mercoledì 1 ottobre 2014

Tango figurato del disdoro: Figura 5

le dieci figure di merda che ti hanno segnato nella vita.
numero 5
Siamo nei giorni che precedono il natale. Siamo nel capoluogo piemontese vinto dalla morsa del gelo. Siamo nei primi anni del nuovo millennio, a occhio sono passati quattro anni da quando abbiamo passato la cilindrata delle nostre agende a duemila. Orso, mio figlio, ha quindi quattro anni appena e frequenta con bel profitto l’asilo di Cavoretto. A questo punto devo cercare di ricollocare geograficamente la vicenda perché è possibile che, per quanto a questo punto mi sembri impossibile, ci siano persone che non hanno ben chiaro dove sia Cavoretto. Partiamo dal presupposto che noi all’epoca si viveva a Torino città e per i più esigenti possiamo dire che eravamo a un passo dallo stadio del grandissimo Toro e a uno sputo e mezzo dalla madre di tutte le fabbriche. Abbiamo cambiato casa da allora ma siamo sempre in zona. Quando s’è trattato di scegliere l’asilo ci siamo resi conto che questa città è ormai avvitata alla carogna spiaggiata della produzione che ne ha segnato pesantemente la dimensione antropologica, sociale e emotiva. Così i giardini d’infanzia ci sono sembrati una sorta di preparazione alla cupa scansione dell’esistenza attraverso i ritmi della produzione, magari era solo suggestione nostra, magari a uscire tutte le mattine guardando verso i cancelli e canticchiando “Vincenzina e la fabbrica” nemmeno ci siamo molto avvantaggiati. Sta di fatto che Ste decide di iscrivere Orso all’asilo di Cavoretto. Trattasi nella fattispecie di un paesetto sulla collina torinese. Giusto qualche chilometro di curve in salita che mi hanno immediatamente convinto della bella pensata di Ste e che mi hanno fatto immaginare le gare in salita con la moto che avrei ingaggiato con gli altri papà. Ogni mattina, piovesse o ci fosse il sole, Ste , che è di una tempra che femmine così non le fanno nemmeno all’Ansaldo, prendeva la bici e arrivava fino al lembo ultimo della salita, poi prendeva un autobus senza mai fare il biglietto e saliva a Cavoretto. Giuro che ho visto Ste e Orso sparire nella nevicata sulla loro bici, la stessa che avevo trovato per strada nella campagna senese e m’ero rimesso a posto alla meglio. Orso si chiama davvero così, mica per scherzo, e già da piccolo era di buona pezzatura e il seggiolino si fletteva pericolosamente. Per fortuna un giorno amici ci hanno regalato una vecchia vespa e, guarda tu i casi della vita, sono andato a prenderla che non funzionav,a proprio a Cavorett. L’ho spinta di notte per quei dieci chilometri fino a casa e l’ho fatta ripartire consentendo all’equipaggio mattutino di agevolarsi di un mezzo sfrecciante e efficace. Ero fiero di quella mia avventura di recupero.
Ma dicevamo del natale. In casa editrice in quei giorni si chiudevano volumi e cataloghi e io lavoravo come un tragico scarabeo stercorario. A un certo punto mi arriva la telefonata di Ste “Guarda che la recita sta per iniziare”. Cazzo, la recita natalizia all’asilo. Ci sono tutte le mamme, tutti i papà, tutti i nonni e tutte le tate peruviane. Sono dalla parte opposta della città. Fuori è già buio da un pezzo, fa un freddo cane, lo ripeto così enfatizzo, e non ho una macchina ma solo la mia Guzzi California. Mi infilo il giaccone scendendo al volo le scale a quattro a quattro. Arrivo in strada e la sella, come capita spesso d’inverno, dopo ore di attesa delle mie chiappe trepidanti, è coperta da una brina che rischia di influire tragicamente sulle mie pulsioni da lì a sempre. Mi piacerebbe dire che salto in sella ma il California 1100 a carburatori è una cazzo di massa ferrosa mica da scherzarci e se sbagli la mossa per recuperarti ci vuole la protezione civile e i cani da macerie. L’abitudine di una vita sulla moto però gioca a favore e parto sfrecciando per i viali. La moto si intraversa sull’asfalto ghiacciato ma confesso che quello è il bello. Nella fretta non ho preso i guanti e il casco si appanna e devo tenerlo aperto. Se sei uno che ha avuto almeno un Garelli nella vita ora lo sai cosa vuol dire non avere i guanti a Torino a fine dicembre di sera con la brina che ti inchioda le palle alla sella e con le dita che in un breve lasso temporale si trasformano in magici Polarelli. Se non hai idea di cosa io provassi in quei momenti perché nemmeno il Garelli nella tua vita allora prova a immaginare che al posto della spina dorsale ti nasce un ghiacciolo arcobaleno e il cervello ti diventa come un Cucciolone, con tanto di formidabile barzelletta a fumetti sopra. Se ancora non ho reso l’idea rinuncio a evocare la ritirata di Russia e la sacca maledetta del Don e ti prego di non continuare oltre la tua lettura. Sta di fatto che corro come un pazzo e brucio i semafori e brucio anche le dita e la sensazione è quella delle unghie strappate. Arrivo alla salita e me la faccio a gas spalancato, rischiando nelle pieghe con la ruota che era quella che costava di meno e ora capisco perché. Alla fine arrivo nel cortile dell’asilo. Non c’è uno specchio e non mi posso vedere. I capelli che all’epoca portavo lunghi e fuori controllo inconrniciano un volto paonazzo e il corpo già pesante di suo e peggiorato dal giaccone enorme che indosso per salvarmi dal freddo. Le mani sanguinano dalle pieghe delle dita e, ma questo non ho modo di constatarlo subito, anche in corrispondenza delle pieghe all’angolo esterno dell’occhio, quelle di quando strizzi per il sole o il freddo in faccia, i tessuti hanno ceduto quando ho disteso il volto e ora sembro la madonna di Civitavecchia che piange sostanza ematica. Senza nemmeno l’avallo dei credenti. Sono una sorta di morto vivente uscito dalla bella fantasia di Romero. E così faccio il mio ingresso nell’asilo e mi dirigo alla sala delle recite. Lì non mi hanno mai visto perché, come ho già detto, è Ste che ogni giorno affronta la salita e porta il ragazzo a conquistarsi un pezzo di carta che gli sarà utile nella vita. Entro e attacco a fare le foto, che quello è mestiere mio. Lo capisco subito che la gente mi guarda con insistenza, sono uno di strada e me ne accorgo quando qualcuno mi punta. Se poi mi puntano in ottanta persone diciamo che vado in leggera tensione. Ste è davanti ma mi ha visto. Anche Orso mi ha visto e sorride. Questo volevo. Questo e basta. Mi rilasso. Però Ste si gira e mi fa dei brevi cenni segnalandomi qualcosa sul viso. Forse mi chiede dove ho gli occhiali. Mai io riesco a fotografare anche senza. Tranquilla, le faccio cenno, tutto sotto controllo. La recita finisce. I piccoli vanno dietro le quinte e i genitori rivolgono la loro attenzione al rinfresco apparecchiato sui banchetti con le torte e le patatine e le bibite e anche delle bottiglie di vino. Eccolo, penso io, il vino. Con tutto questo maledetto freddo ora mi bevo un goccio di Barbera e mi recupero alla vita. Però prima mi devo dare una ripulita alle mani con il sangue secco che ancora corre tra le dita. Della faccia nemmeno mi rendo conto e poi è l’aspetto mio solito con la barba lunga e il corpo fuori misura che non facilitano mai. Insomma afferro la bottiglia, la stappo con lo svizzero che ho in tasca e comincio a vagare tenendola stretta in mano e cercando un bicchiere che sembra brutto andare giù a canna. Ed è in quel momento che accade. Mi ritrovo circondato da tre o quattro maestre e un bidello. Tutti molto più bassi di me ma incalzanti. Una in particolare mi dice con l’occhio feroce “Scusi ma lei a che titolo è qui. Mi può mostrare un suo documento”. La sala si ferma. Mi guardano tutti. Un grosso barbone reduce da una rissa è entrato nell’asilo e si sta mangiando tutto il rinfresco della recita del natale. Stanno pensando così. Poi dal fondo della sala si sente una vocina “Quello è il mio papà, lasciatelo stare”. Orso mi corre incontro, si abbraccia alla mia gamba e comincia a dare calci in giro distribuiti tra le maestre e il bidello. Tutti si risollevano e ridono. Cerco di spiegare quel fatto che sono arrivato in moto e il freddo e nessuno mi ascolta davvero e già si sono dimenticati di me. Tutti tranne Ste che si avvicina, mi guarda e scoppia a ridere. A pasqua sono tornato all’asilo per la festa in giardino. I primi caldi mi hanno agevolato mentre me la giravo con la maglietta “Sono il papà di Orso”. Fosse stato in Trentino mi avrebbero sparato. Una vita sempre in pericolo.

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