mentre io andavo a scuola e basta. Insomma mi guardavo quelli delle medie che entrano alle otto e poi, complice la lettura del giornale, pure quelli delle elementari che entrano alle otto e mezza dall'altra porta del plesso, e diteglielo che è un plesso che a volte hanno la faccia di quelli della solita scuola e non si sentono baciati dalla fortuna come dovrebbero. mio figlio va alla scuola musicale. mio figlio ha uno zaino enorme colle ruote, che in belice ci vivono anche due famiglie in quell'intrico di cinghie e tasche. mio figlio ha la cartella da disegno che sembra la valigetta del protagonista di resident evil, il gioco non il film. Mio figlio ha avuto dopo selezione e test d'attitudine in sorte il violoncello come strumento. Gli piace il violoncello, lo alterna alla telecaster, lo alterna ma appoggia tutte le note gravi sulla struttura esile del condominio. Sta di fatto che in assetto da combattimento i nanetti che vanno ad affrontare il loro giorno al plesso scolastico arrivano come le truppe cammellate, gravate da fardelli che nemmeno i profughi. Dondolano sotto il peso di zaini e borse e righe e violoncelli, che ci sono anche quelli dell'arpa e dell'oboe, e sembrano forse speciali, truppe scelte in assetto da battaglia. si radunano nel cortile e diventano una voce sola, un mugghiare che monta. Fanteria dello spiazzo. E mi chiedo se davvero tutto quell'armamentario li farà migliori di noi che avevamo i libri legati colla cinghia e le borse sbrindellate e certe cartellete squadrate colle cinghie esili e dentro il sussidiario e l'astuccio colle matite smozziche, che adesso ti dicono pure la marca dei penneli da comprare e prima i penneli li facevi coi capelli della bambola di tua cugina. e non è che son vecchio e soprattutto non cado nel tranello, nella tagliola della memoria personale che tende a farmi pensare che eravamo meglio. da lì a inveire contro i giovani e come si vestono e questa musica che non è musica il passo è breve e io non ci posso cascare perchè lo dicevamo che le regole della strada le conosco, le altre magari no e pure in galateo son debole ma su quelle della strada vado sicuro. e quindi devo pesare i pensieri e mi basta poco a dirmi che non eravamo migliori se ora possiamo offrire solo questo campo santo bombardato del presente, colla carta igienica e la bottiglietta dell'acqua infilate nello zainettone. ma soprattutto il peso e le tecnologie fanno contrasto e stridono col passo dondolo dei nanetti. dice che c'è il tablet e l'ipod e il ciribaccolo digitale e questi si camallano delle gerle di materiale didattico. e poi fanno le ricerche su internet col copia incolla e copiaincollano da quegli altri encefalitici che compilano wikiqualcosa. dimmi tu. sta di fatto che i codici miniati sono ancora lì e io le foto lasciate nel computer sette anni fa non riesco più a recuperarle e nemmeno ad aprirle. tutta questa memoria azzera la memoria. in dieci anni siamo passati dai floppy alle chiavette e domenica mi si è svampato il computer e mi sono alzato e ne sono andato a comprare un altro e ho riattaccato a lavorare e a scrivere che 'sto libro a quattro mani con Mao mi sta divertendo parecchio e il signore dei computer mi chiede se avevo fatto il bechap e io lo guardo e sorrido che son qui a formattarmi l'anima tutte le mattin. ridatemi i frammenti di Parmenide, così, da tenerli nello zainone a scanso di plesso.

mercoledì 7 settembre 2011

Edgar Wallace e l'acqua di colonia.

                                                                              






Il commissario Sanders, chiamato dagli indigeni Sandi, era arrivato nell'Africa Centrale facendo tappe così lunghe qui e là che neppure lui si rendeva conto di quando fossero cominciate le sue avventure in quelle terre selvagge. Molto tempo prima di essere stato nominato Commissario Governativo per le colonie britanniche con l'incarico di vigilare su un quarto di milione e più di cannibali, che consideravano i bianchi come i bianchi considerano il liocorno, aveva conosciuto i popoli basuto, gli zulù, i fingo, i pondo, i matabele, i mascioma, i barotse, gli ottentotti, i beciuana. Poi la curiosità e l'interesse lo avevano portato a nord, e aveva conosciuto la gente dell'Angola, e ancora più a nord quella del Congo, a ovest nel Masai, e finalmente, attraverso il popolo pigmeo, era arrivato nella regione dove avrebbe svolto il suo incarico.
Fra tutte queste razze ci sono delle sottili differenze che solo un uomo dell'esperienza di Sanders è in grado di riconoscere. Non è solo questione di colore, per quanto alcuni siano bruni e altri gialli, e altri ancora, pochissimi, di un nero d'ebano; la diversità sta piuttosto nel carattere. Secondo il codice di Sanders ci si può fidare di tutti gl'indigeni solo fino a un certo punto, come ci si fida dei bambini. Con pochissime eccezioni. Gli zulù erano veri uomini, i basuto erano uomini anch'essi, ma infantili nella loro fede fantasiosa e nei loro tabù; i negri che portavano il fez erano scaltri, ma onesti; invece i negri della Costa d'Oro, che parlavano inglese, vestivano all'europea, e s'interpellavano tra loro col titolo di "mister", erano la bestia nera di Sanders.
Vivendo così a lungo con quella gente era inevitabile che lui assorbisse molte delle loro qualità infantili. Una volta, trovandosi in congedo a Londra, era stato oggetto di una tentata truffa all'americana, e solo la sua onestà lo aveva salvato da una posizione ridicola, perché quando il lestofante aveva cavato fuori il lingotto d'oro, i nervi morali di Sanders si erano tesi, e aveva trascinato il fiducioso truffatore alla stazione di polizia più vicina, accusandolo, con grande sbalordimento del poliziotto di servizio, di commercio illecito dell'oro. Sanders non dubitava che il lingotto fosse d'oro, ma era ugualmente certo che l'uomo non se lo fosse procurato onestamente. Ed era stata persino patetica la sua sorpresa quando aveva scoperto che il lingotto era semplicemente un blocco di piombo ricoperto da un sottile foglio d'oro.
Da un punto di vista morale Sanders poteva dirsi uno statista, ciò significa che non aveva un'opinione esagerata del valore della vita umana, considerata individualmente: quando vedeva una foglia morta sulla pianta della civiltà la strappava, o un'erbaccia crescere in mezzo ai suoi "fiori" la estirpava, senza fermarsi a considerare se avesse il diritto di vivere anch'essa.
Quando un uomo, libero o schiavo che fosse, metteva in pericolo con il suo comportamento la pace della regione sotto il suo controllo, Sanders gli saltava addosso senza pensarci due volte.
Sanders era svelto a impiccare, perché quello era l'unico modo per riuscire a governare un popolo che si trovava ai confini della civiltà. Un'esitazione ad agire, un ritardo a punire chi contravveniva alla legge, sarebbero state considerate debolezze da quelle popolazioni che non avevano né la facoltà di ragionare, né volontà di scusare, né alcuna generosità d'animo, essendo abituate a vivere nella durezza delle leggi naturali della foresta.
Così gli indigeni avevano imparato che la punizione significa sofferenza e morte, e questa era l'unica cosa che loro volevano evitare. 



I libri si accumulano tra la mia casa torinese e quella friulana in maniera incontrollata e scomposta. non resisto al canto delle sirene di un qualsiasi tavolinetto con vecchie edizioni a pochi centesimi e ogni volta mi allontano con lo zainetto pieno di pagine e col timore che di colpo si rendano conto di avermi ceduto un tesoro per pochi spiccioli e mi chiedano di restituire il bottino. ladro dentro.
"Le avventure del commissario Sanders del fiume" non ho la più pallida idea di dove me lo sia procurato. Mi è comparso su uno scaffale del sottotetto della casa friulana e proprio non ricordo di averlo comprato. Forse quelle ceste del supermercato, forse il vecchietto di via Po, forse un regalo di Corrado, forse i ghiri l'hanno rubato in un altro sottotetto e l'hanno trascinato in quella sorta di mansarda grotta che condivido coi simpatici roditori e che tra noi chiamiamo pomposamente "studio" in nome forse della memoria dei miei studi incasinati. sia come sia me lo rigiro tra le mani mentre cerco qualcosa da mettere tra me e il sonno del pomeriggio. Chet Baker sta già facendo la sua parte in una sorta di scelta obbligata perchè nello studio ho solo un mangiacassette e un vecchio nastro polveroso di Chet è la prima cosa che ho recuperato dal baule della musica. Fuori fa un caldo che uccide. I ghiri dormono come da contratto. Si svegliano e fanno casino solo nel momento in cui mi abbandono completamente al sonno. E comincio a leggere partendo dall'incipit che vi ho rirpoposto pari pari. Wallace m'è noto come giallista ma dalle prime righe vedo che si cimenta anche con altri colori. DElla pelle per giunta. Non mi indigno perchè sono un vorace consumatore di pellicole tarzaniane e ho ben presente scene in bianco e nero che sono il segno di un'idea dell'Africa, delle colonie, dei neri, delle gazzelle che è politica ma che trova corpo nell'immaginario collettivo, nella letteratura di sapore esotico, da Salgari a Van Loon, nel palpito dell'"hic sunt leones", nei bestiari medievali e nei serragli,nella percezione dell'altro come di uno scherzo e di un errore.   I portatori camminano sul ciglio della montagna gravati da casse piene di tutto quello che può servire all'uomo bianco una volta montato il campo. La specchiera, la sedia comoda, il set per lucidare gli stivali. A un tratto un portatore scivola e precipita. I due bianchi alla testa del convoglio lo guardano precipitare e uno dice all'altro "accidenti, cosa c'era in quelle casse" "medicinali" "maledizione"... e a noi monta il dubbio che per risparmiare sull'effetto speciale in bianco e nero abbiano lanciato un portatore sul serio. 
Comincio a leggere e sorrido e m'appassiono e a un certo punto capisco che questo libro non è solo la fonte plausibile per l'analisi della madre di tutti i razzismi, di tutte le pretese coloniali di due secoli appena trascorsi. Questo libro ha qualcosa di potentemente letterario che lo slancia oltre. Il problema non sono gli uomini neri ma gli uomini e basta. Arriva il missionario, poi il giornalista democratico, poi la signorina, poi lo scienziato pazzo, una galleria di tipologie umane degna di un film di Romero. E il giudizio è implacabile. L'umanità non passa la prova e Sanders è a mezzo tra un uomo di spirito e un pezzo di merda. Un libro che è una riflessione sulla solitudine e nella jungla si aggirano i Leopardi. E mi ricordo che Wallace a un certo punto della sua vita ha scritto anche delle sceneggiature di successo. King Kong su tutte. La scimmia è meglio dell'uomo. La scimmia è l'uomo. La scimmia è sola.
Recentemente ho parlato con delle persone che sono andate a fare trekking sul Kilimangiaro. Per ogni bianco ci sono tre neri di media. Ogni sera tiu allestiscono la cena con i viveri alla occidentale che si camallano per dieci giorni. Pollo fritto, frutta sciroppata. Portano pentole e piatti e sono a piedi nudi. Portano un letto vero. Le persone con cui ho parlato si sentivano comunque moralmente al sicuro perchè gli americani che li precedevano si facevano montare un bagno con doccia ogni volta che a uno scappava la cacca. Alla fine dell'avventura puoi regalare le magliette sudate ai portatori. Le scarpe no, che quello è il ricordo della tua fatica. Sanders m'è sembrato una brava persona.




http://www.youtube.com/watch?v=9ePXMYq5Xjg