Non saprò mai rispondere a quelli che ti chiedono
qual è il libro che porteresti su un’isola deserta, razionalmente mi porterei
una buona lama di Maniago sulla suddetta isola e emotivamente ci vorrei la
femmina della mia vita, ma libri e dischi e cose così lasciamo perdere. Non ho
nemmeno una canzone da riferire a un momento preciso della mia vita e per uno
che ha fatto della memoria un’ossessione metodologica e un mestiere magari non
c’è coerenza ma tant’è. Ho estratto da certe pieghe profonde dello stomaco le
parole per un libro mio lasciandomi portare da quell’accordo insistito che
scava immagini ne La domenica delle salme
e non era nemmeno il libro che ho scritto su De Andrè, non era nemmeno un libro
sulle canzoni a ben vedere, e sull’argomento ho speso qualche boccia di
inchiostro. Eppure mi capita una cosa e mi capita da trent’anni almeno. Mi succede,
a far di conto per approssimazione col pallottoliere dei ricordi, da quando
vivevo al bordo assoluto della periferia, proprio dove finisce la città e avevo
il mio branco di amici, gente che ancora è la mia famiglia, e c’erano i nostri
anfibi e i motorini razza Ciao con gli adesivi che celebravano la musica nostra
e c’era quella sensazione di inadeguatezza in punta di rabbia. La musica che si
sentiva allora andava ascoltata forte, che le voci nostre erano poca cosa. Me
la ricordo quella musica lì ma, come dicevo, non la lego a un momento,
piuttosto la ripasso spesso anche oggi. C’è una canzone però, una in
particolare, che non ho mai reputato la migliore e nemmeno quella su cui
mettere un segno per riconoscere l’emozione. Stava lì nell’aria come tante
altre e se me la porto dentro non è perché me la son caricata con la passione
ma piuttosto perché me la sono beccata come un raffreddore, come una cosa che
non sai di portarti addosso fino a che i sintomi non dichiarano il danno loro.
Sta di fatto che nel corso della vita mi sono trovato spesso al bivio. Si
trattava sempre di scegliere tra cambiare facendo il compromesso di un sorriso
alla merda e restare quello lì, che allora avevo un giubbotto di pelle, gli
anfibi, una camicia a scacchi, un jeans sdrucito e un portafogli aggrappato a
una grossa catena mentre oggi ho un giubbotto di pelle, gli anfibi, una camicia
a scacchi, un jeans sdrucito e un portafogli aggrappato a una grossa catena.
Ogni volta che sono rimasto nel dubbio e sono arrivato vicino a perdere il
passo d’uso, non il migliore ma l’unico che conosco e quindi il più leale che
posso permettermi, ogni volta che mi sono detto che se avessi solo trovato che
lo schifo aveva un sapore schifoso ma che non si moriva di certo, quella cosa
succedeva e succede. Arriva in dissolvenza da chissà quali maledette volute del
mio cerebro sgualcito. Prima è una chitarra che picchia, dan dan dan dan… poi
una nota di basso a scivolare nel dubbio e quella voce che mi racconta il vento
in faccia che m’ha tenuto in vita fino a qui, che se era solo per il mero
miracolo biologico del mio corpo ero crepato da un pezzo. Quando la sento che
monta dentro di me, capisco che non ho scelta, che non c’è niente da scegliere,
che io sto dentro quelle pennate furiose, che quel Fender Precision che sta per
abbattersi sul palco in bianco e nero della copertina è lì a ricordarmi che io
non mi porto addosso nessuna morale di riferimento ma ho quella fottuta canzone
che s’accende come la spia d’emergenza del mio respiro. L’altro giorno, e ne ho
scritto da qualche parte, era l’ultimo giorno per concorrere al massacro del
concorso da insegnante, avevo compilato i moduli e me li rigiravo tra le mani e
in dissolvenza dan, dan dan, dan…. London Calling.
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