martedì 27 novembre 2012

la ballata del perdere e trovare






E mi squilla il telefono e lo sanno tutti che io non rispondo quasi  mai, lo sanno almeno quei tutti che provano a chiamarmi. Tranne rare eccezioni che conto sulle dita di una mano, io, se mi chiami al cellulare non ti rispondo e quasi mai ti richiamo. Non c’è un motivo, non c’è avversione, i più intimi sanno un trucco per trovarmi lo stesso e mi parlano di sponda col rischio che io prenda accordi e fissi orari senza sapere di averlo fatto. Ma questa è un’altra storia. Il cellulare non lo odio affatto, ha uno schermo con dei bei colori e mi piace quando si accende la notte mentre guido. Il cellulare lo dimentico per giorni in giro, non l’ho mai perso o forse l’ho perso e ancora non me ne sono accorto. Poi certe mattine parte la caccia al cellulare, che è inutile farlo squillare che tanto sono sei giorni che sta da qualche parte buttato e avrà smesso di respirare il litio delle batterie. Il cellulare che uso nella vita è anche quello che uso per lavorare. Pazienza.  Ci vuole pazienza. Di solito quando non lo trovo per dei giorni sta sotto il sedile della macchina o in garage, tra i pezzi smontati di qualche moto che un giorno rimonterò tutta e sarà uno spettacolo.
Poi capita che un giorno mi squilla il telefono. Un numero sconosciuto, che nel mio codice etico da utente di telefonia mobile è la tipologia assolutamente rifiutata. Numero privato, numero non in memoria… non ce n’è, non ci sperare, dovessi mai premere il tasto della cornetta verde poi la gola non riuscirebbe ad articolare il “pronto” che ti aspetteresti. Lascia perdere. Invece una domenica mattina, fascia oraria tabù di suo, squilla il cellulare e la sera prima chissà come ho perso la bassa tecnologia delle comunicazioni che posso permettermi tra le lenzuola e quel cazzo di maledetto trillo mi si pianta tra i ventricoli e gli altri icoli rischiando di uccidermi. Scommettici che la mia suoneria è il vecchio squillo vintage dei telefoni di una volta perché sono un uomo in bianco e nero e sogno di averci un cellulare a gettoni. Squilla e io non ci vedo, ho perso la sensibilità dei polpastrelli, sospetto l’amputazione notturna degli arti inferiori, mi chiedo perché mai la sera prima mi sono mangiato uno sformato di topo vivo. Squilla e quell’altra accanto scuote le chiappe e non per voluttà, per enfatizzare piuttosto lo stato tensivo generato da quel suono lancinante che investe anche lei e che mi chiede con un ringhio basso di placare. Squilla coi cani che escono da sotto l letto e mi guardano con l’aria di dire “ma ti sembra l’ora”. Sapessi almeno chi è che chiama ma non ci vedo, l’ho già detto, e rispondo sicuro di non sentirci neppure, giusto per fermare la tortura di quel drin drin vibrato.
“Giorgio?”
Voce femminile dall’altra parte, sospesa nell’incertezza. Conosce il mio nome. Qualcuno ha fatto il mio nome. Un infame di certo.
“Arughhh az”
Più o meno rispondo.
“Giorgio Olmoti?”
Armageddon, conosce tutto di me. I servizi segreti.
“Chi sei?”
Mi dice un nome e ride.
Resto lì, sdraiato nel letto con gli occhi di colpo sbarrati e piantati nel soffitto dipinto con due mani di buio, che le tapparelle fanno il loro sporco lavoro irreprensibilmente.
Già, la voce sua. Avrei dovuto riconoscerla. Così mi dico e non parlo. E parla lei e ride che una amica comune chissà come, una che ora vive dove vivo io e che non vedo mai, l’ha incontrata e le ha dato il mio numero.
L’ultima volta che ci siamo sentiti sarà stato di certo da un telefono a gettoni, che io il telefono a casa non lo avevo e ti chiamavo dalla cabina del policlinico.
Nell’era di facebook e di internet e anche in grazia di questo mio incessante vagare, ho ritrovato amici e compagni di scuola con cui ho condiviso caffè leggendo a volte nel profondo dei nostri occhi che se non ci eravamo più parlati per tutti questi anni forse un motivo c’era e quindi si parlava di quegli altri di cui non si sapeva più nulla che è un bell’esercizio della comunicazione a grado zero. Ma qui non c’è da parlare di scuola, di amici comuni, di passi condivisi, che piuttosto ci siamo trovati di sguincio senza cercarci e spaventati ogni volta. Nascosti senza che io avessi nulla da nascondere. Avevo il mio motorino razza Ciao e ne ho ancora uno uguale, per lealtà. E me lo sono chiesto dov’eri.
Mi chiedi se ho la moto, eccerto, se ho un cane, eccerto, se ascolto ancora un mucchio di musica, eccerto, se ho figli, eccerto, se faccio le fotografie, eccerto. Rispondo giusto a tutte le domande. Sono preparatissimo su di me. Ma sei ancora completamente pazzo, ma canti per strada e ti vesti con quella roba vecchia assurda. Quale roba assurda chiedo io. Ridiamo.
Toccherebbe a me fare le domande e dovrei chiederle se ha trovato uno veramente ricco come sognava, se è ancora bella come me la ricordo, se si ricorda come si disegna un tristallegro. Le mie domande fanno schifo e salto il turno e apro la busta dei ricordi spiccioli. Perdendo a poco a poco parole e confidenza. E restiamo così allora, ora ho il tuo numero e guarda che ti cerco e ci dobbiamo troppo vedere.
La mattina davanti alla stazione ci arrivo col passo del sorriso, che è un passo che m’è consueto e non pensare sia facile che il prezzo della felicità è alto e paghi ogni giorno e lotti senza mai smettere. Sono passati dei mesi da quella telefonata domenicale e siamo lì, in mezzo alle voci e alla fretta, a un passo da quel posto dove trovammo un portafoglio che ci regalò due giorni indimenticabili e sono passati trent’anni e lo dico senza il conforto della prescrizione ma con la nostalgia del rischio. Del resto ci stavi con me perché ero quello scasso della strada con gli anfibi e i pantaloni a quadretti e il cappello dell’esercito confederato. Andiamo al bar e gli altri ci lasciano da soli, perchè io sto con una donna meravigliosa che non ha mai smesso di rispettare questa mia tensione verso le cose che accadono. Prendiamo qualcosa che non ricordo e che non è nemmeno appiglio al passato, che allora non ce l’avevo la fissa del chinotto per esempio. Non abbiamo nulla da dirci e da condividere. Ha realizzato il suo sogno e non sogna più. Penserà lo stesso di me. Probabile.
“S’è fatto tardi, ma ora ho il tuo numero e non mi scappi più. Organizziamo una cena una di queste sere”
“Contaci”
Già... contarci... come fossero le pecore per un sonno che non sai afferrare.
Buona notte.

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