martedì 21 ottobre 2014

Tango figurato del disdoro: figura 6





Il divano era quello in pelle recuperato da qualche avanzo di trasloco di amici e che per anni è stato il nostro Pequod. La sera dopo cena io e Dani ci piazzavamo sul divano e partivamo alla volta del Mar dei Palazzi. Spesso incrociavamo altre navi da salutare e c’era Giacinto Corsaro Dipinto, c’era la Calipso piena di scienziati subacquei, c’era il Sottomergibile, c’era Bomby Dick la balena ciccia e soprattutto c’era lui, il Comandante Diavolo. Infatti le altre barche e i cetacei che incrociavamo e salutavamo se erano amici o facevamo bersaglio dei nostri cannoni se non ci piacevano, galleggiavano su un mare trasparentissimo e erano trasparenti anche loro ma Comandante Diavolo stava lì sul tavolo, dritto al timone e affrontava la maledizione di essere un eroe silenzioso. Quando anni dopo mio figlio scoprì che c’era una canzone dedicata a Germano Nicolini, il comandante Diavolo, non ci voleva credere che anche gli altri sapessero di quella barca che avevamo trovato nei mucchi di robaglia buttati in terra al mercato di Porta Palazzo. L’avevamo pagato un euro il Comandante Diavolo e da allora veglia sulle nostre tempeste domestiche. Il comandante Diavolo vero per mare forse non c’è mai andato ma questo è un dettaglio. Quella sera avevamo cenato da poco, avevamo già fatto salire i cani a bordo e stavamo levando le ancore.  Nessun film alla televisione ci avrebbe convinti a fermare la nostra crociera in quella casa in affitto che a norma aveva solo la pasta con le melanzane. Sta di fatto che il ramponiere di un’altra baleniera, per disgrazia o per dispetto, lascia andare il suo attrezzo micidiale verso la mia schiena. Un dolore maledetto. Mai sentito. Ste corre a vedere cosa sta capitando e mi ritrova per terra in preda a fitte tremende. Colica renale. Dani ha due anni e se vi dico che ora ne segna quattordici fate due rapidi conti. Nessuno può accompagnarmi al pronto soccorso e io non posso certo prendere la moto. Chiamo l’ambulanza per la prima e, lo giuro, ultima volta della mia vita. Arrivano due avanzi di astanteria che mi guardano e dicono “Vabbè, mica possiamo portarti in barella con la scala così stretta. E poi sei grande e grosso. Ce la fai a scendere a piedi. Ti reggiamo noi”. Dice che il dolore della colica renale, da allora non ne ho più avute, è secondo solo al parto e io ero alla colica gemellare. Arrivati in ambulanza mi siedono su uno strapuntino e partono e a ogni buca una maledizione. Per fortuna l’ospedale è molto vicino a casa mia. Il pronto soccorso è il set de “I guerrieri della notte” però non quello originale ma un remake girato da una società di produzione del Tagikistan. Arriva di tutto. Persone intere e pezzi sfusi, gente aperta a bottigliate e decine in coma etilico come se piovesse vino fuori, tossici in carenza, barboni in cerca di riparo per la notte che giurano di avere qualsiasi malattia, ogni tanto entra un malato standard, un ragioniere con sospetto d’infarto o un geometra preso da labirintite ma vengono trattati come degli intrusi. Se vomiti in sala di attesa guadagni punti a bestia. Se rubi lo stetoscopio al medico di turno sei reginetta della notte nosocomiale. Mi lasciano lì, come Ungaretti nei giorni di Natale. Passano e non mi degnano di uno sguardo e corrono che c’è una che sta partorendo un alien nell’altra stanza. Poi ripassano con le mani che grondano sangue verde, che quello è alien davvero, e vanno a ricevere una scatola di montaggio di tre persone direttamente spedite dalla tangenziale dove c’è stato un incidente a catena. E io lì a soffrire quel dolore che è secondo solo al parto e quindi, a mio giudizio, dopo alien c’ero io. A un certo punto arriva un infermiere e mi dice di sedermi su una seggiola che è uguale per design e dimesioni a quelle dell’asilo. Riesco a incastrare una chiappa tra i due braccioli. Prende un bombone di flebo e mi pianta di fretta un ago da calzolaio in vena “Vedrai che andrà meglio” mi sibila mentre corre verso uno con la sedia a rotelle che il volontario ha lasciato parcheggiato sulla rampa in discesa delle ambulanze. Sorrido e svengo quasi subito. Non entro negli aspetti tecnici ma sono certo che buona parte della mia generazione potrà capire se dico la magica parola: fuorivena. Mi si è gonfiato il braccio a scoppiare e son svenuto. Mi risvegliano e mi piazzano su un letto di quelli per portare le cavie anziane in sala operatoria. Non ci sono letti liberi mi dicono e quindi mi sistemano in corridoio, vicino alla porta di ingresso delle barelle delle ambulanze. Faccio a tempo a guardare fuori in cortile e vedere un enorme nero che è arrivato con un motorino, un Garelli credo, e si regge la faccia che gli hanno aperto in due. Cammina senza fretta ma chiede se possono richiudergli il volto gentilmente. Mi addormento e non so più nulla.
La mattina, lo scoprirò dopo che è mattina, sento una voce familiare che mi risveglia dal sonno pesante indotto dalle sostanze che, più o meno con perizia, mi hanno buttato in circolo. “Ma che cazzo stai facendo”. Non c’è dubbio la voce è quella di Ste ma il tono non è quello di chicorre al capezzale del caro infermo. Che sarà mai. Apro gli occhi e la vedo. Avrà una settantina d’anni ma chi può dirlo, magari m’è coetanea. Malgrado il tempo sia clemente indossa una sorta di giaccone pelosetto color verde biliardo zona fumatori. Capelli giallo nicotina. Grossa. Puzza come un cane bagnato ma più intenso. Ed è ficcata nel mio letto, sotto le coperte. Con me. La guardo e guardo Ste. La gentile barbona che ha trovato rifugio dentro le mie coperte alle mie confuse domande non rivolge minima attenzione. Sta facendo colazione bevendo un barattolo di lenticchie che sa iddio come si è aperta dentro il letto. Ingolla a garganella e il sughetto le corre frivolo giù lungo il mento. “Cazzo, alzati da lì” mi urla Ste che evidentemente ritiene che ci sia una mia colpa e la flagranza. Per tutta risposta la tipa, che ha finito di rifocillarsi con la colazione dei campioni, si gira verso Ste e le pianta un rutto in faccia che le fa i colpi di sole ai capelli. Rotolo giù dal letto. Maledico il mondo. Il dolore non si sente più forte come la notte. Vado dal medico e firmo per uscire, non ci voglio stare ancora un minuto lì dentro. Il medico legge quelle quattro righe sghembe che mi riguardano e mi chiede senza interesse “Lei beve?” “Pochissimo” rispondo io “Malissimo” risponde lui. Mi illumino e sento che diventerà il mio medico curante a vita. Lui intuisce l’equivoco “Acqua, parlavo dell’acqua, deve berne moltissima durante il giorno” .“Ah… grazie… ho capito” rispondo io visibilmente deluso dalle frontiere della medicina che ancora non si decidono a spostare i confini.

Per strada, a piedi, cammino barcollando e Ste non mi parla, indecisa se portarmi rancore. Ma è già l’alba in questo grumo postindustriale che dobbiamo pensare essere la nostra città ora. Alla fine ridiamo e quella risata risveglia il ramponiere nelle reni che m’assesta un’altra stilettata. Ma si fa l’abitudine a tutto e andiamo in un bar a fare colazione. 




2 commenti:

  1. Ma davvero non le commenta nessuno queste storie bellissime? (Poi magari verra fuori che il tuo blog è come il sito di zerocalcare dove tutti scrivono "primo" e invece, immancabilmente, ci sono già decine di commenti).
    Comunque sia, dopo un paio d'ora di risate, sorrisi e ricerche sulle caramelle Piz mi sento autorizzata, anzi, obbligata, a lasciarti un saluto ed un grazie.
    Ho anche attivato un noncosa col mio profilo yahoo e foto con nipotino in braccio di dieci anni fa... Ne ignoro la funzione ma se dovesse servirmi come promemoria ben venga!

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  2. no. ci sono pochi commenti su questi racconti, forse perchè le persone spesso vengono a cercarmi su facebook, oppure perchè nessuno ha voglia di parlarne di 'sta roba. anche io i commenti li scopro con notevole ritardo. però le statistiche dicono che il blog è parecchio frequentato. si vede che la gente ariva in massa ma poi se ne va delusa. sarà così secondo me. grazie a te in ogni caso.

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