Allora, ti ricordi come funziona qui? Fai partire il pezzo e leggi.
Premessa. A Torino, negli ex mercati generali, ci hanno
ficcato una celebratissima iniziativa sull’arte contemporanea. A Torino ci sono
Artissima, Paratissima, Ganzissima e tutte ‘ste cose belle che contribuiscono a
costruire una robusta grammatica comune da spendere in coniugazioni d’azzardo
tra i tavolini della movida. Maledetto quello che ha deciso che un brulicare di
persone inerti bardate di bicchieroni di plastica caricati a ghiaccio e
qualcosa si dicono movida e fanno cultura metropolitana. Ieri era Paratissima
per me, che mi figuro sia una specie di festival dei calci di rigore a
giudicare dal nome. C’erano un mucchio di foto appese. L’ho già raccontato
altre volte che nel mio mestiere ci passa parecchio la fotografia e almeno una
volta al mese da vent’anni a questa parte, arriva uno a farmi vedere le sue
foto scattate in India e ogni volta mi mostra le stesse foto di quegli altri
prima di lui, passate in bianco e nero con un clic su un programma di
fotoritocco, che tanto basta. C’è un bramino a bordo Gange che l’ho visto così
tante volte presentato come uno scatto eccezionale, al punto da percepirlo come
un lontano parente. La suggestione è che anche lui sappia di me, dall’altra
parte del mondo con una scrivania ingombrata di foto mie e di altri, che mi
ritrovo di nuovo la sua faccia davanti e mi pare ammicchi e mi chieda di tacere
e reggergli il gioco dell’unico. Sono rupie meritate le sue. Ieri a
Paratissima, sulle pareti di quei padiglioni, ho contato quattro bramini. Lì
dietro Paratissima c’è il villaggio olimpico, che sono case vuote e mai
utilizzate e costruite con il fiotto caldo dei finanziamenti per le olimpiadi
invernali, sempre siano lodate, che arrivarono sulla città, che quando arrivano
i finanziamenti si dice che sono per la città e c’è questa cosa strana che tutti
i cittadini che conosco io, bada che non sono pochi, non si sono visti offrire
nemmeno un caffè. L’unica memoria sociale di quella stagione finanziatissima
sono i piumoni sgualciti che i vecchi volontari ancora indossano d’inverno e
non per vezzo ma piuttosto per necessità, come l’eskimo di Guccini. Andiamo
avanti. Dicevo che ci sono tutte queste fabbriche e queste aree che ancora
puzzano di un maledetto lavoro sporco durato decenni e poi ristrutturazioni
fatte nel tempi di un singhiozzo e acqua che trafila dai soffitti e crepe che
si aprono sotto il sole ma c’era da spendere i benedetti finanziamenti. Insomma
enormi leviatani spiaggiati sull’arenile di questa città regalata al pulsare frenetico del lavoro culturale
declinato in mille forme. Alla salute di Bianciardi perché qui sputano sulle
tombe ma lo fanno con la grazia della mano davanti alla bocca. A Paratissima io
ci sono andato ieri sera perché c’era l’ennesima presentazione di “La faglia”
che è un romanzo ambientato in una periferia di fantasia torinese, e la storia
è interessante ma soprattutto Massimo Miro, l’autore, è un catalizzatore di
energie sparse e organizza ‘ste serate con gente che parla, che suona, che
legge, che filma e proietta. Ci sono anche io in questo Barnum narrativo e
faccio Sgummo, che sarebbe uno dei personaggi del romanzo. Si parla di
periferie e città industriale e passato presente e piuttosto mi pare di notare
un occhio antropologico e un’attenzione sociologica negli altri che mi lascia
ammirato. Non ce l’ho quell’attitudine lì. Sono qui perché la periferia per me
non è una categoria storiografica e neppure un luogo dello spirito ma piuttosto
il contenitore di una fetta consistente della mia vita. Una cosa mica da poco
che mi ha condizionato al punto da farmi essere sempre periferia di qualcosa.
Senza rimpianti e senza rancori, con l’idea che un posto vale l’altro ma poi
sempre in periferia rimanevo. Senza il culto del perdente, che si vince a
prescindere da dove giochi, senza l’assunzione di un merdosissimo paradigma
vittimario perché ognuno fa i conti con la sua pelle. Insomma prendo il
microfono e leggo ‘sta storia di Sgummo e io non leggo quasi mai in pubblico,
parlare certo che parlo spesso a titoli vari ma leggere… roba d’altri poi.
Gratis per giunta. Non ho vantaggi da questa cosa, che nemmeno ce ne andiamo a
cena a ridere insieme, per me è importante stare attorno a un tavolo e ridere
insieme, vado lì e faccio Sgummo e a stento ho consapevolezza di chi ci sia sul
palco con me. Ma va bene così, che di cose mie sparse ce ne sono milioni e
Massimo Miro e il suo libro sono una bella cosa. Sta di fatto che ogni volta
son lì seduto che mi guardo attorno e penso che sul tavolo ci sono sempre mille
proposte brillanti per il lavoro sulle periferie e nell’esperienza mia tutto
quello che di brillante riguarda quella fetta estrema dei territori cittadini
finisce inevitabilmente sul bancone del “compro oro”. Bada che le periferie in
cui sono cresciuto io non sono torinesi ma dammi palazzi e puzza di miscela grassa
nelle strade e facce che ti inchiodano alla tua maledizione di essere “fuori
zona” e saprò trovare segno identitario.
Per dire, sabato mio figlio giocava nella palestra di via
Panetti. Dai, sfrutta la bella potenza delle tecnologie recenti e vai a vedere
dove sta piazzata a Torino ‘sta strada. L’immagine di Google Maps ti farà
vedere una bella zona verde, parco Colonnetti si chiama, bordata dalla salda
nervatura di viali dritti dritti che sembra siano lì per portarti a fare una
bella scampagnata fuori città. Certo, stai guardando dall’alto, dal punto di
vista di dio, e ci sta che da quel punto di vista ti sfuggano certe attenzioni
minime, certe sfumature, pare sfuggano anche al dio medesimo, soprattutto
oggidì che le sfumature di grigio le vendono al supermercato e te le regalano
per insistere sul tuo immaginario erotico bollito e sterilizzato. Bene, devi
sapere che sei nel cuore di Mirafiori, mica cazzi, Mirafiori, proprio quella
che aveva dato il nome alla meravigliosa FIAT 131 Mirafiori. Per inciso se giri
lì attorno su Google Maps ci vedi casa mia e ci vedi i resti del mammut della
fabbrica delle fabbriche.
Quando sono arrivato a Torino, stiamo parlando
dell’anno con la cilindrata portata a duemila tondi tondi, per Natale con Ste
siamo andati davanti ai cancelli della fabbrica delle fabbriche, con il nome
scritto grosso e grigio contro il grigio
del cielo e della terra. Lì, nel parcheggio vuotato dalla domenica, ho fatto
una foto a Ste con Dani di pochi mesi in braccio e lei aveva un cappottino nero
e lui un cappellone di lana fatto dalla nonna e la foto era in bianco e nero e
l’abbiamo stampata e mandata a tutti con gli auguri nostri dalla città della
fabbrica delle fabbriche. Da guardarsi ascoltando Vincenzina e la fabbrica
appunto. Non è un caso che dieci anni dopo ho scritto un libro, Cantastoria si
intitola se volete versare un contributo fattivo alla mia causa domestica, e
Vincenzina era il mio Virgilio che mi conduceva per cinquant’anni di storia
nostra, di imbarazzo nostro mnemonico, attraverso le canzoni. Tutto era partito
da quella fotografia. Fatta proprio dietro casa nostra, che ve lo dicevo che la
periferia per quelli come noi non è una possibilità o una maledizione, è e
basta. Insomma l’hai trovata via Panetti. Un capillare dell’arteria di via
Artom, una lingua d’asfalto che si infila nella topa verde di parco Colonnetti
e che dura qualche decine di metri, Uno pseudopodo urbanistico che muore nel
nulla di uno spiazzo di fango o di polvere, a seconda delle stagioni. Unica
meta plausibile un impianto sportivo che sta ormeggiato a bordo parco e che
comprende anche un palazzetto dove gioca mio figlio a basket. Il sabato lo
accompagno alla partita e Ste entra con lui e gli altri genitori mentre io
scelgo di andarmene in giro lì attorno e non devo dare spiegazioni perché nella
mia tribù lo sanno benissimo che ho questa maledizione che devo andare e
guardare e ascoltare e qualche volta raccontare a mia volta. Il cane è parte
integrante di questo passo. Stavolta però resto in macchina, nel mio vecchissimo
e indistruttibile pick up che è una seconda casa. In questo caso è un punto di
vista privilegiato. Mi sono parcheggiato di fianco al campo da bocce perché mi
piace sentire i discorsi dei pensionati, quasi tutti hanno versato il loro
tributo alla santa fabbrica delle fabbriche. C’è il sole, ho un paio di Zagor,
ho sempre qualche vecchio numero di Zagor sparso tra il bagno e il sedile
dell’auto, Tom Waits che fa piovere cani dallo stereo che mi sono montato da
solo sul magico pick up. Il cane acciambellato accanto. Se il cane sonnecchia
tutto filerà liscio. All’inizio di via Panetti ci sono quattro camper, un campo
nomadi improvvisato sulla strada con i panni stesi sulle recinzioni del parco,
ad asciugarsi a quello stesso sole che ci stiamo godendo io e il cane. Ho
vissuto quattro anni sul lembo di un enorme campo nomadi in un'altra città e
quella casa costava pochissimo perché nessuno ci voleva vivere e ancora me le
ricordo le grigliate e la musica e le retate. Bambini, un mucchio pazzesco di
bambini. Passano davanti al bocciodromo, due soprattutto, con le loro bici,
trionfo della cannibalizzazione. Uno più grosso, a occhio dodici anni come il
mio, va a prendere l’acqua con una tanica. A piedi nudi, sbilanciato dal peso
maledetto dell’acqua, nella mano sinistra stringe un telefonino di quelli che
quando li lanciano sul mercato la gente fa la fila per farsi colpire in fronte.
Mi fa ricordare una bellissima foto di Enzo Sellerio, scattata alla fine degli
anni Cinquanta circa in Sicilia e didascalizzata “baracca senza acqua ma con la
televisione” in cui si vede una ragazzina che esce con un secchio da una casa
sfondata e sbilenca sul cui tetto campeggia un’antenna televisiva. I ragazzini
che arrivano per giocare a basket scendono da macchine che sono già segnale di
famiglia e ordine, che poi vai a sapere come stanno le cose mi sussurra
l’esperienza di uomo che guarda. Incrociano i loro sguardi con quelli di quegli
altri stracciati con le bici e i panni stesi sul bordo del parco. Mi viene in
mente la sequenza di ladri di biciclette in cui il ragazzino protagonista con
la sua mozzarella in carrozza a filargli la tela della felicità a fior di
labbra, incrocia lo sguardo con l’altro, il bambino ricco, che conta il senso
della sua vita sull’avvicendarsi delle portate. Maledizione di tutta ‘sta
memoria di pagine e film e foto che mi porto ficcata in gola e che confondo in
questo mio scrutare. Insomma sto lì in bilico e per questa volta non sarò
agente di storia, di questa storiella mia a più voci, e resterò a fare quello col
finestrino sul cortile: Però, permettetemi, a ben vedere uno come me ficcato
dentro un vecchio pick up, con uno Zagor stretto tra le dita, una canzone rauca
che esce dagli sportelli e un cane che dorme tenendo l’occhio azzurro chiuso
visto dall’alto del vostro Google Maps fa già parte della giostra che cerco di
descrivere con distanza ma è questa mia attitudine ad essere storia e film e
foto e fumetto e uomo a mia volta. Con il sogno torbido e segreto di essere lo
Zagor delle mie periferie per giunta. Ormai lì in via Panetti, abbiamo
tracciato i confini di pertinenza, se non lo sapete facciamo così sempre nelle
periferie. Se metto la macchina qui dieci volte questo è il posto mio, se porto
il cane alle cinque al parco e sto in quel pezzo di prato non venirci col tuo
che si sbranano e questo è il posto mio, lo sanno tutti che è il posto mio. Un
fotografo un giorno s’è dedicato a raccontare le favelas attraverso i segni di
delimitazione degli spazi di pertinenza tra una baracca e l’altra. Ottima idea
ma non mi ricordo il nome del fotografo anche se l’ho conosciuto personalmente.
Stiamo lì e ognuno attiva l’attenzione degli altri ma la regola è non far
vedere che sei curioso e fare il vago. Tutti abili nell’esercizio d’estimo che
ci ha fatto intuire che non c’è preda tra noi che non si piscia dove si mangia,
ci godiamo il sole e il respiro di questo sabato pomeriggio. Nel palazzetto intanto
si vince, si perde. Come fuori. Poi arriva una macchina sportivissima e
teutonica, una cosa davvero fuori zona lì e penso subito “cazzo, il gran visir
degli spaccia viene a vedere i suoi topi che ballano”, che il parco, m’ero
dimenticato, è pure un supermercato stupefacente. Invece esce uno tutto
sportivoelegante e col capello giusto e tira fuori un paio di scarpe bicolori e
si cambia il mocassino e apre lo sportello e estrae una sacca da golf. Subito lo
raggiunge un altro, ancora una berlina in sfoggio di tecnologia teutonica che
brilla a quel sole che era il nostro sole fino a pochi secondi prima o ora per
suggestione pare che su di lui brilli di più. Si cambiano e tutte le altre
attenzioni della stradina si piantano sul bicolore di quelle scarpe e le mazze
e la borsa con le rotelle. Si avviano verso il lembo del parco e a questo punto
scendo anche io e scende il cane e lascio la macchina aperta e la musica che
continua orfana d’attenzione e me lo immagino che molti avrebbero chiuso l’auto
al posto mio premendo il telecomando e con le frecce che fanno l’occhiolino ma
il mio camioncino non ha nemmeno la chiusura centralizzata e lascio perdere.
Sul prato il comune, non ci posso credere, ci ha piazzato un campo da golf e
altri ne arriveranno con le scarpe bicolori e si eserciteranno al tepore di
quel sole. Ognuno adeguato all’altro in un equilibrio sospeso e surreale. Certo
i pericoli ci sono. Pensa tu se uno spacciatore inguattato nei cespugli in
fronte viene centrato alla tempia da una palla da golf. Rischia di restarci secco.
Secco sotto questo sole che scalda la periferia mia che non è un luogo dello
spirito ma piuttosto è lo spirito di tutti i luoghi. Buona fortuna a voi.
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