sabato 12 aprile 2014

Palla a Missile

fai partire la canzone qui sotto e poi comincia a leggere.







Udine dei primi anni Settanta non era ancora uno dei gangli pulsanti del nordest produttivo. Non era neppure la reduce dello scellerato terremoto. Il miracolo economico in Friuli s’era sentito appena, c’erano le fonderie, qualche fabbrica sparsa ma era ancora terra di contadini. Quelli rimasti, che i friulani s’erano sparsi ai quattro venti per cercar fortuna.
A Udine c’erano un mucchio di caserme, a dire il vero in tutto il Friuli era un proliferare di fortezze Bastiani perse tra Carnia e Carso. Mio padre era un militare e siamo piombati dal nostro Sud su Udine perchè il lavoro per uno che difende la patria era concentrato tutto lì, baluardo contro il pulsante pericolo rosso. Se mio padre fosse stato operaio saremmo finiti a Sesto San Giovanni a canticchiarci nell’orecchio tutte le mattine la canzone dei Gang. Invece si partì per Udine. I meridios, i napuli, i terroni, i mandarini da quelle parti non erano ancora roba diffusa. Malgrado la mimesi linguistica attivata, malgrado il biondo e gli occhi chiari, era palese che ero cosa altra. Piombammo su Udine nella primavera del Sessantotto, io coi miei tre anni e il respiro incerto, mia madre con la rinuncia alla vita agiata per seguire l’amore, mio padre con la mimetica sbragata e una macchina nuova, l’unica della nostra vita, ordinata alla Fiat per l’occasione. Se uno compra l’unica auto nuova del suo esistere e la compra di una nota marca torinese e la ordina nella primavera del Sessantotto poi non si deve lamentare. E noi per mesi, a piedi nella città sconosciuta, abbiamo fatto come se fosse normale mentre dai cancelli di Mirafiori il nostro 124 bianco non usciva mai.
Stavamo in un appartamento piccolo al primo piano. I soldi se ne andavano in buona parte per l’affitto e poi si mangiava le cose di plastica dei supermercati in quegli anni lì che quando allo Zecchino vinse “il caffè della Peppina” a me sembrava una canzone neorealista. Si stava parecchio in casa, con la tele a due canali biancoenero e con la merenda a base di pane e marmellata: Le confetture arrivavano in certi pacchi di mia nonna che sembravano gli aiuti umanitari al Burundi e dentro c’erano i carciofini, le sopressate, le tende per la cucina, le foto di battesimi e comunioni di parenti mai visti. C’erano pure i vestiti dismessi delle mie cugine e lo capisco che si risolveva una parte del bilancio familiare ma uno già deve fare lo sforzo di integrarsi e se si presenta a scuola con un cappotto rosso e i bottoni dorati può avere qualche difficoltà in più. Se poi si toglie il cappotto e ha un maglione, fatto ai ferri dalla zia, con scene di vita campestre prive di qualsiasi proporzione e la gallina e la casetta che sono alte uguali, le cose si complicano vieppiù. Per buona sorte erano anni tristi per quasi tutti e nessuno a scuola poteva fare tanto il fighetto. Da più grande ho scelto d’essere punk così giustificavo gli anfibi vecchi di mio padre ai piedi e un assurdo, pesantissimo pastrano che se appoggiavi l’orecchio alla tasca destra sentivi ancora il Piave mormorante.
La camera mia era arredata con un lettuccio di ferro e un baule in legno pesantissimo che serviva a tenerci i giocattoli. Per sollevare il coperchio del baule, facendolo ruotare su cardini bastardi, ho rischiato più volte le falangi. Le dimensioni incredibili del baule non erano giustificate dal contenuto, che di giocattoli se ne vedevano rari, giusto qualche soldatino per inventarmi le avventure di un padre che vedevo poco. All’epoca pensavo che i figli dei fruttivendoli avessero dei fruttivendolini con cui giocare, i figli dei medici dei medicini e così via. Lo giuro.
Dalla finestra di camera mia vedevo il palazzo di fronte. Al primo piano c’era un appartamento con una terrazza che ci si poteva allestire un paio di campi da tennis regolamentari e ancora avanzava. Tutto il tetto della coop dove si faceva la spesa era la terrazza di questi qui di fronte. In quel privilegio lì ci scorazzava un bambino, sempre da solo. Il padre lavorava in banca, questo seppi un giorno. Mi feci l’idea che la banca dovesse essere di loro proprietà. Insomma, questo bimbino della medesima età mia aveva sempre un sacco di giocattoli nuovi, prevalentemente a tema aerospaziale, che quelli erano gli anni della corsa alla conquista dello spazio ma anche del telefilm UFO con gli intercettori e il comandante Streicker che vigliacco se so come si scrive. C’erano tutte queste marche di modellini “in metallo pressofuso” recitava la pubblicità su Topolino, e si chiamavano Dinky Toys, Mebe Toys, Corgy Toys. Io avevo i soldatini Baravelli con certi difetti di fusione che il fucile sembrava la pala per fare le pizze. Quello lì, quel bambino lì, aveva invece tutti gli aerei e le navicelle e le macchinine e anche un casco da astronauta che se lo infilava e si accendevano le luci con l’intermittenza. A me era dato sapere di questi suoi averi perché passava il tempo a gridare “ammaraggio”, “decollo”, “aziona i flap”, nella foga di far vivere ai suoi giochi avventure mozzafiato. Passavo la giornata incollato al vetro della mia finestra, con le ginocchia piantate sul baule che avevo posizionato strategicamente. Così almeno serviva a qualcosa. Sorridevo quando abbatteva nemici, andavo in ansia quando annunciava un’avaria, non sapevo cosa cazzo fossero i flap. Lui, dal canto suo, se n’era accorto e tutto quel circo lo faceva solo nella porzione di terrazza che stava di fronte a casa mia. Quando mia madre mi chiedeva notizie di me, nemmeno vivessimo nella reggia di Caserta, rispondevo “sto guardando Missile”. Avevo iniziato a chiamarlo così per gioco, quasi una piccola vendetta da pitocco che irride il re, ma alla fine Missile era diventato il suo nome naturale, privo di qualsiasi sfumatura. Un giorno, mentre camminavamo bordo strada con mio padre che poco sapeva di me, passò una macchina veloce e ci lavò alzando un’onda anomala da una pozzanghera enorme. Gridai d’istinto “ammaraggio” e mio padre mi guardò sbigottito mentre i nostri vestiti Postalmarket piangevano lagrime d’oltraggio. Pensa tu se avessi gridato “aziona i flap”.
A questo punto vale la pena spendere due parole sui miei genitori. Mia madre arriva da una famiglia di imprenditori, proprietari di fabbriche, aziende agricole e lusso ardito. Al contrario mio padre cresce in una famiglia di pescatori e marinai, mille figli e pochissimi soldi. Insomma una vera storia d’amore di quegli anni lì. Pino, mio padre, era bravissimo a scuola ma essendo povero, aveva due possibilità rapide per continuare a studiare: o diventava prete o entrava nell’esercito. Visto e considerato che la predisposizione di mio padre, che è poi cosa genetica che mi ritrovo, mal si accorda coi doveri dell’abito talare, una volta si beccò pure un Auricchio nella nuca scagliato dal padre pizzicagnolo di una sua fidanzata, scelse l’esercito. Gli erano rimaste però le stimmate della sua giovinezza di strada e ancora adesso se vede un albero carico di frutta non può trattenersi. La mamma invece cercava di salvare la forma in quel suo cadere a picco dall’agio alla borghesia piccola piccola, arrivando a comprarmi un cappello da fantino che secondo lei dovevo indossare nella vita di tutti giorni. Col cappotto rosso da femmina. Conciato così mio padre la domenica mi portava a rubare la frutta e a pescare di frodo nelle valli del Natisone. Quando saccheggiavamo i fiori di zucca indossavo un enorme paio di guanti da elettricista per proteggermi da quelle spine sottili sottili. Mio padre aspettava a bordo strada col motore acceso. Solo ora capisco che nessuno ci avrebbe mai detto niente per quelle mele stroppiate che si potevano mangiare solo cotte e certe castagne stitiche ma allora la nostra tabella dietetica dipendeva molto dal bottino del finesettimana e dalla prontezza di riflessi di mio padre quando una bestia commestibile attraversava la strada. A volte ce ne andavamo sul greto del Torre e recuperavamo cose inutili, tipo un cavo telefonico lungo qualche centinaio di metri che rimase in cantina per anni. Noi il telefono l’abbiamo messo nell’ottantasette. Quando sono venuti a istallarlo il cavo mia madre lo aveva già buttato via e non abbiamo potuto vantarci.
Una sera mio padre mi svegliò per mostrarmi il regalo che mi aveva portato. Di solito erano scatole di Settesere Perugina che erano degli assortimenti di cioccolatini che vinceva al biliardo del circolo ufficiali. Di solito quando tornava la sera coi cioccolatini poi i miei litigavano. Un giorno mio padre ha vinto la medaglia d’oro a boccette e allora le acque si sono calmate che s’è capito che era uno sportivo vero e non un tiratardi. Vedi alle volte a trarre subito le conclusioni. Quella sera però il regalo era davvero merce preziosa: un pallone da calcio. La marca non me la ricordo ma era tipo i Supertele che sono quei palloni leggerissimi che costano niente ma in genere si bucano se li guardi troppo intensamente o se uno fa un rumore improvviso. Quando si giocava con quei palloni lì, dopo il goal nessuno esultava per non compromettere l’unità molecolare del Supertele. Insomma mi ritrovo questo pallone bianco a scacchi neri al centro della mia stanza, ovvero tra il letto di ferro e il baule di legno, che vivevo come Ismaele a bordo del Pequod. Non mi ricordo la reazione, so per certo che non litigai con mio fratello per il possesso dell’ambito oggetto perché ero ancora figlio unico. Voglio immaginare che stropicciai gli occhi, percorso da fremiti come i bimbi della pubblicità del materasso che cantavano bidibodibù e erano tutti boccoluti. Purtroppo io già da piccolo ero brutto e facevo piuttosto l’effetto di un randagio che viene svegliato con un secchio d’acqua ma in ogni caso penso che aprii gli occhi e vidi la mia vita di bimbo occupata dalla presenza di un pallone da calcio. Da non crederci. Da non credere soprattutto che mio padre l’avesse comprato alle dieci di sera. Chissà dove l’aveva recuperato. Non feci domande, ingombrato dall’unico pensiero del pallone.
Rimasi tutta la notte a fissarlo e di tanto in tanto mi alzavo, lo toccavo, lo annusavo. Il mio pallone. Il giorno dopo era domenica e a questo punto della narrazione dovrei dire “lo ricordo come fosse adesso”. Colazione lampo ingollando il solito panellatte e fuori, che in casa non si gioca a pallone. Il cortile divideva il mio palazzo da quello di Missile. A dire il vero come calciatore ero imbarazzante ma mi muovevo gridando frasi inconsulte come in una indiavolata telecronaca e sparavo sulla parete del palazzo. Del palazzo di Missile per la santa precisione. E lui si affacciò dalla terrazza e rimase a fissarmi e io mi indiavolai cento volte di più. Poi rientrò in casa e i calci miei divennero quasi annoiati e stavo già pensando di tornare a casa quando lo vidi. Era lì, davanti a me, alto come me. Avanzava nel cortile. Missile aveva abbandonato le sue basi spaziali e i suoi misteriosi flap e aveva deciso di scendere in cortile colmando lo spazio tra la mia finestra e la sua portaerei terrazza. Quello che però attrasse la mia attenzione era il pallone. Il suo pallone. Non una cosa qualsiasi ma il signore di tutte le sfere calciabili. Il pallone di cuoio, il Santo Graal di tutti gli eserciti dei campetti rinsecchiti di periferia. Io e quelli come me il pallone di cuoio nel negozio cercavamo anche di non guardarlo che sembrava brutto. Insieme alla bici cross con la radio che stavo cercando di vincere col concorso delle merendine a cui probabilmente devo il degrado attuale del mio fisico, il pallone di cuoio era in cima a tutti i miei desideri. Missile lo posò a terra senza guardarmi e cominciò a tirare calci maledetti a quella meraviglia di pelle bovina. E ogni volta che colpiva il muro, del mio palazzo ovviamente, quel rumore pieno era il segno dell’umiliazione feroce. Mi misi a sedere sul cordolo di cemento col mio sgalfo pallonastro tra i piedi. Sentivo che nell’intimo della mia stanza gli avrei voluto bene ancora, come certi cani che li prendi da piccolo e poi crescono e sono orrendi ma tu, sdraiato sul divano, gli gratti la schiena di puro affetto, incurante che con l’età hanno pure preso il vizio di scoreggiare. Però in quel momento battevo in ritirata sconfitto in impari confronto. Di colpo Missile parve stancarsi del suo tramestio cuoiuto e si mise a sedere di fronte a me, con la schiena appoggiata al muro, il suo muro. Sazio di quelle pallonate corpose. Il pallone lo lasciò lì, in mezzo al cortile. Quasi non gli interessasse più e intendesse abbandonarlo. Furono minuti pesanti. Sospesi. Poi mi alzai e mi accostai alla cuoiopalla. Missile mi guardava stupito. “Posso fare un tiro” dissi, ed erano le prime parole tra noi. Ancora carico di meraviglia fece un cenno d’assenso con la testa e non aveva nemmeno finito che avevo già caricato un puntalone cattivo su quel pallone di vacca sacra. La botta fu tremenda. Lo presi in faccia, e giuro che non era nelle mie intenzioni, almeno in quelle manifeste. Il poveretto andò a sbattere forte con la nuca contro il muro a cui era appoggiato e si accasciò riverso con un rivolo di sangue che gli usciva dal naso. Sbarrai gli occhi. Presi il mio pallone e mi diedi alla fuga. Arrivato a casa dovevo averci l’aria terrorizzata. Mia madre mi chiedeva con insistenza cosa avessi. “Missile è morto” dissi a un certo punto rompendo il silenzio. E dire che m’ero giurato di non confessarlo mai. Mia madre s’allarmò e mi chiese spiegazioni: “Niente, è venuto giù a giocare e a un certo punto è morto. Da solo” “Ma dov’è adesso” “Giù”. Corsa per le scale di mia madre con me al seguito. Missile era ancora lì per terra e piangeva. Segno che non era ancora completamente morto, pensai io. Questione di minuti. Mia madre lo soccorse. Non ricordo molto ma a un certo punto arrivò anche la sorella di Missile, la stessa che anni dopo ascoltavamo di nascosto mentre chiusa nella sua stanza col fidanzato faceva delle misteriose prove ginniche e di respirazione. Chiesi scusa, perché la regola della palla a Missile prevede che il vincitore chieda scusa sotto lo sguardo minaccioso della madre.

Qualche giorno fa ho portato mio figlio a vedere il cortile in cui sono cresciuto a Udine, adesso vivo a Torino ma ho ancora una casa nei boschi friulani dove torno a cercare buona acoglienza all'emozione. Non ho resistito e sono andato a leggere i campanelli. La famiglia di Missile vive ancora lì. Sul muro, certo frutto della suggestione, m’è sembrato di ritrovare le tracce di quel nostro sport. Uno di questi giorni a mio figlio gli spiego cos’è un flap che non voglio che arrivi impreparato a certe tappe della vita.

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