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Fabrizio De Andrè e qualcosa di personale
“Mille anni al mondo mille ancora
che bell’inganno sei anima mia
e che bello il tuo tempo
che bella compagnia”
Cominciare dalla
fine.
A Venezia faceva
freddo e non c’è meraviglia, che da quel mese lì abbiamo da aspettarci giusto
gelo frequente e rare preghiere. Di speciale quel gennaio aveva che era la
porta dell’ultima stanza. Ancora pochi passi lungo i corridoi di questa casa al
civico Novecento e poi via. Trasloco. Altro millennio, altra strada, altre
facce e tempo per riadeguarsi e sperare. E mai a sfiorarmi il dubbio che i
pochi sguardi concessi a noi, reduci d’un secolo che non è di moda e d’orgoglio
portarsi addosso, in quest’era nuova, con la cilindrata portata a Duemila per
darti accelerazione da strappare il cuore, li avremmo fatti senza certe parole
scritte taglienti e offerte a voce calda. In quell’undici gennaio Fabrizio De
Andrè è morto. L’avevo saputo già dal mattino. Rientrato coi cani da un lungo
giro in riva al Torre, allora vivevo nella campagna friulana, tentavo di dare
un senso a fogli e appunti e files che sarebbero diventati oggetti di
discussione nel mio pomeriggio veneziano e la notizia s’è piantata come un
cuneo nei miei affanni domestici. La radio, con un imbarazzo che mai avevo
saputo scoprirle in anni di convivenza, me l’ha confidato d’un soffio. Morto.
Sono rimasto lì, col gesto fermato a mezzo. Ho chiesto posto ai cani sul divano
e ho lasciato che le mie dita goffe finissero dove in qualche modo cominciava
una chitarra. Cullandomi su un arpeggio suo, un paio di accordi facili e
fragili. Da amico. E s’è fatta l’ora di partire e ho raccolto le mie cose e ho
lasciato che la moto mi portasse fino al treno.
La stazione di Venezia Santa Lucia se ne rimane proprio
sul bordo del canale e, appena fuori, sai da subito che sei in quella città lì
e in nessun’altra. La meraviglia, a distanza di anni, mi si rinnova tutte le
volte. Quel giorno non ricordo nemmeno d’esserci arrivato. So solo che decisi
di farmela al passo, e di piedi, uno davanti all’altro, c’era da metterne
parecchi fino alla meta. Una volta a destinazione avrei ostentato sicurezza e
disinvoltura, pregando in cuor mio che mi confermassero margini di
sopravvivenza con l’ennesimo contratto a tempo. Tempo rubato, tempo debito.
Pioveva. Indossavo scarpe che avevano la suola in cuoio, le uniche di questi
miei anni, regalo paterno recuperato in qualche svendita fuori tutto. Scarpe doverose nello sforzo di rendermi credibile in
quell’incontro dove mi giocavo la sopravvivenza con le solite tre carte sul
tavolo. E sperare che il trucco riuscisse ancora. La pioggia fredda s’era stesa
a velo insidioso sul lastricato veneziano e le suole lisce minavano pure la mia
sicurezza minima di riuscire a stare in piedi. Con la borsa, caricata a fogli,
che mordeva la mia spalla destra. Sempre nello stesso punto, che in quegli anni
precari mi si era scavato nella carne un solco ergonomico reggicinghia. Le
stimmate laiche di una generazione trentenne, obbligata a mostrarsi flessibile
nel lavoro e nello stomaco. Questi nostri sono gli anni del “boom ergonomico” e
ridisegniamo ogni giorno le nostre attitudini su quello che accettiamo di fare
perché è tutto quello che c’è. L’Italia dei Sessanta, industriosa e
industriale, culla dei cambiamenti e delle contraddizioni che proprio Fabrizio
aveva guardato senza stupore, sorridendo a volte amaro e lasciandosi scappare
qualche maledizione, ce la siamo persa e ora, orfani della campagna e negati
all’industria, nel nostro mondo prevalgono i servizi, che nella memoria di
scolaro bambino erano i cessi e forse ci sarà un motivo. E ancora mi ripetevo
ch’era morto, credendoci da subito, perché solo nei film ci si risveglia
chiedendo “dove sono” dopo una botta in testa.
Le scarpe, dicevamo.
Roba da poche lire e, a dichiarare il conio di quel tempo ancora spargo tracce
di memoria storica, che a partire dal 2001 il caffè si pagherà in euro e negli
occhi e nelle tasche degli italiani ci sarà da leggere smarrimento. E allora
vale la pena ricordare che a qualche mese di distanza dall’introduzione della
moneta unica qualche politico aveva rimproverato gli italiani perché
continuavano a pensare in lire spendendo in euro e di conseguenza i conti già
tentennanti si asciugavano(1). Popolo distrattone. Meno male che a redarguirlo
c’erano loro, la classe dirigente, gente abituata a parlare con la tovaglia sulle mani e le mani sui
coglioni. Fabrizio aveva nutrito certe sue invettive anche di questi
personaggi imbrattati di governo e non si sarebbe certo meravigliato quando i
dati sul potere d’acquisto della famiglia media italiana, giusto qualche mese
dopo, avrebbero dimostrato che a voler dare la colpa alla distrazione di chi
spendeva c’era da essere o fini umoristi o tragici incompetenti(2). Ma forse a
lui, a De Andrè, gli sarebbe interessata di più la frenesia dei falsari che
negli ultimi giorni della lira immisero sul mercato tutti i fondi di magazzino,
migliaia di banconote stampate con attenzione maniacale, certe più belle di
quelle vere(3).
Insomma procedevo per
le calli con queste scarpe mie di cuoio rosso macchiato pioggia e passando
l’ennesimo ponte sento sotto le piante del piede un’insistenza d’acqua che va
oltre quello che ero disposto a sopportare. Sollevo il piede, sbircio e scopro
che la suola di millantato cuoio doveva essere fatta in realtà con i cartoni
delle pizze per asporto. Con la pioggia la suola s’era sciolta. Camminavo col
calzino a contatto col selciato. E dovevo andare che mi aspettavano. E la testa
era ingombra di quell’unico fatto, di quella morte inattesa. Fabrizio. Avrei
voluto mi vedesse in quel momento, così degno della mia età e del mio tempo,
con i miei dischi, i miei libri e i miei film a corrermi dentro con le
piastrine e i globuli. Chissà come l’avrebbe raccontato Fabrizio uno come me
che si portava sulle spalle il suo mestiere per le calli veneziane, che l’odore
salso e l’antica memoria di potenza marinara facevano vicine ai suoi carrugi.
M’avrebbe cantato divertendosi mentre campavo credendo normale quella vita
incerta, piangevo un lutto immenso e le scarpe si scioglievano sotto la
pioggia. Sempre perché i politici tromboni, che accennavamo prima, s’erano
imperlati la fronte a gridare che era il tempo del lavoro flessibile. E lo
dicevano muovendo appena la benedetta tovaglia.
Acqua che non si aspetta, altro che benedetta.
Sono arrivato in
Campo qualcosa e m’attendevano. Salendo le scale il mio passo faceva uno
sciaguattio, che rimbombava in quell’edificio illustre precedendomi. Altro che
“archivi fotografici e didattica”, pareva andassi a dare dimostrazione di pratica
circense, trascinandomi dietro un’otaria pinnante per le scale. Mi accolse una
segretaria e le scrutai gli occhi per leggerle lo sgomento che ritengo
d’obbligo il giorno della morte di Fabrizio De Andrè. Non dovevano averla
ancora avvertita, a giudicare dall’efficienza fredda del suo ricevermi e io,
che non so trovar parole mai, lascio ad altri il compito. Il dubbio che la
cosa, il lutto intendo, la sollecasse poco non mi sfiorava. La seguii lungo il
corridoio e lasciai un’impronta umidiccia, che null’era se non il mio calzino
intriso d’acqua, che ora lascia giù anche venature blu. Entrai in una sala col
tavolone enorme e troppe ne ho viste in questi anni e non avrei avuto
soggezione alcuna se non fosse stato per questo mio avanzare incerto sui piedi
zuppi e nudi. Quando ci si fa parecchio male il cervello stacca la connessione,
dando agio al corpo di riprendersi senza restituirci memoria e misura del
dolore. Si sviene e si va in coma per difendersi. Credo di essermi ridotto in
quello stato deplorevole con l’intento inconscio d’avere altri pensieri a
colmare quell’insistenza di vuoto che mi stordiva. Per ubriacare il dolore. Per
non pensare Fabrizio morto. Poi si accese il proiettore alle mie spalle,
preparai i materiali nell’ordine in cui andavano esposti e guardai le facce,
tutte rivolte verso di me. Già, le facce, non m’ero nemmeno accorto ci fossero
e erano tanti. A me capita a volte di fare e dire cose mentre dentro c’è una
voce che mi sussurra “non avrai mica intenzione di farlo”. “Avete sentito che è
morto De Andrè”. Perplessità negli astanti. Alcuni accennarono a chiedere di
chi stessi parlando, perché tutti o quasi ce l’avevano in testa che c’era uno
che cantava da quarant’anni e si chiamava così ma io sono lì per parlare di
progetti didattici e siamo nell’era delle specializzazioni. Roba che per sua
natura nega l’emozione. Secondo quelli attorno al tavolo, questo dolore, in
quel momento, a me non competeva. Altro sarebbe stato se fosse morto il
proiettore. Allora sicuro m’avrebbero accordato le lacrime. Poi qualcuno disse
qualcosa sul fatto che lo ascoltavano da ragazzi e chissà ora e quanti anni
aveva ma si vede che non c’era gran coinvolgimento. Attaccai la parte mia e
tenni botta per un paio d’ore di show. Il piede, per tutto il tempo, non smise
mai di far correre lacrime, perfetta succursale del mio dolore.
A giornata finita, a
lavoro preso, in treno mi aggiustai il passo con un pezzo di plastica
trasparente ficcato nella scarpa. Nello scompartimento trovai una ragazza con
la faccia di una che condivideva certo mio smarrimento. Le due ore di viaggio
volarono.
Poi, a casa e tra gli
amici, ci siamo rincorsi col telefono e qualcuno è partito per Genova, qualcuno
s’è trovato a suonare e a bere. Qualcuno ha pianto. Io avevo i cani e una vigna
dietro casa. Tra le altre cose.
A De Andrè ci sono
arrivato per gradi. Piano e senza folgorazioni. Piuttosto sedotto da certo
frequentarsi che faceva quasi abitudine. Io ero quello nella stanzetta, lui
quello che raccontava dal registratore. A dire il vero l’apparecchio per musica
domestica lo chiamavamo “gelosino” anche se la marca non era quella. La Geloso
era stata un riferimento industriale significativo nel panorama nazionale,
contribuendo a dotare le case degli italiani di radio e televisori. Al punto che
nel nostro lessico familiare qualsiasi registratore era stato promosso al rango
di “gelosino”. Archetipo di tutti i riproduttori sonori. Le cassette le tenevo
sul mobiletto vicino al letto e sotto, nello scaffale grande, c’erano i dischi.
Già i dischi, il vinile, con quelle copertine che si prestavano a diventare
arte a loro volta, per non parlare dei titoli e delle note e dei nomi dei
suonatori che si leggevano chiari, ben altra cosa rispetto alla fiducia nelle
diottrie dell’utente di cui sono portatrici le confezioni dei CD. Il primo
trentatre giri che mi sono permesso è stato “Radici” di Francesco Guccini. De
Andrè ce l’avevo in cassetta. Avevo quasi tutto su nastro perché il vinile a
usarlo sul mio giradischi mono da poche lire, roba recuperata col fiato corto
di qualche tredicesima paterna che troppi buchi avrebbe dovuto tappare, si
rovinava presto. E allora, per ovviare all’usura, registravamo i dischi con un
microfonino esterno piazzato nei pressi dell’altoparlante e la qualità del
suono ne risultava agghiacciante anche per le possibilità limitate del
“gelosino” di riprodurre. C’erano delle cassette che me le facevo registrando,
sempre coi medesimi ridotti mezzi tecnici, direttamente dalla radio e i generi
si mischiavano e toccava schiacciare STOP in fretta che altrimenti chi
trasmetteva riattaccava a parlare e se ne conservava imperitura memoria nei
miei archivi domestici. La radio, a pile, era in cucina e nelle registrazioni
in sottofondo si sentivano le padelle che friggevano, il telefono che squillava
con quel trillo che i telefoni tutti avevano, lontani da certe agghiaccianti
personalizzazioni modernissime. Un tappeto sonoro che è già fonte storica per
la descrizione di una famiglia media alle prese con la morsa dei Settanta. Allo
storico l’arduo compito di filtrare la traccia sonora per riuscire ad ascoltare
certi rumori di fondo. In barba alla trentesima generazione del Dolby. E i
nostri strumenti di fruizione musicale ci hanno già obbligato in un ambito
ristretto, superati dalle nuove tecnologie che non hanno avuto pietà per le
nostre abitudini e le nostre emozioni(4).
De Andrè ce l’avevo
su nastri originali, piccolo irrinunciabile lusso, e le custodie mi pare di
ricordare fossero per lo più rosse, ma qui l’oltraggio della memoria mi
potrebbe ingannare, anche se un paio di quelle che mi restano corrispondono
alla descrizione. A dire il vero, fino al ginnasio le canzoni di Fabrizio me le
ritrovavo nelle orecchie quasi sempre senza cercarle, come molti nati insieme a
me nella prima metà dei Sessanta, e nel disperato tentativo di gridare al mondo
la mia decisione di esserci quasi mi sembrava poco efficace servirmi dei suoi
arpeggi e di quella voce che raccontava di puttane delicate mentre a un tiro di
sguardo, nello scaffale accanto del negozio di dischi, certi scalmanati
gridavano rabbia in distorsione e in inglese. In un modo che mi pareva buono
per essere vivi. E a quell’età, nel subbuglio di emozioni, ormoni e attenzioni
nuove, la voce, che va pur’essa cambiando, la si cerca forte negli altri, perché
ci pare che anche la nostra trarrebbe giovamento da quell’amplificazione e
qualcuno si potrebbe accorgere che è il turno nostro di diventare uomini. E
Fabrizio quasi ci faceva timidi delle nostre emozioni e dentro ci confessavamo
che ci piaceva da morire ma in branco avevamo da sventolare altre bandiere. Del
resto certe canzoni parevano mostrare la corda, portatrici di ingenuità che
erano solo di superficie ma che non sapevamo sopportare. Fabrizio, che s’era
preso l’onere di traghettare la musica popolare verso un’esperienza poetica
complessa, con una connotazione letteraria senza precedenti, a tutt’oggi, nel
panorama nazionale, pareva gettarci nell’imbarazzo di doverlo ascoltare
assecondando valzerini e ballate che ci facevano sentire poco in sincrono col
pulsare frenetico di quella nostra stagione adolescenziale. Al punto da
dividermi tra la musica che ascoltavo a casa e quella che condividevo col
branco. E questo capitava con De Andrè, Guccini, De Gregori e l’esperienza si
perde in infiniti rivoli che, negli anni, mi hanno fatto incontrare Lolli,
Ciampi e Conte. Citando a caso e sempre con lo stesso gusto. Poi verso i
quattordici anni scoprii che altri ce n’erano come me, incantati dalle parole e
da quelle voci e fu quella l’epoca di certe condivisioni che erano già segni
d’appartenenza incancellabile, amicizia solida a cui non saprai mai più voltare
le spalle. Fratelli di sangue e di musica. Quegli amici di allora non li ho più
persi.
Negli anni a seguire
l’anima, che pure sostengo di portarmi nello zaino di tela blu, l’ho corredata
di quelle canzoni e di quelle voci, con De Andrè sempre tra i privilegiati
dalla mia attenzione. La mia aspirazione libertaria si nutriva inizialmente di
fiaccole dell’anarchia lanciate a sasso sulla strada e insulti biechi gridati
alla regina d’Inghilterra, in un inquietante frullato che mi metteva egualmente
a mio agio in un osteria o sotto un palco a pogare. Intanto De Andrè
s’insinuava, restava, mentre gli altri andavano. A distanza d’anni certe cose,
che avevo pure imparato a suonare con la chitarra, acquistavano ancora nuova
luce e alla fine ho scoperto che nel mio vizio della scrittura non riesco a
cucire una parola sull’altra se non ho De Andrè a cantare in sottofondo.
Qualche tempo fa ho dato alle stampe un libro che è un diario sconclusionato
dei miei giorni e soprattutto delle mie notti(5). E ho scritto, sempre con
quell’accordo insistente che picchiava nel cuore e le parole che mi davano
urgenza. Voglio vivere in una città dove
all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue e di detersivo… .
L’ho usata come incipit. Quello che è giusto è giusto.
Quando è nato Orso,
mio figlio, Stefania era ancora sotto anestesia e mi hanno piazzato il nanetto
in braccio e ci hanno lasciati da soli, me e lui, a cercare di capire in che
guaio eravamo finiti entrambi.
Lo
porto alla finestra e scosto la tenda. Fuori c’è un cielo meraviglioso e io
voglio rubare al mondo questo momento irripetibile del suo primo cielo. Poi lo
troverà normale e smetterà la meraviglia ma ora è ora. Comincio a cantargli
piano Hotel Supramonte di De Andrè, che per fare bella figura mi piacerebbe
buttare giù una scaletta meravigliosa di pezzi selezionati per vantarmi di
averglieli cantati tutti con la voce calda e invece ripeto come un ebete le uniche
due strofe di quella canzone. E se vai all’Hotel Supramonte e guardi il cielo
tu vedrai… .(6)
A De Andrè il merito, in questi anni, d’avermi irrobustito
i pensieri. D’avermi insegnato un po’ come si cammina per le strade strette e
come anche le cose minime necessitino di massime attenzioni.
1
“Euro, un anno dopo tra rincari e inflazione”, in Repubblica, 22 dicembre 2002.
2 Le indagini dell’Eurispes, di concerto con le
associazioni della Coalizione dei consumatori, sul rincaro dei prezzi
registrano tra il novembre 2001 e il novembre 2002 un incremento dei costi sui
generi alimentari pari al 29 per cento, I dati sono in contrasto con i calcoli
Istat che invece per lo stesso periodo segnalano un aumento del 3,8 per cento.
La discrepanza dei dati tiene conto di un metodo di conteggio diverso
utilizzato dall’Eurispes rispetto all’Istat ma anche volendo adottare la
formula di calcolo tradizionale la variazione risulterebbe del 13 per cento,
tre volte superiore a quella denunciata dall’Istat che come ribadirà agli
organi d’informazione in quei giorni il ministro delle Attività produttive Antonio Marzano
“resta l’unica fonte ufficiale per la rilevazione dei prezzi”.
3 Sulla frenetica attività di spaccio delle
lire false negli ultimi mesi prima dell’avvento dell’euro confronta tra gli
altri Enzo Gallotta, Euro in arrivo, occhio alle lire false, “Il Giornale di
Brescia”, 13 dicembre 2001.
4 “Tramontato ormai l’antico disco in vinile,
vero e proprio oggetto rivoluzionario nell’immediato secondo dopoguerra, il consumo
avviene attraverso forme tecnologizzate: alla radio e alle musicassette si sono
affiancati mezzi di ascolto come i compact disc, il walkman e lo stesso
computer. Accanto all’elemento sonoro si è poi affiancato quello iconico: dalle
trasmissioni televisive, musicalli e di varietà si è passati al videoclip,
strumento di una comunicazione musicale che oggi è anche visiva.”
Stefano
Pivato, La storia leggera, IL Mulino, Bologna, 2002, pag 30.
5 Giorgio Olmoti, Torino da bere, Stampa Alternativa, Viterbo, 2002.
6
Giorgio
Olmoti, op. cit., pag. 43.
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