L’esposizione al riverbero del dolore. In questi giorni
faccio i conti con il dolore degli altri. Non parliamo di un dolore denso e
consistente ma di un malessere che si propone in forma d’odore denso e
insopportabile per prendere via via peso e concretezza e poggiarsi come una
cotta di maglia gravosa ma studiata al contrario, per lasciar penetrare tutte
le lame e le punte senza lasciarle andar via. Mai. Pesante di metallo dunque il
dolore. Con un sapore di metallo e un odore ancora di metallo. Non c’è artificio
retorico che possa agevolare quell’unica tremenda constatazione metallica che
s’appoggia alle tue ossa e pesa di dolore. Sono passato di casa in casa, di
città in città e certamente mi son regalato sorrisi e abbracci e la necessità
di constatarci vivi oltre il labile segnale di leggerci in rete, chè noi nativi
analogici non troviamo sazietà nel racconto del reale in pixel e giga e sempre
cerchiamo di ficcarci negli odori e nelle voci e questo ci salva. Ho fatto i
conti con la mia memoria domestica più consistente e ho misurato nel sorriso
dei più piccini il senso compiuto dell’immortalità. Ho diviso parole al tavolo
con quella mia solita foga dell’arrivare e partire. Sono stato bene ma su tutto
incombeva il dolore che necessariamente andavo a incontrare poi. Rimandando e
versandone un altro ma ritrovandolo tra le pieghe del tovagliolo e nelle ombre
che passavano rapide. Dopo alcuni giorni in giro sono tornato a casa e nel buio
degli ultimi cento chilometri sotto una pioggia notturna e prepotente parlavo
con Ste, e facevamo il conto dei dolori attraversati. Perché in questi giorni
ci siamo misurati con il terror panico di chi non vuol morire e il dolore sordo
di chi insegue fantasmi incessantemente, spiando l’errore della tua felicità e
ripetendo che su di te s’è posato davvero l’occhio benevolo della fortuna, in
beffa alla fatica maledetta che hai fatto per metterti in tasca una vita dove
poter dare un volto alla lealtà e al sorriso, e poi vite collocate sul filo di
racconti sospesi e sempre quest’ombra di morte con cui non sapevamo
compiutamente misurarci. Di fronte alla diffusa pratica del dolore tendo a
portare con timidezza la mia vita bella che pure mi sono conquistato a morsi e
senza regali. Eppure lo sentivamo che la maledizione del dolore è che non ti
lascia salvo mai, come il peggiore dei virus. La risposta al dolore è la
nozione consistente del respiro. Poi non ci riguarderà più nulla, nemmeno il
dolore medesimo. Della morte ci si occupa da morti, non è questo il tempo. Per
me non lo è mai stato.
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