lunedì 12 novembre 2012

collegare la periferica


Allora, ti ricordi come funziona qui? Fai partire il pezzo e leggi.


Premessa. A Torino, negli ex mercati generali, ci hanno ficcato una celebratissima iniziativa sull’arte contemporanea. A Torino ci sono Artissima, Paratissima, Ganzissima e tutte ‘ste cose belle che contribuiscono a costruire una robusta grammatica comune da spendere in coniugazioni d’azzardo tra i tavolini della movida. Maledetto quello che ha deciso che un brulicare di persone inerti bardate di bicchieroni di plastica caricati a ghiaccio e qualcosa si dicono movida e fanno cultura metropolitana. Ieri era Paratissima per me, che mi figuro sia una specie di festival dei calci di rigore a giudicare dal nome. C’erano un mucchio di foto appese. L’ho già raccontato altre volte che nel mio mestiere ci passa parecchio la fotografia e almeno una volta al mese da vent’anni a questa parte, arriva uno a farmi vedere le sue foto scattate in India e ogni volta mi mostra le stesse foto di quegli altri prima di lui, passate in bianco e nero con un clic su un programma di fotoritocco, che tanto basta. C’è un bramino a bordo Gange che l’ho visto così tante volte presentato come uno scatto eccezionale, al punto da percepirlo come un lontano parente. La suggestione è che anche lui sappia di me, dall’altra parte del mondo con una scrivania ingombrata di foto mie e di altri, che mi ritrovo di nuovo la sua faccia davanti e mi pare ammicchi e mi chieda di tacere e reggergli il gioco dell’unico. Sono rupie meritate le sue. Ieri a Paratissima, sulle pareti di quei padiglioni, ho contato quattro bramini. Lì dietro Paratissima c’è il villaggio olimpico, che sono case vuote e mai utilizzate e costruite con il fiotto caldo dei finanziamenti per le olimpiadi invernali, sempre siano lodate, che arrivarono sulla città, che quando arrivano i finanziamenti si dice che sono per la città e c’è questa cosa strana che tutti i cittadini che conosco io, bada che non sono pochi, non si sono visti offrire nemmeno un caffè. L’unica memoria sociale di quella stagione finanziatissima sono i piumoni sgualciti che i vecchi volontari ancora indossano d’inverno e non per vezzo ma piuttosto per necessità, come l’eskimo di Guccini. Andiamo avanti. Dicevo che ci sono tutte queste fabbriche e queste aree che ancora puzzano di un maledetto lavoro sporco durato decenni e poi ristrutturazioni fatte nel tempi di un singhiozzo e acqua che trafila dai soffitti e crepe che si aprono sotto il sole ma c’era da spendere i benedetti finanziamenti. Insomma enormi leviatani spiaggiati sull’arenile di questa città regalata al  pulsare frenetico del lavoro culturale declinato in mille forme. Alla salute di Bianciardi perché qui sputano sulle tombe ma lo fanno con la grazia della mano davanti alla bocca. A Paratissima io ci sono andato ieri sera perché c’era l’ennesima presentazione di “La faglia” che è un romanzo ambientato in una periferia di fantasia torinese, e la storia è interessante ma soprattutto Massimo Miro, l’autore, è un catalizzatore di energie sparse e organizza ‘ste serate con gente che parla, che suona, che legge, che filma e proietta. Ci sono anche io in questo Barnum narrativo e faccio Sgummo, che sarebbe uno dei personaggi del romanzo. Si parla di periferie e città industriale e passato presente e piuttosto mi pare di notare un occhio antropologico e un’attenzione sociologica negli altri che mi lascia ammirato. Non ce l’ho quell’attitudine lì. Sono qui perché la periferia per me non è una categoria storiografica e neppure un luogo dello spirito ma piuttosto il contenitore di una fetta consistente della mia vita. Una cosa mica da poco che mi ha condizionato al punto da farmi essere sempre periferia di qualcosa. Senza rimpianti e senza rancori, con l’idea che un posto vale l’altro ma poi sempre in periferia rimanevo. Senza il culto del perdente, che si vince a prescindere da dove giochi, senza l’assunzione di un merdosissimo paradigma vittimario perché ognuno fa i conti con la sua pelle. Insomma prendo il microfono e leggo ‘sta storia di Sgummo e io non leggo quasi mai in pubblico, parlare certo che parlo spesso a titoli vari ma leggere… roba d’altri poi. Gratis per giunta. Non ho vantaggi da questa cosa, che nemmeno ce ne andiamo a cena a ridere insieme, per me è importante stare attorno a un tavolo e ridere insieme, vado lì e faccio Sgummo e a stento ho consapevolezza di chi ci sia sul palco con me. Ma va bene così, che di cose mie sparse ce ne sono milioni e Massimo Miro e il suo libro sono una bella cosa. Sta di fatto che ogni volta son lì seduto che mi guardo attorno e penso che sul tavolo ci sono sempre mille proposte brillanti per il lavoro sulle periferie e nell’esperienza mia tutto quello che di brillante riguarda quella fetta estrema dei territori cittadini finisce inevitabilmente sul bancone del “compro oro”. Bada che le periferie in cui sono cresciuto io non sono torinesi ma dammi palazzi e puzza di miscela grassa nelle strade e facce che ti inchiodano alla tua maledizione di essere “fuori zona” e saprò trovare segno identitario.
Per dire, sabato mio figlio giocava nella palestra di via Panetti. Dai, sfrutta la bella potenza delle tecnologie recenti e vai a vedere dove sta piazzata a Torino ‘sta strada. L’immagine di Google Maps ti farà vedere una bella zona verde, parco Colonnetti si chiama, bordata dalla salda nervatura di viali dritti dritti che sembra siano lì per portarti a fare una bella scampagnata fuori città. Certo, stai guardando dall’alto, dal punto di vista di dio, e ci sta che da quel punto di vista ti sfuggano certe attenzioni minime, certe sfumature, pare sfuggano anche al dio medesimo, soprattutto oggidì che le sfumature di grigio le vendono al supermercato e te le regalano per insistere sul tuo immaginario erotico bollito e sterilizzato. Bene, devi sapere che sei nel cuore di Mirafiori, mica cazzi, Mirafiori, proprio quella che aveva dato il nome alla meravigliosa FIAT 131 Mirafiori. Per inciso se giri lì attorno su Google Maps ci vedi casa mia e ci vedi i resti del mammut della fabbrica delle fabbriche. 


Quando sono arrivato a Torino, stiamo parlando dell’anno con la cilindrata portata a duemila tondi tondi, per Natale con Ste siamo andati davanti ai cancelli della fabbrica delle fabbriche, con il nome scritto grosso e  grigio contro il grigio del cielo e della terra. Lì, nel parcheggio vuotato dalla domenica, ho fatto una foto a Ste con Dani di pochi mesi in braccio e lei aveva un cappottino nero e lui un cappellone di lana fatto dalla nonna e la foto era in bianco e nero e l’abbiamo stampata e mandata a tutti con gli auguri nostri dalla città della fabbrica delle fabbriche. Da guardarsi ascoltando Vincenzina e la fabbrica appunto. Non è un caso che dieci anni dopo ho scritto un libro, Cantastoria si intitola se volete versare un contributo fattivo alla mia causa domestica, e Vincenzina era il mio Virgilio che mi conduceva per cinquant’anni di storia nostra, di imbarazzo nostro mnemonico, attraverso le canzoni. Tutto era partito da quella fotografia. Fatta proprio dietro casa nostra, che ve lo dicevo che la periferia per quelli come noi non è una possibilità o una maledizione, è e basta. Insomma l’hai trovata via Panetti. Un capillare dell’arteria di via Artom, una lingua d’asfalto che si infila nella topa verde di parco Colonnetti e che dura qualche decine di metri, Uno pseudopodo urbanistico che muore nel nulla di uno spiazzo di fango o di polvere, a seconda delle stagioni. Unica meta plausibile un impianto sportivo che sta ormeggiato a bordo parco e che comprende anche un palazzetto dove gioca mio figlio a basket. Il sabato lo accompagno alla partita e Ste entra con lui e gli altri genitori mentre io scelgo di andarmene in giro lì attorno e non devo dare spiegazioni perché nella mia tribù lo sanno benissimo che ho questa maledizione che devo andare e guardare e ascoltare e qualche volta raccontare a mia volta. Il cane è parte integrante di questo passo. Stavolta però resto in macchina, nel mio vecchissimo e indistruttibile pick up che è una seconda casa. In questo caso è un punto di vista privilegiato. Mi sono parcheggiato di fianco al campo da bocce perché mi piace sentire i discorsi dei pensionati, quasi tutti hanno versato il loro tributo alla santa fabbrica delle fabbriche. C’è il sole, ho un paio di Zagor, ho sempre qualche vecchio numero di Zagor sparso tra il bagno e il sedile dell’auto, Tom Waits che fa piovere cani dallo stereo che mi sono montato da solo sul magico pick up. Il cane acciambellato accanto. Se il cane sonnecchia tutto filerà liscio. All’inizio di via Panetti ci sono quattro camper, un campo nomadi improvvisato sulla strada con i panni stesi sulle recinzioni del parco, ad asciugarsi a quello stesso sole che ci stiamo godendo io e il cane. Ho vissuto quattro anni sul lembo di un enorme campo nomadi in un'altra città e quella casa costava pochissimo perché nessuno ci voleva vivere e ancora me le ricordo le grigliate e la musica e le retate. Bambini, un mucchio pazzesco di bambini. Passano davanti al bocciodromo, due soprattutto, con le loro bici, trionfo della cannibalizzazione. Uno più grosso, a occhio dodici anni come il mio, va a prendere l’acqua con una tanica. A piedi nudi, sbilanciato dal peso maledetto dell’acqua, nella mano sinistra stringe un telefonino di quelli che quando li lanciano sul mercato la gente fa la fila per farsi colpire in fronte. Mi fa ricordare una bellissima foto di Enzo Sellerio, scattata alla fine degli anni Cinquanta circa in Sicilia e didascalizzata “baracca senza acqua ma con la televisione” in cui si vede una ragazzina che esce con un secchio da una casa sfondata e sbilenca sul cui tetto campeggia un’antenna televisiva. I ragazzini che arrivano per giocare a basket scendono da macchine che sono già segnale di famiglia e ordine, che poi vai a sapere come stanno le cose mi sussurra l’esperienza di uomo che guarda. Incrociano i loro sguardi con quelli di quegli altri stracciati con le bici e i panni stesi sul bordo del parco. Mi viene in mente la sequenza di ladri di biciclette in cui il ragazzino protagonista con la sua mozzarella in carrozza a filargli la tela della felicità a fior di labbra, incrocia lo sguardo con l’altro, il bambino ricco, che conta il senso della sua vita sull’avvicendarsi delle portate. Maledizione di tutta ‘sta memoria di pagine e film e foto che mi porto ficcata in gola e che confondo in questo mio scrutare. Insomma sto lì in bilico e per questa volta non sarò agente di storia, di questa storiella mia a più voci, e resterò a fare quello col finestrino sul cortile: Però, permettetemi, a ben vedere uno come me ficcato dentro un vecchio pick up, con uno Zagor stretto tra le dita, una canzone rauca che esce dagli sportelli e un cane che dorme tenendo l’occhio azzurro chiuso visto dall’alto del vostro Google Maps fa già parte della giostra che cerco di descrivere con distanza ma è questa mia attitudine ad essere storia e film e foto e fumetto e uomo a mia volta. Con il sogno torbido e segreto di essere lo Zagor delle mie periferie per giunta. Ormai lì in via Panetti, abbiamo tracciato i confini di pertinenza, se non lo sapete facciamo così sempre nelle periferie. Se metto la macchina qui dieci volte questo è il posto mio, se porto il cane alle cinque al parco e sto in quel pezzo di prato non venirci col tuo che si sbranano e questo è il posto mio, lo sanno tutti che è il posto mio. Un fotografo un giorno s’è dedicato a raccontare le favelas attraverso i segni di delimitazione degli spazi di pertinenza tra una baracca e l’altra. Ottima idea ma non mi ricordo il nome del fotografo anche se l’ho conosciuto personalmente. Stiamo lì e ognuno attiva l’attenzione degli altri ma la regola è non far vedere che sei curioso e fare il vago. Tutti abili nell’esercizio d’estimo che ci ha fatto intuire che non c’è preda tra noi che non si piscia dove si mangia, ci godiamo il sole e il respiro di questo sabato pomeriggio. Nel palazzetto intanto si vince, si perde. Come fuori. Poi arriva una macchina sportivissima e teutonica, una cosa davvero fuori zona lì e penso subito “cazzo, il gran visir degli spaccia viene a vedere i suoi topi che ballano”, che il parco, m’ero dimenticato, è pure un supermercato stupefacente. Invece esce uno tutto sportivoelegante e col capello giusto e tira fuori un paio di scarpe bicolori e si cambia il mocassino e apre lo sportello e estrae una sacca da golf. Subito lo raggiunge un altro, ancora una berlina in sfoggio di tecnologia teutonica che brilla a quel sole che era il nostro sole fino a pochi secondi prima o ora per suggestione pare che su di lui brilli di più. Si cambiano e tutte le altre attenzioni della stradina si piantano sul bicolore di quelle scarpe e le mazze e la borsa con le rotelle. Si avviano verso il lembo del parco e a questo punto scendo anche io e scende il cane e lascio la macchina aperta e la musica che continua orfana d’attenzione e me lo immagino che molti avrebbero chiuso l’auto al posto mio premendo il telecomando e con le frecce che fanno l’occhiolino ma il mio camioncino non ha nemmeno la chiusura centralizzata e lascio perdere. Sul prato il comune, non ci posso credere, ci ha piazzato un campo da golf e altri ne arriveranno con le scarpe bicolori e si eserciteranno al tepore di quel sole. Ognuno adeguato all’altro in un equilibrio sospeso e surreale. Certo i pericoli ci sono. Pensa tu se uno spacciatore inguattato nei cespugli in fronte viene centrato alla tempia da una palla da golf. Rischia di restarci secco. Secco sotto questo sole che scalda la periferia mia che non è un luogo dello spirito ma piuttosto è lo spirito di tutti i luoghi. Buona fortuna a voi.




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