lunedì 29 agosto 2011

terramossa

"terramossa" diventa un racconto di piazza.
sabato 3 settembre ore 21 in corte morpurgo a udine giorgio olmoti e loris vescovo, che solo per sentire le canzoni di loris la serata vale la pena d'essere affrontata, in bilico tra storia immagini e narrazione.


Terramossa


Quella sera lì avevo dieci anni ma mi scappava di farne undici alla fine del mese. Quella sera lì alla tele davano la seconda parte di uno sceneggiato in due puntate intitolato “Le dodici sedie” e anni dopo imparerò pure che era roba pescata nel paniere della letteratura russa. Quella sera volevo sapere come andava a finire la ricerca di queste dodici seggiole rivoluzionarie. Quella sera ero arrivato a casa da poco. Proprio la prima volta che facevo tardi fuori, guarda certe volte, perché ero andato alla festa dei ragazzi al Bearzi, l’oratorio dei salesiani. Ben lontano da via Codroipo dove abitavo. A festa finita avevamo aspettato la mamma di un mio compagno di classe con la macchina e io ero stato scaricato davanti al mio portone giusto una mezz’ora prima di quello che accadde quella sera lì. Per tutto il pomeriggio ci avevano impegnato in giochi e gimcane e ancora mi ricordo la mela nel catino che la dovevi prendere con la bocca e le mani te le legavano dietro la schiena. A mezzo tra disneyland e “fuga di mezzanotte”. A casa mia aria di chiesa se ne respirava minima e quel loro divertirsi rinforzava la distanza che solo io percepivo. L’entusiasmo di certi animatori non m’aveva contagiato ma facevo la faccia di quello che s’era spassato, che altrimenti mi dicevano che ero uno che non partecipava. Quella sera lì avrei partecipato eccome ma ancora non lo immaginavo. Quella sera lì la bocca mi sapeva di uovo fritto e pane della Supercoop, comprato da mia madre che era inizio mese e solo dal venti in poi gli approvvigionamenti erano affidati a me. Arrivavo alla cassa e recitavo a fine conto il “paga la mamma” di rito. E quelli segnavano sul quaderno con incolonnate tutte le mamme impegnate a fine mese in faccende più importanti della spesa. Quella sera lì mio padre stava nudo sul lettone a leggere qualche suo strano libro di matematica o forse era la stagione di Voltaire o forse erano i giorni di Marquez o ancora Borges. Lui leggeva sempre e aveva i periodi come certi pittori, poi gli passava e cambiava argomento. Fumava e leggeva e soffriva il caldo. Quella sera lì c’era una temperatura che non era normale. Nella stanzetta della televisione c’ero io e mio fratello Andrea, anni quattro, ognuno padrone di una poltrona. Di solito ci toccava il divanetto con le doghe fatte col legno delle cassette di arance, che appena ti muovevi gemeva come la zattera del Medusa. Mia madre era in bagno, lei dice che era in vasca e ora se mio fratello e mio padre leggono gli viene da ridere. Quella sera lì erano appena passati i titoli di testa e un’altra testa, una capoccia micidiale d’ariete, pareva essersi piantata di colpo sulle colonne del nostro condominio. Uno scrollone al palazzo. Forse l’edificio stesso che prendeva vita. Mia madre gridò “il terremoto”. Questo è il terremoto pensai, cercando di classificarlo nella casella delle nuove esperienze. Suonarono alla porta. Erano i vicini, gente anziana simpatica, lui era un veterinario in pensione. Spaventati. Mia madre era andata ad aprire coprendosi alla meglio. Attraversai il lungo corridoio e li raggiunsi. In tempo per il ballo di quella sera lì. Si spensero tutte le luci e pareva che attorno si stessero tirando centinaia di piatti e bicchieri, rumore prevalente di cocci, almeno mi pareva, e buio e polvere a inchiodarti il respiro. Non finiva mai. Mio padre era corso da Andrea e gridava “state sotto l’architrave” e in elementi architettonici non ero ferratissimo e se mi avesse detto “addossatevi al peristilio” o “raggiungete i matronei” era uguale. Mia madre m’afferrò al buio, che le madri ti beccano sempre, e mi strinse forte. Passò una manciata infinita di secondi, mica una roba rapida. La scossa cessò e mio padre ci raggiunse all’ingresso. Chiese se c’eravamo messi sotto l’architrave come aveva detto lui. Io e Andrea eravamo ancora troppo piccoli per potergli dire vaffanculo tu e ‘sto cazzo di architrave che diccelo prima cos’è. Se ne rese però conto da solo di non averci adeguatamente preparato, perché da allora facemmo le prove anticatastrofe di tutti i tipi e a Eraclea l’estate facevamo le esercitazioni in pineta in caso di uragano, lo giuro, e ci legavamo ai pini marittimi. Mio padre è pazzo sul serio e nemmeno noi altri siamo tanto in bolla. Però è una follia domestica che non fa danno all’esterno. E fuori, all’esterno appunto, quella sera lì toccava proprio andarci, che l’ultimo a poterci cadere sulla testa, alla faccia di tutti i villaggi gallici dei fumetti, era il cielo. Raggiungemmo una panchina al centro di Piazzale Osoppo, a uno sputo dal portone nostro ma già con lo spazio attorno a garantirci dall’eventuale rovina di tutto l’edificato lì attorno. C’era la birreria Moretti che faceva certe pizze che erano un insulto all’idea prima che mi portavo dentro dal sud di quella pietanza. Però la birreria mi piaceva perché aveva il portico e d’inverno, la sera, senza una lira che fosse una, ce ne stavamo io, mio padre e mio fratello a giocare a calcio col pacchetto vuoto delle Emmesse dure. E pure con certi barattoli acciaccati alla bisogna. I portici della pizzeria erano anche le mie colonne d’Ercole, che arrivavo in punta e poi c’era da attraversare sulla curva che porta in viale Volontari, che sarebbero della libertà ma si taglia corto che quella parola non smette di gettare inquietudine. In pizzo a quella curva le macchine arrivavano col rombo e la tracotanza di quegli anni lì, col progresso che spingeva sull’acceleratore e per i pedoni non c’era pietà. Almeno adesso non è più questione di progresso che avanza ma piuttosto di controllo demografico e a fare la cernita sono rimasti il cancro e gli attraversamenti nel traffico e dice che di fame non si può morire e io glielo ripeto sempre a certi barboni d’inverno che si coprono di giornali e s’impegnano a incasinare il senso ultimo di questi nostri tempi. A cancellarci le certezze calde calde della televisione. Insomma quella sera lì erano le dieci e qualcosa e la mia famiglia se ne stava stranita con le altre, tutti avanzi di quel miracolo economico che avremmo voluto gustarci meglio ma che in quelle zone era solo arrivato per odori e fumi densi d’altre regioni, d’altri settentrioni. E i friulani, razza tenace davvero, s’erano dannati a partire ancora e quelli rimasti ora guardavano con apprensione le case, i condomini, il palazzone sopra il cinema Capitol con la galleria e le vetrine dei mobili di case che non avrò mai, il giornalaio con quel libro, “Le meraviglie della natura” che invece conservo ancora e che mi sono comprato coi risparmi di mille lire al mese per cinque mesi e parlo di una signora cifra per i tempi. Nella galleria c’era pure il bar, a oggi ancora esiste a differenza del cinema ingoiato dalle multisale e dall’affittafilm ventiquattro su ventiquattr’ore. In codesto bar ci andavo rarissime volte e si faceva cena con il toast e un bicchiere di menta con acqua naturale. Sul flipper c’era scritto “il gioco è severamente vietato ai minori” e nessuno sapeva spiegarmi perché e ora che son fatto uomo di lettere e ho rintracciato nelle carte d’archivio l’aspro dibattito parlamentare a cavallo tra Cinquanta e Sessanta per contrastare i juke box e i flipper, sovvertitori dell’italica gioventù sempre più attratta da quelli che il reazionario di turno, roba che con quattro partigiani e un sorriso alla willys carica di militi americani c’eravamo illusi di spazzar via, indicava come “calzoni d’oltreoceano”.
Quella sera lì di andare al bar non ne avevo voglia. Non ci pensavo proprio. Tutta la gente era pazzamente euforica, si giocava a scampata morte con gli uomini che facevano ironia a voce grossa da un capannello all’altro, da una panchina all’altra. E ancora non sapevamo che sarebbe bastato infilarsi in macchina e prendere viale Tricesimo e poi la Pontebbana per avere immediata certezza della tragedia. A qualche chilometro e passa da noi qualcuno masticava polvere e lacrime sotto le macerie e a qualcun altro già da masticare non gli restava nemmeno un’ultima bestemmia. Quella sera lì non me l’avevano ancora raccontato come si dice la morte a un bambino di dieci anni ma a tiro di qualche giorno mi sarebbe bastato sfogliare un giornale lasciato chissà come e chissà dove per vedere la foto di un amico mio di frequentazioni domenicali, che sporgeva dal calcinaccio col braccio dimenticato chissà come e chissà dove e il bianco dell’osso che s’era fatto bello del flash del reporter e riluceva oltre ogni ragionevole possibilità.
Quella sera lì se si rideva era roba d’isteria e il veterinario anziano che ho già raccontato che era il nostro vicino, fu preso da un guizzo a vedere mia madre che era scappata vestita di poco e si mise a gridare “anche col terremoto lei è sempre bellissima” e noi si temeva che all’anziano gli venisse un botto. Al veterinario gli volevo bene perché da grande mi sarebbe piaciuto fare lo stesso suo mestiere e lui mi raccontava del suo tentativo di introduzione in Carnia della pecora razza “gentile di Puglia” e conservo ancora la pubblicazione relativa. Quella sera lì a un certo punto salimmo sulle scale fino al nostro appartamento che era al primo piano. La luce era tornata e si voleva capire. Il corridoio era attraversato per lungo da una crepa che ci rendeva più confidenziale la coabitazione con i vicini che ora potevamo vedere dalle ferite del muro. Calcinacci dappertutto ma ricordo che dei piatti rotti non c’era traccia. Eppure ci avrei giurato al buio, durante i secondi infiniti della scossa, che tutto il nostro stovigliame stava finendo in terra. Invece era proprio il rumore del terremoto e dei mattoni che stridono uno sull’altro. Corsi in camera mia e nella veranda, che era lo spazio che mi si concedeva al gioco, constatai che danni ai soldatini e al pallone e al tirassegno colle freccette non ce n’erano. Tirai un respiro di sollievo vero. Tutto è relativo e a timbrare dieci anni quasi undici quella sera lì non significava prendere coscienza tutto insieme del senso della vita. Per fortuna. In quegli stessi secondi qualcuno aveva preso il crocefisso dall’altare della chiesa di un paese ormai cancellato e ringhiando bestemmie aveva trascinato il cristo a vedere quella rovina, che a tutto c’è un limite. E allora vorrei davvero spiegarlo il senso intimo della bestemmia friulana che se fossi dio la chiamata d’insulto di quella razza lì la sentirei un onore. Ma non voglio insegnare il mestiere a nessuno. Quella sera lì però me lo immagino che ai porci e ai cani e alle troie ma anche con maggiore fantasia al latte, al cantante e alla generica bestia gli fischiassero le orecchie dal tanto essere pensati e invocati.
Quella sera lì mio padre scese in garage, che si trovava sotto il condominio e solo a pensarlo che s’avventurava là, vicino al nucleo terrestre generatore del disastro sismico, mi si fermava il cuore. Invece riemersero sia lui che la 124 bianca, perfetta succursale mobile della nostra domesticità, adibita a tutte le funzioni del vivere nel corso di interminabili viaggi in cui io e mio fratello si dormiva a castello uno sul sedile e l’altro nel lunotto. Se ora vedessi mio figlio nello specchietto che mi sorride sdraiato nel lunotto mentre corro in autostrada mi verrebbe un colpo autentico. A quei tempi erano altri tempi e non c’erano caschi e non c’erano cinture e non c’erano le frecce d’emergenza e non c’era il catalizzatore e noi che non avevamo nemmeno l’autoradio si cantava a strappagola tutto il viaggio. A me m’è rimasto il vizio e devo alle nostre lunghe trasferte tutto un repertorio che va da “A sud di Quaccuavello” a “Borgo antico”. Nello specifico “A sud di Quaccuavello” è una delle innumerevoli canzoni da auto inventate da mio padre e dice circa “a sud di Quacuavello ruà de spagn farà la fest, a compr le sciolin, montar e seppellì” a ritmo di taranta indiavolata. Su “Borgo antico” trovate notizie pure in “Ragazzi di vita” di Pasolini e quindi non m’allargo troppo. Con questo fatto delle canzoni da viaggio mio padre mise in musica dei classici della poesia e noi strillavamo un twist sbarazzino su questo Valentino vestito di nuovo che era nella necessità di acquistare un paio di scarpe nuove e faceva una cordata di investitori con tutto il pollaio per un paio di mocassini ultimo grido. Così ho svelato il segreto di tutte le poesie che conosco a memoria e che fanno la meraviglia della redazione umanistica della casa editrice in cui lavoro. Con lo stesso trucco il genitore provò a trasferirci i rudimenti del latino e “morettina con che cuore tu mi lasci” divenne “parva nigra quocum corde te me reliqui” e solo anni dopo, leggendo non so come certe pagine lise di Pitigrilli scoprii che quelle strofe mio padre le aveva rubate bellamente. Ma, su tutte, grande successo ottennero i versi dell’”Ifigonia in Culide”, intenso poema epicogoliardico, che pure il genitore seppe dispensarci vincendo le proteste di mia madre. Quando molti anni dopo il reoccio del karaoke si cimentò nel gorgheggio di una canzoncina sui versi della nebbia che, come tutti sanno, agli irti colli piovigginando sale, mi venne il sorriso di quello che l’aveva sempre saputo. Per inciso, se vi salta in mente di cantare un sonetto del Foscolo tipo “A Zacinto” o “In morte del fratello Giovanni” piazzatelo sulle note della “Canzone di Marinella” e scorrerà semplicemente perfetto. Miracolo metrico.
Quella sera lì ci ficcammo nella macchina e già si benediceva i soldi versati al colosso torinese dell’auto di quattro anni prima, che avevamo fatto i sacrifici delle rate mangiando polpette di pane e traccia di carne ma ora avevamo un tetto di lamiera sulla testa che già era un bel vantaggio rispetto alla scarsa affidabilità che ispiravano le murature. Quella sera lì. E mio padre prese quell’unica strada che sapeva come un cavallino storno, maledetta reminescenza poetica, e ci trovammo davanti al cancello della caserma in via Brigata Re. La beffa stava tutta già nel fatto che la caserma si chiamava Osoppo e quel paese stava facendo i conti colla maledizione. Ma noi ancora non lo sapevamo. Non sapevamo un cazzo di niente di quello che era successo e stava succedendo. Mia mamma aveva portato le coperte e qualche genere di conforto, che quella donna lì se gli dai una zolla di terra pure ti tira fuori una cosa che la mangi e ti sembra la più buona del mondo. Entrammo nel piazzale enorme della caserma, luogo d’abitudine che la domenica spesso, visto che proprio a mio padre gli scappava di stare lì sempre e se affrontava il mondo esterno era solo per perdersi tra boschi e sentieri, portava anche noi e nel parco c’è un albero che è stato piantato il giorno che è nato mio fratello.
Quella sera lì dormimmo nel piazzale della caserma, lo stesso che in certe notti di guerra fredda si colmava di gente in armi e mezzi cingolati che tenevano i motori in temperatura, pronti a reagire all’attacco imminente del pericolo rosso confinante. Mio padre disse che andava a vedere come stavano le cose lì attorno e lo rivedemmo quattro giorni dopo, coperto di polvere e meraviglia, che a volte l’orrore ce l’ha il vizio di stupire. Le macerie. I primi a gridare disperazione erano stati i radioamatori e i musi dei camion s’erano puntati verso quelle onde sonore disperate. A fatica s’erano fatti strada fino a Venzone, Gemona, Majano. Li avevano trovati ancora seduti sulle poltrone, attorno alla tavola, a letto a far l’amore, con il sussurro sospeso in un piccolo pettegolezzo di paese, con le labbra ancora bagnate dal vino della sera che stava solo cominciando. Tutti morti, che quando si crepa così non c’è tempo di darsi un contegno e il solaio ti precipita in testa mentre stai cagando e mentre stai traducendo poesie arabe d’amore. Per questo conviene sempre tradurre poesie mentre si caga. Hai visto mai.
In quei giorni lì tutti perdemmo l’orizzonte dei nostri pensieri immediati, non c’era più scuola, non c’era più fabbrica, non c’era più bar, non c’era più incrocio per inchiodare e urlarsi dal finestrino. Di mio scoprii il Mars. La mattina certi soldati stranieri che non capivo e che erano lì per aiutare, iniziavano la giornata allungandomi una barra di cioccolato e mou, sostanza della quale ignoro a tutt’oggi la composizione. Volutamente, che certe volte è meglio non sapere. Resta il fatto che ogni volta che la vita m’ha presentato il conto e mi sono trovato a certe secche esistenziali e a certi scogli della pratica del campare, mi sono sempre aggrappato con disperazione a una di quelle barrette. E per lo stesso motivo quando cerco gentilezza bevo il cordiale. Mi basta davvero poco.
Il ricordo più vivo di quei giorni è la promozione in prima media senza fare gli esami di quinta elementare. Una sorta di indulto didattico che non finiva di riempirci di felicità. Ci ritrovammo a scuola e tutti saltavamo e gridavamo, sventolando la nostra licenza elementare, conquistata senza colpo ferire.
A Udine per i mesi successivi pareva di vivere in uno sgangherato campeggio. C’erano roulotte e camper e tende dappertutto e se uno comprava una macchina nuova la comprava buona per dormirci dentro.
La casa in cui vivo adesso, persa nei boschi sopra Attimis, in quei giorni lì venne giù completamente. A volte, mentre m’addormento, guardo il soffitto e ci penso.

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