E mi squilla il telefono e lo sanno tutti che io non
rispondo quasi mai, lo sanno
almeno quei tutti che provano a chiamarmi. Tranne rare eccezioni che conto
sulle dita di una mano, io, se mi chiami al cellulare non ti rispondo e quasi
mai ti richiamo. Non c’è un motivo, non c’è avversione, i più intimi sanno un
trucco per trovarmi lo stesso e mi parlano di sponda col rischio che io prenda
accordi e fissi orari senza sapere di averlo fatto. Ma questa è un’altra
storia. Il cellulare non lo odio affatto, ha uno schermo con dei bei colori e
mi piace quando si accende la notte mentre guido. Il cellulare lo dimentico per
giorni in giro, non l’ho mai perso o forse l’ho perso e ancora non me ne sono
accorto. Poi certe mattine parte la caccia al cellulare, che è inutile farlo
squillare che tanto sono sei giorni che sta da qualche parte buttato e avrà
smesso di respirare il litio delle batterie. Il cellulare che uso nella vita è
anche quello che uso per lavorare. Pazienza. Ci vuole pazienza. Di solito quando non lo trovo per dei
giorni sta sotto il sedile della macchina o in garage, tra i pezzi smontati di
qualche moto che un giorno rimonterò tutta e sarà uno spettacolo.
Poi capita che un giorno mi squilla il telefono. Un numero
sconosciuto, che nel mio codice etico da utente di telefonia mobile è la
tipologia assolutamente rifiutata. Numero privato, numero non in memoria… non
ce n’è, non ci sperare, dovessi mai premere il tasto della cornetta verde poi
la gola non riuscirebbe ad articolare il “pronto” che ti aspetteresti. Lascia
perdere. Invece una domenica mattina, fascia oraria tabù di suo, squilla il
cellulare e la sera prima chissà come ho perso la bassa tecnologia delle
comunicazioni che posso permettermi tra le lenzuola e quel cazzo di maledetto
trillo mi si pianta tra i ventricoli e gli altri icoli rischiando di uccidermi.
Scommettici che la mia suoneria è il vecchio squillo vintage dei telefoni di
una volta perché sono un uomo in bianco e nero e sogno di averci un cellulare a
gettoni. Squilla e io non ci vedo, ho perso la sensibilità dei polpastrelli,
sospetto l’amputazione notturna degli arti inferiori, mi chiedo perché mai la sera
prima mi sono mangiato uno sformato di topo vivo. Squilla e quell’altra accanto
scuote le chiappe e non per voluttà, per enfatizzare piuttosto lo stato tensivo
generato da quel suono lancinante che investe anche lei e che mi chiede con un
ringhio basso di placare. Squilla coi cani che escono da sotto l letto e mi
guardano con l’aria di dire “ma ti sembra l’ora”. Sapessi almeno chi è che
chiama ma non ci vedo, l’ho già detto, e rispondo sicuro di non sentirci neppure,
giusto per fermare la tortura di quel drin drin vibrato.
“Giorgio?”
Voce femminile dall’altra parte, sospesa nell’incertezza.
Conosce il mio nome. Qualcuno ha fatto il mio nome. Un infame di certo.
“Arughhh az”
Più o meno rispondo.
“Giorgio Olmoti?”
Armageddon, conosce tutto di me. I servizi segreti.
“Chi sei?”
Mi dice un nome e ride.
Resto lì, sdraiato nel letto con gli occhi di colpo sbarrati
e piantati nel soffitto dipinto con due mani di buio, che le tapparelle fanno
il loro sporco lavoro irreprensibilmente.
Già, la voce sua. Avrei dovuto riconoscerla. Così mi dico e
non parlo. E parla lei e ride che una amica comune chissà come, una che ora
vive dove vivo io e che non vedo mai, l’ha incontrata e le ha dato il mio
numero.
L’ultima volta che ci siamo sentiti sarà stato di certo da
un telefono a gettoni, che io il telefono a casa non lo avevo e ti chiamavo
dalla cabina del policlinico.
Nell’era di facebook e di internet e anche in grazia di
questo mio incessante vagare, ho ritrovato amici e compagni di scuola con cui
ho condiviso caffè leggendo a volte nel profondo dei nostri occhi che se non ci
eravamo più parlati per tutti questi anni forse un motivo c’era e quindi si parlava
di quegli altri di cui non si sapeva più nulla che è un bell’esercizio della
comunicazione a grado zero. Ma qui non c’è da parlare di scuola, di amici
comuni, di passi condivisi, che piuttosto ci siamo trovati di sguincio senza
cercarci e spaventati ogni volta. Nascosti senza che io avessi nulla da
nascondere. Avevo il mio motorino razza Ciao e ne ho ancora uno uguale, per
lealtà. E me lo sono chiesto dov’eri.
Mi chiedi se ho la moto, eccerto, se ho un cane, eccerto, se
ascolto ancora un mucchio di musica, eccerto, se ho figli, eccerto, se faccio
le fotografie, eccerto. Rispondo giusto a tutte le domande. Sono preparatissimo
su di me. Ma sei ancora completamente pazzo, ma canti per strada e ti vesti con
quella roba vecchia assurda. Quale roba assurda chiedo io. Ridiamo.
Toccherebbe a me fare le domande e dovrei chiederle se ha
trovato uno veramente ricco come sognava, se è ancora bella come me la ricordo,
se si ricorda come si disegna un tristallegro. Le mie domande fanno schifo e
salto il turno e apro la busta dei ricordi spiccioli. Perdendo a poco a poco
parole e confidenza. E restiamo così allora, ora ho il tuo numero e guarda che
ti cerco e ci dobbiamo troppo vedere.
La mattina davanti alla stazione ci arrivo col passo del
sorriso, che è un passo che m’è consueto e non pensare sia facile che il prezzo
della felicità è alto e paghi ogni giorno e lotti senza mai smettere. Sono
passati dei mesi da quella telefonata domenicale e siamo lì, in mezzo alle voci
e alla fretta, a un passo da quel posto dove trovammo un portafoglio che ci
regalò due giorni indimenticabili e sono passati trent’anni e lo dico senza il
conforto della prescrizione ma con la nostalgia del rischio. Del resto ci stavi
con me perché ero quello scasso della strada con gli anfibi e i pantaloni a
quadretti e il cappello dell’esercito confederato. Andiamo al bar e gli altri
ci lasciano da soli, perchè io sto con una donna meravigliosa che non ha mai
smesso di rispettare questa mia tensione verso le cose che accadono. Prendiamo
qualcosa che non ricordo e che non è nemmeno appiglio al passato, che allora
non ce l’avevo la fissa del chinotto per esempio. Non abbiamo nulla da dirci e
da condividere. Ha realizzato il suo sogno e non sogna più. Penserà lo stesso
di me. Probabile.
“S’è fatto tardi, ma ora ho il tuo numero e non mi scappi
più. Organizziamo una cena una di queste sere”
“Contaci”
Già... contarci... come fossero le pecore per un sonno che non sai
afferrare.
Buona notte.
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