sabato 12 gennaio 2019

Fabrizio De Andrè e i piedi che piangono










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Fabrizio De Andrè e qualcosa di personale

Mille anni al mondo mille ancora
che bell’inganno sei anima mia
e che bello il tuo tempo
che bella compagnia”

Cominciare dalla fine.
A Venezia faceva freddo e non c’è meraviglia, che da quel mese lì abbiamo da aspettarci giusto gelo frequente e rare preghiere. Di speciale quel gennaio aveva che era la porta dell’ultima stanza. Ancora pochi passi lungo i corridoi di questa casa al civico Novecento e poi via. Trasloco. Altro millennio, altra strada, altre facce e tempo per riadeguarsi e sperare. E mai a sfiorarmi il dubbio che i pochi sguardi concessi a noi, reduci d’un secolo che non è di moda e d’orgoglio portarsi addosso, in quest’era nuova, con la cilindrata portata a Duemila per darti accelerazione da strappare il cuore, li avremmo fatti senza certe parole scritte taglienti e offerte a voce calda. In quell’undici gennaio Fabrizio De Andrè è morto. L’avevo saputo già dal mattino. Rientrato coi cani da un lungo giro in riva al Torre, allora vivevo nella campagna friulana, tentavo di dare un senso a fogli e appunti e files che sarebbero diventati oggetti di discussione nel mio pomeriggio veneziano e la notizia s’è piantata come un cuneo nei miei affanni domestici. La radio, con un imbarazzo che mai avevo saputo scoprirle in anni di convivenza, me l’ha confidato d’un soffio. Morto. Sono rimasto lì, col gesto fermato a mezzo. Ho chiesto posto ai cani sul divano e ho lasciato che le mie dita goffe finissero dove in qualche modo cominciava una chitarra. Cullandomi su un arpeggio suo, un paio di accordi facili e fragili. Da amico. E s’è fatta l’ora di partire e ho raccolto le mie cose e ho lasciato che la moto mi portasse fino al treno.
La stazione di Venezia Santa Lucia se ne rimane proprio sul bordo del canale e, appena fuori, sai da subito che sei in quella città lì e in nessun’altra. La meraviglia, a distanza di anni, mi si rinnova tutte le volte. Quel giorno non ricordo nemmeno d’esserci arrivato. So solo che decisi di farmela al passo, e di piedi, uno davanti all’altro, c’era da metterne parecchi fino alla meta. Una volta a destinazione avrei ostentato sicurezza e disinvoltura, pregando in cuor mio che mi confermassero margini di sopravvivenza con l’ennesimo contratto a tempo. Tempo rubato, tempo debito. Pioveva. Indossavo scarpe che avevano la suola in cuoio, le uniche di questi miei anni, regalo paterno recuperato in qualche svendita fuori tutto. Scarpe doverose nello sforzo di rendermi credibile in quell’incontro dove mi giocavo la sopravvivenza con le solite tre carte sul tavolo. E sperare che il trucco riuscisse ancora. La pioggia fredda s’era stesa a velo insidioso sul lastricato veneziano e le suole lisce minavano pure la mia sicurezza minima di riuscire a stare in piedi. Con la borsa, caricata a fogli, che mordeva la mia spalla destra. Sempre nello stesso punto, che in quegli anni precari mi si era scavato nella carne un solco ergonomico reggicinghia. Le stimmate laiche di una generazione trentenne, obbligata a mostrarsi flessibile nel lavoro e nello stomaco. Questi nostri sono gli anni del “boom ergonomico” e ridisegniamo ogni giorno le nostre attitudini su quello che accettiamo di fare perché è tutto quello che c’è. L’Italia dei Sessanta, industriosa e industriale, culla dei cambiamenti e delle contraddizioni che proprio Fabrizio aveva guardato senza stupore, sorridendo a volte amaro e lasciandosi scappare qualche maledizione, ce la siamo persa e ora, orfani della campagna e negati all’industria, nel nostro mondo prevalgono i servizi, che nella memoria di scolaro bambino erano i cessi e forse ci sarà un motivo. E ancora mi ripetevo ch’era morto, credendoci da subito, perché solo nei film ci si risveglia chiedendo “dove sono” dopo una botta in testa.
Le scarpe, dicevamo. Roba da poche lire e, a dichiarare il conio di quel tempo ancora spargo tracce di memoria storica, che a partire dal 2001 il caffè si pagherà in euro e negli occhi e nelle tasche degli italiani ci sarà da leggere smarrimento. E allora vale la pena ricordare che a qualche mese di distanza dall’introduzione della moneta unica qualche politico aveva rimproverato gli italiani perché continuavano a pensare in lire spendendo in euro e di conseguenza i conti già tentennanti si asciugavano(1). Popolo distrattone. Meno male che a redarguirlo c’erano loro, la classe dirigente, gente abituata a parlare con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni. Fabrizio aveva nutrito certe sue invettive anche di questi personaggi imbrattati di governo e non si sarebbe certo meravigliato quando i dati sul potere d’acquisto della famiglia media italiana, giusto qualche mese dopo, avrebbero dimostrato che a voler dare la colpa alla distrazione di chi spendeva c’era da essere o fini umoristi o tragici incompetenti(2). Ma forse a lui, a De Andrè, gli sarebbe interessata di più la frenesia dei falsari che negli ultimi giorni della lira immisero sul mercato tutti i fondi di magazzino, migliaia di banconote stampate con attenzione maniacale, certe più belle di quelle vere(3).
Insomma procedevo per le calli con queste scarpe mie di cuoio rosso macchiato pioggia e passando l’ennesimo ponte sento sotto le piante del piede un’insistenza d’acqua che va oltre quello che ero disposto a sopportare. Sollevo il piede, sbircio e scopro che la suola di millantato cuoio doveva essere fatta in realtà con i cartoni delle pizze per asporto. Con la pioggia la suola s’era sciolta. Camminavo col calzino a contatto col selciato. E dovevo andare che mi aspettavano. E la testa era ingombra di quell’unico fatto, di quella morte inattesa. Fabrizio. Avrei voluto mi vedesse in quel momento, così degno della mia età e del mio tempo, con i miei dischi, i miei libri e i miei film a corrermi dentro con le piastrine e i globuli. Chissà come l’avrebbe raccontato Fabrizio uno come me che si portava sulle spalle il suo mestiere per le calli veneziane, che l’odore salso e l’antica memoria di potenza marinara facevano vicine ai suoi carrugi. M’avrebbe cantato divertendosi mentre campavo credendo normale quella vita incerta, piangevo un lutto immenso e le scarpe si scioglievano sotto la pioggia. Sempre perché i politici tromboni, che accennavamo prima, s’erano imperlati la fronte a gridare che era il tempo del lavoro flessibile. E lo dicevano muovendo appena la benedetta tovaglia.

Acqua che non si aspetta, altro che benedetta.

Sono arrivato in Campo qualcosa e m’attendevano. Salendo le scale il mio passo faceva uno sciaguattio, che rimbombava in quell’edificio illustre precedendomi. Altro che “archivi fotografici e didattica”, pareva andassi a dare dimostrazione di pratica circense, trascinandomi dietro un’otaria pinnante per le scale. Mi accolse una segretaria e le scrutai gli occhi per leggerle lo sgomento che ritengo d’obbligo il giorno della morte di Fabrizio De Andrè. Non dovevano averla ancora avvertita, a giudicare dall’efficienza fredda del suo ricevermi e io, che non so trovar parole mai, lascio ad altri il compito. Il dubbio che la cosa, il lutto intendo, la sollecasse poco non mi sfiorava. La seguii lungo il corridoio e lasciai un’impronta umidiccia, che null’era se non il mio calzino intriso d’acqua, che ora lascia giù anche venature blu. Entrai in una sala col tavolone enorme e troppe ne ho viste in questi anni e non avrei avuto soggezione alcuna se non fosse stato per questo mio avanzare incerto sui piedi zuppi e nudi. Quando ci si fa parecchio male il cervello stacca la connessione, dando agio al corpo di riprendersi senza restituirci memoria e misura del dolore. Si sviene e si va in coma per difendersi. Credo di essermi ridotto in quello stato deplorevole con l’intento inconscio d’avere altri pensieri a colmare quell’insistenza di vuoto che mi stordiva. Per ubriacare il dolore. Per non pensare Fabrizio morto. Poi si accese il proiettore alle mie spalle, preparai i materiali nell’ordine in cui andavano esposti e guardai le facce, tutte rivolte verso di me. Già, le facce, non m’ero nemmeno accorto ci fossero e erano tanti. A me capita a volte di fare e dire cose mentre dentro c’è una voce che mi sussurra “non avrai mica intenzione di farlo”. “Avete sentito che è morto De Andrè”. Perplessità negli astanti. Alcuni accennarono a chiedere di chi stessi parlando, perché tutti o quasi ce l’avevano in testa che c’era uno che cantava da quarant’anni e si chiamava così ma io sono lì per parlare di progetti didattici e siamo nell’era delle specializzazioni. Roba che per sua natura nega l’emozione. Secondo quelli attorno al tavolo, questo dolore, in quel momento, a me non competeva. Altro sarebbe stato se fosse morto il proiettore. Allora sicuro m’avrebbero accordato le lacrime. Poi qualcuno disse qualcosa sul fatto che lo ascoltavano da ragazzi e chissà ora e quanti anni aveva ma si vede che non c’era gran coinvolgimento. Attaccai la parte mia e tenni botta per un paio d’ore di show. Il piede, per tutto il tempo, non smise mai di far correre lacrime, perfetta succursale del mio dolore.
A giornata finita, a lavoro preso, in treno mi aggiustai il passo con un pezzo di plastica trasparente ficcato nella scarpa. Nello scompartimento trovai una ragazza con la faccia di una che condivideva certo mio smarrimento. Le due ore di viaggio volarono.
Poi, a casa e tra gli amici, ci siamo rincorsi col telefono e qualcuno è partito per Genova, qualcuno s’è trovato a suonare e a bere. Qualcuno ha pianto. Io avevo i cani e una vigna dietro casa. Tra le altre cose.




A De Andrè ci sono arrivato per gradi. Piano e senza folgorazioni. Piuttosto sedotto da certo frequentarsi che faceva quasi abitudine. Io ero quello nella stanzetta, lui quello che raccontava dal registratore. A dire il vero l’apparecchio per musica domestica lo chiamavamo “gelosino” anche se la marca non era quella. La Geloso era stata un riferimento industriale significativo nel panorama nazionale, contribuendo a dotare le case degli italiani di radio e televisori. Al punto che nel nostro lessico familiare qualsiasi registratore era stato promosso al rango di “gelosino”. Archetipo di tutti i riproduttori sonori. Le cassette le tenevo sul mobiletto vicino al letto e sotto, nello scaffale grande, c’erano i dischi. Già i dischi, il vinile, con quelle copertine che si prestavano a diventare arte a loro volta, per non parlare dei titoli e delle note e dei nomi dei suonatori che si leggevano chiari, ben altra cosa rispetto alla fiducia nelle diottrie dell’utente di cui sono portatrici le confezioni dei CD. Il primo trentatre giri che mi sono permesso è stato “Radici” di Francesco Guccini. De Andrè ce l’avevo in cassetta. Avevo quasi tutto su nastro perché il vinile a usarlo sul mio giradischi mono da poche lire, roba recuperata col fiato corto di qualche tredicesima paterna che troppi buchi avrebbe dovuto tappare, si rovinava presto. E allora, per ovviare all’usura, registravamo i dischi con un microfonino esterno piazzato nei pressi dell’altoparlante e la qualità del suono ne risultava agghiacciante anche per le possibilità limitate del “gelosino” di riprodurre. C’erano delle cassette che me le facevo registrando, sempre coi medesimi ridotti mezzi tecnici, direttamente dalla radio e i generi si mischiavano e toccava schiacciare STOP in fretta che altrimenti chi trasmetteva riattaccava a parlare e se ne conservava imperitura memoria nei miei archivi domestici. La radio, a pile, era in cucina e nelle registrazioni in sottofondo si sentivano le padelle che friggevano, il telefono che squillava con quel trillo che i telefoni tutti avevano, lontani da certe agghiaccianti personalizzazioni modernissime. Un tappeto sonoro che è già fonte storica per la descrizione di una famiglia media alle prese con la morsa dei Settanta. Allo storico l’arduo compito di filtrare la traccia sonora per riuscire ad ascoltare certi rumori di fondo. In barba alla trentesima generazione del Dolby. E i nostri strumenti di fruizione musicale ci hanno già obbligato in un ambito ristretto, superati dalle nuove tecnologie che non hanno avuto pietà per le nostre abitudini e le nostre emozioni(4).
De Andrè ce l’avevo su nastri originali, piccolo irrinunciabile lusso, e le custodie mi pare di ricordare fossero per lo più rosse, ma qui l’oltraggio della memoria mi potrebbe ingannare, anche se un paio di quelle che mi restano corrispondono alla descrizione. A dire il vero, fino al ginnasio le canzoni di Fabrizio me le ritrovavo nelle orecchie quasi sempre senza cercarle, come molti nati insieme a me nella prima metà dei Sessanta, e nel disperato tentativo di gridare al mondo la mia decisione di esserci quasi mi sembrava poco efficace servirmi dei suoi arpeggi e di quella voce che raccontava di puttane delicate mentre a un tiro di sguardo, nello scaffale accanto del negozio di dischi, certi scalmanati gridavano rabbia in distorsione e in inglese. In un modo che mi pareva buono per essere vivi. E a quell’età, nel subbuglio di emozioni, ormoni e attenzioni nuove, la voce, che va pur’essa cambiando, la si cerca forte negli altri, perché ci pare che anche la nostra trarrebbe giovamento da quell’amplificazione e qualcuno si potrebbe accorgere che è il turno nostro di diventare uomini. E Fabrizio quasi ci faceva timidi delle nostre emozioni e dentro ci confessavamo che ci piaceva da morire ma in branco avevamo da sventolare altre bandiere. Del resto certe canzoni parevano mostrare la corda, portatrici di ingenuità che erano solo di superficie ma che non sapevamo sopportare. Fabrizio, che s’era preso l’onere di traghettare la musica popolare verso un’esperienza poetica complessa, con una connotazione letteraria senza precedenti, a tutt’oggi, nel panorama nazionale, pareva gettarci nell’imbarazzo di doverlo ascoltare assecondando valzerini e ballate che ci facevano sentire poco in sincrono col pulsare frenetico di quella nostra stagione adolescenziale. Al punto da dividermi tra la musica che ascoltavo a casa e quella che condividevo col branco. E questo capitava con De Andrè, Guccini, De Gregori e l’esperienza si perde in infiniti rivoli che, negli anni, mi hanno fatto incontrare Lolli, Ciampi e Conte. Citando a caso e sempre con lo stesso gusto. Poi verso i quattordici anni scoprii che altri ce n’erano come me, incantati dalle parole e da quelle voci e fu quella l’epoca di certe condivisioni che erano già segni d’appartenenza incancellabile, amicizia solida a cui non saprai mai più voltare le spalle. Fratelli di sangue e di musica. Quegli amici di allora non li ho più persi.

Negli anni a seguire l’anima, che pure sostengo di portarmi nello zaino di tela blu, l’ho corredata di quelle canzoni e di quelle voci, con De Andrè sempre tra i privilegiati dalla mia attenzione. La mia aspirazione libertaria si nutriva inizialmente di fiaccole dell’anarchia lanciate a sasso sulla strada e insulti biechi gridati alla regina d’Inghilterra, in un inquietante frullato che mi metteva egualmente a mio agio in un osteria o sotto un palco a pogare. Intanto De Andrè s’insinuava, restava, mentre gli altri andavano. A distanza d’anni certe cose, che avevo pure imparato a suonare con la chitarra, acquistavano ancora nuova luce e alla fine ho scoperto che nel mio vizio della scrittura non riesco a cucire una parola sull’altra se non ho De Andrè a cantare in sottofondo. Qualche tempo fa ho dato alle stampe un libro che è un diario sconclusionato dei miei giorni e soprattutto delle mie notti(5). E ho scritto, sempre con quell’accordo insistente che picchiava nel cuore e le parole che mi davano urgenza. Voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue e di detersivo… . L’ho usata come incipit. Quello che è giusto è giusto.
Quando è nato Orso, mio figlio, Stefania era ancora sotto anestesia e mi hanno piazzato il nanetto in braccio e ci hanno lasciati da soli, me e lui, a cercare di capire in che guaio eravamo finiti entrambi.

Lo porto alla finestra e scosto la tenda. Fuori c’è un cielo meraviglioso e io voglio rubare al mondo questo momento irripetibile del suo primo cielo. Poi lo troverà normale e smetterà la meraviglia ma ora è ora. Comincio a cantargli piano Hotel Supramonte di De Andrè, che per fare bella figura mi piacerebbe buttare giù una scaletta meravigliosa di pezzi selezionati per vantarmi di averglieli cantati tutti con la voce calda e invece ripeto come un ebete le uniche due strofe di quella canzone. E se vai all’Hotel Supramonte e guardi il cielo tu vedrai… .(6)

A De Andrè il merito, in questi anni, d’avermi irrobustito i pensieri. D’avermi insegnato un po’ come si cammina per le strade strette e come anche le cose minime necessitino di massime attenzioni.




1 “Euro, un anno dopo tra rincari e inflazione”, in Repubblica, 22 dicembre 2002.
2  Le indagini dell’Eurispes, di concerto con le associazioni della Coalizione dei consumatori, sul rincaro dei prezzi registrano tra il novembre 2001 e il novembre 2002 un incremento dei costi sui generi alimentari pari al 29 per cento, I dati sono in contrasto con i calcoli Istat che invece per lo stesso periodo segnalano un aumento del 3,8 per cento. La discrepanza dei dati tiene conto di un metodo di conteggio diverso utilizzato dall’Eurispes rispetto all’Istat ma anche volendo adottare la formula di calcolo tradizionale la variazione risulterebbe del 13 per cento, tre volte superiore a quella denunciata dall’Istat che come ribadirà agli organi d’informazione in quei giorni il ministro  delle Attività produttive Antonio Marzano “resta l’unica fonte ufficiale per la rilevazione dei prezzi”.
3  Sulla frenetica attività di spaccio delle lire false negli ultimi mesi prima dell’avvento dell’euro confronta tra gli altri Enzo Gallotta, Euro in arrivo, occhio alle lire false, “Il Giornale di Brescia”, 13 dicembre 2001.
4  Tramontato ormai l’antico disco in vinile, vero e proprio oggetto rivoluzionario nell’immediato secondo dopoguerra, il consumo avviene attraverso forme tecnologizzate: alla radio e alle musicassette si sono affiancati mezzi di ascolto come i compact disc, il walkman e lo stesso computer. Accanto all’elemento sonoro si è poi affiancato quello iconico: dalle trasmissioni televisive, musicalli e di varietà si è passati al videoclip, strumento di una comunicazione musicale che oggi è anche visiva.”
Stefano Pivato, La storia leggera, IL Mulino, Bologna, 2002, pag 30.
5      Giorgio Olmoti, Torino da bere, Stampa Alternativa, Viterbo, 2002.
6      Giorgio Olmoti, op. cit., pag. 43.





















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