Autostrada Milano Venezia. Notte fonda. La moto si lascia inghiottire
dal buio e il mondo, almeno quello che posso credere esista ancora del mondo, è
tutto concentrato nel triangolo di luce gialla proiettato dal mio faro. “Mister
state trooper please don't stop me”. Sono i versi della canzone che corrono
dentro il mio casco la notte, durante i viaggi lunghi. Sempre gli stessi.
Parlando con gli altri motociclisti scopri che la maggior parte cantano mentre
guidano, soprattutto durante i tragitti lunghi. Del resto andare in moto è in
ogni caso confrontarsi faccia a faccia con se stessi, che altri interlocutori
non ce ne sono anche quando hai un passeggero a un tiro di spalla. E allora hai
il tempo di raccontarti le tue storie, di prendere la misura della memoria e di
lasciare che passione, emozioni e follia giochino sul ciglio dell’attenzione
che la strada pretende. E a un certo punto cominci a ripetere “Mister state
trooper please don't stop me”. Giri e rigiri su quel verso e soprattutto sul
battito della chitarra, ché tutto quel disco si regge su quel pulsare che nel
tempo è diventato quello del tuo cuore, delle tue tempie, della tua anima se
mai ne avrai una. Un mantra da ripetere a casco aperto, lasciando che l’aria ti
soffi su quei versi a fior di labbra, perché quando canti in moto basta il
gesto delle parole, tanto i suoni, tutti i suoni possibili, sono già ostaggio
del motore. Sull’autostrada in quel momento, malgrado la notte avanzi, c’è
molto più traffico del solito e mi immagino siano tutti reduci dalla mia stessa
serata e forse non è nemmeno un’idea così balzana. Siamo a cavallo tra il 19 e
il 20 aprile del 1999, ci stiamo spendendo le ultime lire prima dell’arrivo
della moneta unica e non ne abbiamo grande consapevolezza. Stiamo finendo anche
i giorni di un secolo e di un millennio e, a parte vaghe nozioni di un
imminente collasso delle tecnologie che si rivelerà piuttosto la formula
moderna del millenarismo medievale, anche di questo passaggio portiamo addosso
vaga consapevolezza. Quella sera lì a Milano c’è stato il concerto di Bruce
Springsteen che per questa tournée ha rifatto corpo unico con la leggendaria E
Street Band, per la gioia di milioni di appassionati e per la mia gioia in
particolare, considerato che quando viaggi chiuso in un casco gli orizzonti
percepiti si riducono parecchio. “Mister state trooper please don’t stop me”.
La prima volta che incontrai
Bruce Springsteen mi portavo addosso i miei quindici anni, che so ricordarmi
per l’odore di miscela del motorino che mi serrava la maglietta in una morsa
fatale che probabilmente contribuiva a tener lontane le ragazze. Tutti noi dei
palazzi avevamo qualcosa che teneva lontane le ragazze ma non avevamo
percezione di cosa fosse. Probabilmente erano i palazzi stessi a formare una
sorta di triangolo delle Bermuda delle passioni, inghiottendo ogni nostra
possibilità.
La prima volta che incontrai
Springsteen sarà stato il 1980 a occhio e i miei quindici anni lavoravano sodo
per costruire quel baluardo di passione fatto di canzoni e film e libri e fotografie
che da lì in poi mi sarei portato dietro come un cantiere infinito, sorta di Sagrada Famiglia della memoria personale
e difesa attiva contro il tempo e il peggiore dei mondi per tutte le volte che
m’è capitato di incontrarlo.
La prima volta che incontrai
Bruce Springsteen avevo un paio di cassette C90 vergini. Per la cronaca
duravano abbastanza da farci stare un LP per ogni facciata. Sempre per la
cronaca che ormai i nostri giorni respirano a fatica dietro al tempo di questa
maledetta tecnologia mutante, gli LP erano i dischi in vinile grandi, quelli
con la copertina che potevi godertela come un quadro d’autore e con le note
belle chiare da leggere e lo scaffale pronto ad accoglierli per l’orgoglio tuo
e della stanza.
La prima volta che incontrai Bruce
Springsteen me ne restavo lì nel salottino dell’amico ricco, quello con la
villa e la faccia da secchione. Quello secchione oltre la faccia. Quello che
ora lavora in banca e la cravatta ce l’aveva tatuata sul petto già da bambino.
Quello che comprava i dischi a decine e centinaia per il bell’esercizio di
potere che attivi quando puoi comprare sempre e tutto. Toccava difenderlo a
scuola e tenerselo buono quello lì, che aveva tutti quei dischi, che se ci
fosse stata una giustizia su questa terra sarebbero spettati a me per diritto
naturale e anche per quel prezzo che avevo pagato di palazzoni in periferia e
motorini truccati e botte e risate sghembe e voglia di femmine da lasciarmi
tramortito. Tutta roba che correva in quelle canzoni. Ma ancora non lo sospettavo.
La madre del secchione mi aveva detto di aspettare perché lui era di sopra a
studiare avvolto nelle sue camice stirate come in un sudario. Restavo lì, in
piedi, con le mie cassette caccolose, forse riciclate col pezzotto di nastro
adesivo teso sulla finestrella che impediva di registrare nastri già incisi.
Una vita di pezzotti tesi tra l’aorta e l’intenzione, ma questa storia stava in
un altro disco che pure scoprivo in quei giorni lì. Quella era una stagione
confusa dal punto di vista delle scoperte e i cantautori e il punk
s’accoppiavano in razza bastarda nelle mie cassette. Lo stereo non ce l’avevo
ma m’ero comprato un radioregistratore, radione dicevamo noi che ignoravamo
quanto sarebbe stato più figo chiamarlo ghetto
blaster, e le cassette giravano tutto il giorno a pieno regime. Ne avevo
anche di originali. Ma tutto questo, il pugno di terra in cui potevi tenere il
mio mondo e ci stava comodo, in quel momento non esisteva. Ero nel salotto di
quell’altro e c’erano i mobili antichi e lo stereo come la consolle di un
astronave e centinaia di dischi in fila ordinata. Diceva che la passione della
musica gliel’aveva passata suo padre che ascoltava la classica. A casa mia
sentivamo la radiolina a pile in cucina e c’era la trasmissione Chiamate
Roma 3131 ma noi non potevamo anche con la più buona volontà perché il
telefono non ce l’avevamo. Una vita tagliato fuori. Poi quell’altro lì s’è
deciso a smettere di studiare, che eravamo entrambi al ginnasio, io in bilico
sui paradigmi dei verbi greci che dalle mie parti nessuno frequentava e che
gettavano ombre sul mio onore che continuamente dovevo riposizionare, e lui
totalmente proiettato nel suo futuro professionale con la cravatta tramandata
di padre in figlio come un’arte. Con un futuro stabilito in cui la padronanza
delle lingue morte e la messa domenicale erano un accessorio indispensabile
nell’ipotesi di esprimersi da lì a sempre con un timbro picchiato giù duro
sulle carte di competenza. Giù, bang, di peso, sulla proiezione della vita di
millanta poveri cristi che mettevano a nudo il loro cuore e il loro giorno sul
tuo tavolo aspettando speranzosi che scendesse in picchiata guidato dalla tua
mano santa, il timbro giusto. Anche questo c’era in quelle canzoni e ancora non
lo sapevo. Ho sorriso e mi costava mille punti d’orgoglio essere lì ma era
quell’apnea che dovevo sopportare per poter riempire la mia stanza ancora una
volta di musica. Lui mi stendeva le copertine sul divano e mi mostrava gli
ultimi acquisti. Il valore di quella merce sembrava essere proprio il lasso
temporale che correva dall’arrivo nelle vetrine del negozio alla planata nei
suoi scaffali. L’ultimo disco di qualcuno era sempre il più ambito. Come se da
lì a poco solo l’apocalisse. Senza sospettare che la morte di quel mondo di
vinile premeva davvero alle porte e noi ormai c’eravamo stufati di guardare
dagli spalti il presagio dei Tartari e delle loro orde, convinti che quel
nostro mondo sarebbe stato per sempre. Per sempre i palazzi, i motori che ti
sporcavano le mani e il campetto col pallone e le risse e quella maledetta
voglia. Tutto stava anche in quelle canzoni e ancora non lo sapevo e mai avrei
immaginato che quelle notti nostre con le gare nei viali vuoti e qualche birra
calda sul muretto avrebbero avuto altra dignità se ricollocate in una Jungleland di competenza. L’avessi
saputo che le mie notti avevano diritto d’essere portate dal sax dell’uomo
gigante. Invece quello lì, il secchione per capirci, mi fa vedere ‘sto disco
che si intitola Born to Run e di
primo acchitto mi incuriosisce, che quella faccia è roba che so misurare
d’istinto. Poi leggo sull’angolo e c’è una scritta in italiano che recita
qualcosa come Il nuovo Bob Dylan. Le
regole di strada e del rispetto le conosco, magari i paradigmi dei verbi greci
meno, e me lo immagino che se uno è disposto a farsi scrivere una cosa così sul
suo disco è uno loffio che non gli disturba l’idea d’essere un avanzo del
pranzo di un altro e non merita di riempire un lato delle mie cassette. Passo a
un altro disco ma mi resta un dubbio.
Ci sono dei lampeggianti blu e macchine con le doppie frecce. Scalo un
paio di marce della moto, anche lei un sogno americano, l’ennesimo e ci sarà un
motivo, saltato in padella con gli ingredienti a disposizione. Guido una Moto
Guzzi California, per la memoria di mio nonno e mio padre che guidavano con lo
stesso stemma sul serbatoio e per la memoria di un sogno che anche le canzoni
di Springsteen mi hanno regalato e che m’ha fatto sentire che nei miei gesti di
tutti i giorni, dalla fatica alle notti a correre su una lingua di asfalto,
c’era racchiusa tutta la poesia possibile. Qualcuno si è schiantato e a giudicare dal groviglio si sarà già
scordato di respirare. Magari era stato anche lui, o lei, o loro, al concerto.
Le macchine si accatastano in fila asmatica e io passo con la moto che borbotta
a filo di sportelli e tensione. Il poliziotto mi fa segno di andare oltre.
Mister state trooper please don’t stop me. Lo vedi che serve cantarsela.
Un giorno me ne stavo sdraiato
sul letto in camera e su Linus leggo di
questo tizio che è poi lo stesso della copertina che avevo bocciato a casa del
secchione. The River, si intitola il
disco di cui parlano. Addirittura un doppio. La faccia in copertina è quella lì
e sento che devo fidarmi. L’acquisto di un disco doppio per me all’epoca, pure
se m’ero dannato a masticarli i paradigmi dei verbi greci alla fine, era uno
sforzo mica da ridere ed era una stagione che non portava regali a nessuno e quello che avevi fatto era sempre
e solo la metà del tuo dovere. Fratello, hai la faccia mia e la camicia mia e
il mio stesso stilista del capello e mi chiedi di stracciarmi le vene sulla
fiducia per comprarti il disco. O sei un bastardo o sei un mago. L’uno non
esclude l’altro. La cassetta originale, lo dico ormai solo per i cultori del
genere, non era doppia come il disco. In un nastro solo ci stava dentro ficcato
tutto quel fiume lì di storie. Che mi ha cambiato la vita. Anche a partire da
quelle canzoni ho capito che non importava che lavoro facevi e che cosa
succedeva nella tua vita perché quello che contava davvero era l’attenzione, le
storie minime che a saperle raccontare erano il nesso plausibile, la chiave di
lettura privilegiata per cercare di darti una ragione di questo fatto che siamo
al mondo e cadiamo e ci rialziamo e piangiamo e ridiamo e crepiamo comunque.
Springsteen quella lezione l’aveva imparata a sua volta dai maestri suoi, gli
stessi che, a partire da Woody, deciderà un giorno di regalarci come fa lui
entrando nella tua vita e lasciando quasi per caso un capolavoro sul tavolo
della cucina. E mi ero sforzato di ficcarmi in quel sogno di storie e emozioni
ridando un senso alla mia estetica e sognando una Pink Cadillac anche se mi sarei ben guardato dall’andare in giro
con un 131 Mirafiori dipinto di rosa
per le strade del mio quartiere. Il prezzo che devi pagare. Sono un rocker,
piccola, fattene una maledetta ragione. Quelle canzoni stavano diventando cosa
condivisa e a diciassette anni mi ritrovo sbalzato a seicento chilometri dai
miei palazzi in una nuova strada, in una nuova scuola e nuovi amici da
conquistare e sempre quelle maledette voglie e passioni addosso e il muro della
diffidenza l’ha rotto per me il vecchio Bruce. Nebraska in quei giorni, uno dei miei preferiti, con i versi da
portare scritti a penna sulla borsa di tela. Mister state trooper please don’t stop me. Comincia lì anche questa
storia. Ma quelli erano già i giorni di Born
in the USA, che poi lo scopriremo che le canzoni di quei due dischi erano
arrivate tutte insieme e divise tra solitudine e band. Pivello, mi permettevo
di fare quello della vecchia guardia e scuotevo il capo e dicevo che quella
roba lì era paccottiglia e invece di nascosto mi piaceva ma era la stagione che
le femmine cominciavano a essere a tiro di sorriso e uno un tono se lo doveva
dare.Poi c'era quella bandiera americana e Ronald Reagan che strizzava
l'occhiolino suo da attore naufragato e signore del mondo che affonda. Avessi
solo prestato migliore attenzione a quel testo in apertura, con l'urlo d'essere
nato in quel paese che dentro di me era un'idea che combatteva tra sogni e
diffidenze. Ma come potevo, ficcatevi nei panni miei di quei giorni turbinosi
presi a morsi di carne vera e nulla riuscirete a fare se non ululare I'm on
fire alla luna.
Al concerto di Milano non ci
sono andato da spettatore. Per anni uno dei miei mille lavori era stato
schiantarmi di fatica come facchino e come sicurezza ai concerti. Altro che
Ismaele, chiamatemi “George of all trades”. Decine di ore spese nei sottopalchi
e servizio agli ingressi e ai camerini e sospeso sulle impalcature. Un modo
come un altro per portarmi dei soldi a casa e per vedermi qualche concerto con
gli amici. Quando Springsteen arriva in Italia alla testa della E Street Band
voglio esserci e voglio stare davanti, dentro, ficcato il più possibile in quel
frammento di storia. Telefono a Franco, un fratello con cui ho condiviso
parecchio in questi anni, comprese passioni e deliri, e gli chiedo se lui e i
suoi lavorano per quella data. Da giurarci. Chiedo di essere del gioco. Chiedo
che nella retribuzione ci entri anche un biglietto per Stefania. E poi partiamo
in direzione Milano, verso il palaqualcosa. La carovana è già lì e iniziamo a
lavorare dalla mattina. Ste resta fuori e se la gira mentre noi ci
organizziamo. Il pass che mi consente di entrare dove voglio ce l’ho lì, appeso
ancora oggi davanti alla scrivania, e quel giorno verrò avvicinato almeno da
venti persone che offrono soldi per averlo a fine concerto. Una reliquia. Ma
state chiedendo a quello sbagliato fratelli, io magari vi vendo le parole a
peso se ho fame e le scrivo anche come vi piacciono, ma la pelle, quella non me
la dovete toccare. E quel giorno si fatica e mi camallo con un roadie americano
il contrabbasso di Gary e lo porto sul palco. Custodia bianca rigida. Ci hanno
dato delle magliette gialle. Chi mi conosce se lo immagina che affidare la
sicurezza a me è come chiedere a un topo di custodirti il formaggio. Invece sto
bravo e lavoro per il rispetto che devo a quella fatica che tante volte m'ha
garantito una cena.
Poi devono fare le prove e
salgono tutti sul palco e suonano per noi che la sera lavoreremo e ora stiamo
lì, un pugno di sgangherati, con il mento appoggiato alle tavole polverose. E
ci fanno un concerto tutto per noi workin'men e ci scappa pure una versione
tutta filata proprio di Jungleland, con tanto di assolo potentissimo. Quel
giorno sono caduto nel pentolone della pozione magica di quelli del New Jersey
e da lì in poi potrei vivere senza un altro concerto per tutta la vita. Dico
così e poi ci ricasco sempre, che siamo gente di strada e mica c'è da fidarsi
troppo. Perdonatemi se potete e se non potete ci siamo abituati.
Siamo al 1987 e esce Tunnel of
love. Sono tutti in fermento alla radio dove lavoravo e lavoro anche oggi
ma il disco esce di mercoledì e la sera c'è Babel e tocca a me e tutti
se lo immaginano che terrò in piedi la serata a farlo sentire tutto. Il
pomeriggio vado al negozio che mi passa i dischi in cambio della pubblicità. Me
ne hanno tenuta da parte una copia. Con il motorino razza Ciao, lo stesso su
cui a bomboletta sul fianco ho scritto Johnny 99, sfreccio per la città.
Devo arrivare allo stereo subito ma è duro essere un santo in questa fottuta
città. Poi le canzoni scorrono e io mi rigiro la copertina e non ci posso
credere. Mi sento tradito. Quel disco non mi dice niente. La sera, con i
telefoni che squillano impazziti e la gente che mi maledice per non aver
mantenuto la promessa, faccio sentire un vecchio bootleg. Quel disco non mi è
mai piaciuto e i due che seguiranno ancora meno. Toccherà al fantasma di Tom
Joad invitarmi al loro tavolo di nuovo ma capita in tutte le storie tra
vecchi amici, che a me gli adepti di qualsiasi cosa mi sono sempre stati sulle
balle. E a proposito di tavoli anni dopo, ho cambiato mille case e città in onore
alla mia generazione flessibile e sono alla fine capitato a Torino. Succede che
sempre più spesso nel mio lavoro che fa battere il tempo della storia con
quello delle fotografie e del cinema e della canzone e del fumetto mi capita di
incontrare gente che mi chiede se conosco Marco Peroni. Ogni volta dico che ho
letto le sue cose ma non ho mai avuto il piacere e tutti a dirmi che dovrei
proprio perché c'è qualcosa di indefinibile che ci accomuna. E un giorno di
aprile ci ritroviamo in un giardino toscano faccia a faccia, mentre si
festeggia un compleanno e anche a lui gli hanno fatto quel giochetto ripetuto
del conosci mica Giorgio Olmoti? No? Dovresti. I presupposti perché ci si stia
antipatici a vicenda ci sono tutti e stiamo lì uno di fronte all'altro, perché
anche qui c'è gente che crede che sia vitale che noi due ci si parli. Certo che
sappiamo reciprocamente chi siamo. Mangiamo e beviamo, ci troviamo su quel
gesto di riempirci il bicchiere a vicenda e a un certo punto proviamo a
parlare. “Tu di cosa ti occupi?” mi chiede lui “Sono un motociclista, arrivo
dalle parti del Friuli” “Io gioco da terzino dalle parti della Valle d'Aosta”.
Siamo scoppiati a ridere e da lì a scoprire che davvero eravamo legati a filo
doppio dalle passioni e dalla stessa colonna sonora c'è voluto pochissimo.
Abbiamo fatto libri insieme e lezioni all'università e seminari e spettacoli e
soprattutto serate in bilico sulla surrealtà che domina la nostra sfera più
intima. Circondati da amici perché tra noi di questa razza qui si finisce
spesso per incontrarsi. Riccardo Cecchetti per esempio disegnava per Frigidaire,
la rivista più importante di fine millennio e in quelle pagine correvano
anche le mie parole sulla musica. Ci conoscevamo senza sospettarci. Com'è
piccolo il mondo direbbe qualcuno. Com'è stupido il mondo scapperebbe da dire a
noi. E ora Marco e Riccardo sono qui a raccontare una storia che non ha il
vizio celebrativo delle discografie ben compilate che troverete ovunque ma
parla tagliando a fetta sottile le nostre emozioni con l'invenzione di un
personaggio che dentro si porta le canzoni che conoscete senza averle sentite.
Perché ora il nostro mestiere passa dalla storia giusto il tempo di ricordarci
che la Storia maiuscola forse non esiste. Esistono piuttosto le storie e quella
è strada nostra.
Questo non è propriamente un post del blog ma è l'introduzione al libro di Marco Peroni e Riccardo Cecchetti "il mio nome è Joe Roberts" edito da Becco Giallo. Per esigenze editoriali questo brano è stato ridotto ma io ve lo propongo integralmente. Buon viaggio come sempree perdete un paio di minuti per sentirvi un pezzoi dello spettacolo qua sotto che questi son miei fratelli e mica per scherzo..
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