fai partire la canzone qui sotto e poi comincia a leggere.
Udine dei primi anni Settanta non era
ancora uno dei gangli pulsanti del nordest produttivo. Non era
neppure la reduce dello scellerato terremoto. Il miracolo economico
in Friuli s’era sentito appena, c’erano le fonderie, qualche
fabbrica sparsa ma era ancora terra di contadini. Quelli rimasti, che
i friulani s’erano sparsi ai quattro venti per cercar fortuna.
A Udine c’erano un mucchio di
caserme, a dire il vero in tutto il Friuli era un proliferare di
fortezze Bastiani perse tra Carnia e Carso. Mio padre era un militare
e siamo piombati dal nostro Sud su Udine perchè il lavoro per uno
che difende la patria era concentrato tutto lì, baluardo contro il
pulsante pericolo rosso. Se mio padre fosse stato operaio saremmo
finiti a Sesto San Giovanni a canticchiarci nell’orecchio tutte le
mattine la canzone dei Gang. Invece si partì per Udine. I meridios,
i napuli, i terroni, i mandarini da quelle parti non erano ancora
roba diffusa. Malgrado la mimesi linguistica attivata, malgrado il
biondo e gli occhi chiari, era palese che ero cosa altra. Piombammo
su Udine nella primavera del Sessantotto, io coi miei tre anni e il
respiro incerto, mia madre con la rinuncia alla vita agiata per
seguire l’amore, mio padre con la mimetica sbragata e una macchina
nuova, l’unica della nostra vita, ordinata alla Fiat per
l’occasione. Se uno compra l’unica auto nuova del suo esistere e
la compra di una nota marca torinese e la ordina nella primavera del
Sessantotto poi non si deve lamentare. E noi per mesi, a piedi nella
città sconosciuta, abbiamo fatto come se fosse normale mentre dai
cancelli di Mirafiori il nostro 124 bianco non usciva mai.
Stavamo in un appartamento piccolo al
primo piano. I soldi se ne andavano in buona parte per l’affitto e
poi si mangiava le cose di plastica dei supermercati in quegli anni
lì che quando allo Zecchino vinse “il caffè della Peppina” a me
sembrava una canzone neorealista. Si stava parecchio in casa, con la
tele a due canali biancoenero e con la merenda a base di pane e
marmellata: Le confetture arrivavano in certi pacchi di mia nonna che
sembravano gli aiuti umanitari al Burundi e dentro c’erano i
carciofini, le sopressate, le tende per la cucina, le foto di
battesimi e comunioni di parenti mai visti. C’erano pure i vestiti
dismessi delle mie cugine e lo capisco che si risolveva una parte del
bilancio familiare ma uno già deve fare lo sforzo di integrarsi e se
si presenta a scuola con un cappotto rosso e i bottoni dorati può
avere qualche difficoltà in più. Se poi si toglie il cappotto e ha
un maglione, fatto ai ferri dalla zia, con scene di vita campestre
prive di qualsiasi proporzione e la gallina e la casetta che sono
alte uguali, le cose si complicano vieppiù. Per buona sorte erano
anni tristi per quasi tutti e nessuno a scuola poteva fare tanto il
fighetto. Da più grande ho scelto d’essere punk così giustificavo
gli anfibi vecchi di mio padre ai piedi e un assurdo, pesantissimo
pastrano che se appoggiavi l’orecchio alla tasca destra sentivi
ancora il Piave mormorante.
La camera mia era arredata con un
lettuccio di ferro e un baule in legno pesantissimo che serviva a
tenerci i giocattoli. Per sollevare il coperchio del baule, facendolo
ruotare su cardini bastardi, ho rischiato più volte le falangi. Le
dimensioni incredibili del baule non erano giustificate dal
contenuto, che di giocattoli se ne vedevano rari, giusto qualche
soldatino per inventarmi le avventure di un padre che vedevo poco.
All’epoca pensavo che i figli dei fruttivendoli avessero dei
fruttivendolini con cui giocare, i figli dei medici dei medicini e
così via. Lo giuro.
Dalla finestra di camera mia vedevo il
palazzo di fronte. Al primo piano c’era un appartamento con una
terrazza che ci si poteva allestire un paio di campi da tennis
regolamentari e ancora avanzava. Tutto il tetto della coop dove si
faceva la spesa era la terrazza di questi qui di fronte. In quel
privilegio lì ci scorazzava un bambino, sempre da solo. Il padre
lavorava in banca, questo seppi un giorno. Mi feci l’idea che la
banca dovesse essere di loro proprietà. Insomma, questo bimbino
della medesima età mia aveva sempre un sacco di giocattoli nuovi,
prevalentemente a tema aerospaziale, che quelli erano gli anni della
corsa alla conquista dello spazio ma anche del telefilm UFO con gli
intercettori e il comandante Streicker che vigliacco se so come si
scrive. C’erano tutte queste marche di modellini “in metallo
pressofuso” recitava la pubblicità su Topolino, e si chiamavano
Dinky Toys, Mebe Toys, Corgy Toys. Io avevo i soldatini Baravelli con
certi difetti di fusione che il fucile sembrava la pala per fare le
pizze. Quello lì, quel bambino lì, aveva invece tutti gli aerei e
le navicelle e le macchinine e anche un casco da astronauta che se lo
infilava e si accendevano le luci con l’intermittenza. A me era
dato sapere di questi suoi averi perché passava il tempo a gridare
“ammaraggio”, “decollo”, “aziona i flap”, nella foga di
far vivere ai suoi giochi avventure mozzafiato. Passavo la giornata
incollato al vetro della mia finestra, con le ginocchia piantate sul
baule che avevo posizionato strategicamente. Così almeno serviva a
qualcosa. Sorridevo quando abbatteva nemici, andavo in ansia quando
annunciava un’avaria, non sapevo cosa cazzo fossero i flap. Lui,
dal canto suo, se n’era accorto e tutto quel circo lo faceva solo
nella porzione di terrazza che stava di fronte a casa mia. Quando mia
madre mi chiedeva notizie di me, nemmeno vivessimo nella reggia di
Caserta, rispondevo “sto guardando Missile”. Avevo iniziato a
chiamarlo così per gioco, quasi una piccola vendetta da pitocco che
irride il re, ma alla fine Missile era diventato il suo nome
naturale, privo di qualsiasi sfumatura. Un giorno, mentre camminavamo
bordo strada con mio padre che poco sapeva di me, passò una macchina
veloce e ci lavò alzando un’onda anomala da una pozzanghera
enorme. Gridai d’istinto “ammaraggio” e mio padre mi guardò
sbigottito mentre i nostri vestiti Postalmarket piangevano lagrime
d’oltraggio. Pensa tu se avessi gridato “aziona i flap”.
A questo punto vale la pena spendere
due parole sui miei genitori. Mia madre arriva da una famiglia di
imprenditori, proprietari di fabbriche, aziende agricole e lusso
ardito. Al contrario mio padre cresce in una famiglia di pescatori e
marinai, mille figli e pochissimi soldi. Insomma una vera storia
d’amore di quegli anni lì. Pino, mio padre, era bravissimo a
scuola ma essendo povero, aveva due possibilità rapide per
continuare a studiare: o diventava prete o entrava nell’esercito.
Visto e considerato che la predisposizione di mio padre, che è poi
cosa genetica che mi ritrovo, mal si accorda coi doveri dell’abito
talare, una volta si beccò pure un Auricchio nella nuca scagliato
dal padre pizzicagnolo di una sua fidanzata, scelse l’esercito. Gli
erano rimaste però le stimmate della sua giovinezza di strada e
ancora adesso se vede un albero carico di frutta non può
trattenersi. La mamma invece cercava di salvare la forma in quel suo
cadere a picco dall’agio alla borghesia piccola piccola, arrivando
a comprarmi un cappello da fantino che secondo lei dovevo indossare
nella vita di tutti giorni. Col cappotto rosso da femmina. Conciato
così mio padre la domenica mi portava a rubare la frutta e a pescare
di frodo nelle valli del Natisone. Quando saccheggiavamo i fiori di
zucca indossavo un enorme paio di guanti da elettricista per
proteggermi da quelle spine sottili sottili. Mio padre aspettava a
bordo strada col motore acceso. Solo ora capisco che nessuno ci
avrebbe mai detto niente per quelle mele stroppiate che si potevano
mangiare solo cotte e certe castagne stitiche ma allora la nostra
tabella dietetica dipendeva molto dal bottino del finesettimana e
dalla prontezza di riflessi di mio padre quando una bestia
commestibile attraversava la strada. A volte ce ne andavamo sul greto
del Torre e recuperavamo cose inutili, tipo un cavo telefonico lungo
qualche centinaio di metri che rimase in cantina per anni. Noi il
telefono l’abbiamo messo nell’ottantasette. Quando sono venuti a
istallarlo il cavo mia madre lo aveva già buttato via e non abbiamo
potuto vantarci.
Una sera mio padre mi svegliò per
mostrarmi il regalo che mi aveva portato. Di solito erano scatole di
Settesere Perugina che erano degli assortimenti di cioccolatini che
vinceva al biliardo del circolo ufficiali. Di solito quando tornava
la sera coi cioccolatini poi i miei litigavano. Un giorno mio padre
ha vinto la medaglia d’oro a boccette e allora le acque si sono
calmate che s’è capito che era uno sportivo vero e non un
tiratardi. Vedi alle volte a trarre subito le conclusioni. Quella
sera però il regalo era davvero merce preziosa: un pallone da
calcio. La marca non me la ricordo ma era tipo i Supertele che sono
quei palloni leggerissimi che costano niente ma in genere si bucano
se li guardi troppo intensamente o se uno fa un rumore improvviso.
Quando si giocava con quei palloni lì, dopo il goal nessuno esultava
per non compromettere l’unità molecolare del Supertele. Insomma mi
ritrovo questo pallone bianco a scacchi neri al centro della mia
stanza, ovvero tra il letto di ferro e il baule di legno, che vivevo
come Ismaele a bordo del Pequod. Non mi ricordo la reazione, so per
certo che non litigai con mio fratello per il possesso dell’ambito
oggetto perché ero ancora figlio unico. Voglio immaginare che
stropicciai gli occhi, percorso da fremiti come i bimbi della
pubblicità del materasso che cantavano bidibodibù e erano tutti
boccoluti. Purtroppo io già da piccolo ero brutto e facevo piuttosto
l’effetto di un randagio che viene svegliato con un secchio d’acqua
ma in ogni caso penso che aprii gli occhi e vidi la mia vita di bimbo
occupata dalla presenza di un pallone da calcio. Da non crederci. Da
non credere soprattutto che mio padre l’avesse comprato alle dieci
di sera. Chissà dove l’aveva recuperato. Non feci domande,
ingombrato dall’unico pensiero del pallone.
Rimasi tutta la notte a fissarlo e di
tanto in tanto mi alzavo, lo toccavo, lo annusavo. Il mio pallone. Il
giorno dopo era domenica e a questo punto della narrazione dovrei
dire “lo ricordo come fosse adesso”. Colazione lampo ingollando
il solito panellatte e fuori, che in casa non si gioca a pallone. Il
cortile divideva il mio palazzo da quello di Missile. A dire il vero
come calciatore ero imbarazzante ma mi muovevo gridando frasi
inconsulte come in una indiavolata telecronaca e sparavo sulla parete
del palazzo. Del palazzo di Missile per la santa precisione. E lui si
affacciò dalla terrazza e rimase a fissarmi e io mi indiavolai cento
volte di più. Poi rientrò in casa e i calci miei divennero quasi
annoiati e stavo già pensando di tornare a casa quando lo vidi. Era
lì, davanti a me, alto come me. Avanzava nel cortile. Missile aveva
abbandonato le sue basi spaziali e i suoi misteriosi flap e aveva
deciso di scendere in cortile colmando lo spazio tra la mia finestra
e la sua portaerei terrazza. Quello che però attrasse la mia
attenzione era il pallone. Il suo pallone. Non una cosa qualsiasi ma
il signore di tutte le sfere calciabili. Il pallone di cuoio, il
Santo Graal di tutti gli eserciti dei campetti rinsecchiti di
periferia. Io e quelli come me il pallone di cuoio nel negozio
cercavamo anche di non guardarlo che sembrava brutto. Insieme alla
bici cross con la radio che stavo cercando di vincere col concorso
delle merendine a cui probabilmente devo il degrado attuale del mio
fisico, il pallone di cuoio era in cima a tutti i miei desideri.
Missile lo posò a terra senza guardarmi e cominciò a tirare calci
maledetti a quella meraviglia di pelle bovina. E ogni volta che
colpiva il muro, del mio palazzo ovviamente, quel rumore pieno era il
segno dell’umiliazione feroce. Mi misi a sedere sul cordolo di
cemento col mio sgalfo pallonastro tra i piedi. Sentivo che
nell’intimo della mia stanza gli avrei voluto bene ancora, come
certi cani che li prendi da piccolo e poi crescono e sono orrendi ma
tu, sdraiato sul divano, gli gratti la schiena di puro affetto,
incurante che con l’età hanno pure preso il vizio di scoreggiare.
Però in quel momento battevo in ritirata sconfitto in impari
confronto. Di colpo Missile parve stancarsi del suo tramestio cuoiuto
e si mise a sedere di fronte a me, con la schiena appoggiata al muro,
il suo muro. Sazio di quelle pallonate corpose. Il pallone lo lasciò
lì, in mezzo al cortile. Quasi non gli interessasse più e
intendesse abbandonarlo. Furono minuti pesanti. Sospesi. Poi mi alzai
e mi accostai alla cuoiopalla. Missile mi guardava stupito. “Posso
fare un tiro” dissi, ed erano le prime parole tra noi. Ancora
carico di meraviglia fece un cenno d’assenso con la testa e non
aveva nemmeno finito che avevo già caricato un puntalone cattivo su
quel pallone di vacca sacra. La botta fu tremenda. Lo presi in
faccia, e giuro che non era nelle mie intenzioni, almeno in quelle
manifeste. Il poveretto andò a sbattere forte con la nuca contro il
muro a cui era appoggiato e si accasciò riverso con un rivolo di
sangue che gli usciva dal naso. Sbarrai gli occhi. Presi il mio
pallone e mi diedi alla fuga. Arrivato a casa dovevo averci l’aria
terrorizzata. Mia madre mi chiedeva con insistenza cosa avessi.
“Missile è morto” dissi a un certo punto rompendo il silenzio. E
dire che m’ero giurato di non confessarlo mai. Mia madre s’allarmò
e mi chiese spiegazioni: “Niente, è venuto giù a giocare e a un
certo punto è morto. Da solo” “Ma dov’è adesso” “Giù”.
Corsa per le scale di mia madre con me al seguito. Missile era ancora
lì per terra e piangeva. Segno che non era ancora completamente
morto, pensai io. Questione di minuti. Mia madre lo soccorse. Non
ricordo molto ma a un certo punto arrivò anche la sorella di
Missile, la stessa che anni dopo ascoltavamo di nascosto mentre
chiusa nella sua stanza col fidanzato faceva delle misteriose prove
ginniche e di respirazione. Chiesi scusa, perché la regola della
palla a Missile prevede che il vincitore chieda scusa sotto lo
sguardo minaccioso della madre.
Qualche giorno fa ho portato mio figlio
a vedere il cortile in cui sono cresciuto a Udine,
adesso vivo a Torino ma ho ancora una casa nei boschi friulani dove torno a cercare buona acoglienza all'emozione. Non ho resistito e sono andato a leggere i
campanelli. La famiglia di Missile vive ancora lì. Sul muro, certo
frutto della suggestione, m’è sembrato di ritrovare le tracce di
quel nostro sport. Uno di questi giorni a mio figlio gli spiego cos’è
un flap che non voglio che arrivi impreparato a certe tappe della
vita.
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