Forse
l’ho già detto ma piuttosto che andare a rileggermi tutto mi
ripeto. Quando c’è stato il terremoto in Friuli, sei maggio del
millenovecentosettantasei, non avevamo più una casa perché la
proprietaria, una che da piccolo mi faceva paura, aveva approfittato
del casino e diceva che lei era in stato di necessità e non aveva
più dove andare e le serviva la casa e noi in strada. Due mesi dopo
il nostro appartamento è stato venduto alla regione e dentro ci
hanno piazzato degli uffici. Bastardi. In ogni caso per mesi la gente
ha vissuto per strada e noi, senza casa, non davamo tanto
nell’occhio. Però i miei per farmi vivere meno il disagio di quel
campeggio infinito, che a me piaceva molto, mi hanno mandato a Torino
da Giovanni, che viveva in Corso Marconi in una casa che era davvero un
campeggio perenne. Mi sono divertito parecchio e Giovanni che non
sapeva esattamente come si gestisse un bambino di undici anni mi ha
dato le chiavi di casa appena arrivato e i soldi per un panino,
consigliandomi vivamente il buffet della stazione di Porta Nuova e
raccomandandomi di portargli un qualche cibo pure a lui. In quegli
anni stava incasinato con le donne, il lavoro e tutto. La sua casa
era piena di libri di fantascienza, piena di libri in generale ma in
quello già casa mia marcava bene. Lui aveva tutti quegli economici
favolosi e ciancicati e io me ne andavo in balcone a leggere e a
tenermi dentro una fame eterna. La mattina uscivo e giravo per
Sassalvario e c’erano le puttane a tutte le ore e io proprio in
quei mesi cominciavo a pentirmi di non aver prestato grande
attenzione a quella bambina che d’estate insisteva per mostrarmi il
culo in cambio di una sbirciata al mio pisello e io l’accontentavo
e me ne restavo lì a fissare quelle chiappe come un televisore
spento. Però quelle puttane lì più che proiettarmi nella nuova
dimensione erotica prepuberale mi sbalzavano indietro all’infanzia
più buia, quella delle megere delle favole che chiudono i bambini
nelle gabbie per ingrassarli e venderli ai comunisti. Giovanni stava
in uno degli ultimi condomini di Corso Marconi, dalla parte del
Valentino e sullo stesso marciapiede c’era un canaro, che vendeva
pure gli animali e io passavo e guardavo dalla vetrina questo tizio
che cotonava i barboncini e pensavo al buon soldato Sc’vèik che
avevo letto nell’edizione Feltrinelli con la copertina gialla.
Trovato a casa di mio padre. Ad Anzio. I canguri, era il nome della
collana ma era anche il nome che gli davo io per capirmi con mio
padre e credevo fosse una cosa del nostro lessico familiare e quando
anche oggi vedo un Feltrinelli col marsupiale a simbolo penso che ci
hanno copiato l’idea. In quella serie ho letto anche il compendio
del capitale di Cafiero ma solo per ritrovare le atmosfere dei
racconti di mio padre che mi descriveva questo nobile pugliese
rovinato dall’idea. Avevo dieci anni e se vi dico che tutto mi era
chiaro mi cresce il naso. Senza contare che sospetto che mio padre
quel libro lì non l'abbia mai letto e tutta la storia che ci montava
sopra deve averla rubata al Bacchelli del diavolo al pontelungo.
Questo però l'ho sospettato solo da grande e mio padre è uno che
racconta un sacco di storie e a volte cade in contraddizione ma io me
lo imparo a memoria pure ora che sono cresciuto e a tavola gli
rifaccio il verso e ridiamo. Come al solito esco dal tema. Dicevamo
che bighellonavo davanti alle vetrine della toelettatura per cani e
avevo questa fissa per gli animali e per i libri di animali e per i
negozi di animali e volevo fare il veterinario e quando mia mamma
m’ha detto che dovevo laurearmi ho pensato che era meglio fare il
guardiano dello zoo. M’avessi ascoltato da piccolo. A questo punto
mi gioco l’asso nella manica che convincerà anche i più dubbiosi
che a me devono darmi le chiavi della città di Torino, che da sempre
sono stato attento a tutto quello che accadeva, pur senza viverci, e
svelo che da piccolo frequentavo molto il giardino zoologico e
rimanevo un sacco di tempo a guardare l’ippopotamo con la bocca
spalancata. Un giorno Giovanni mi ha telefonato, anzi l’abbiamo
chiamato noi dalla cabina, che credo che siamo stati l’ultima
famiglia italiana a mettere il telefono in casa e io chiamavo sempre
dal telefono del pronto soccorso del Policlinico che era vicino.
Insomma Giovanni mi dice questa storia che l’ippopotamo è morto
perché una bambina gli aveva scagliato il Cicciobello nelle fauci
spalancate e quello si era sentito male che, a dispetto della mole,
sono bestie delicate e, siccome io non mi ero laureato veterinario,
non s’è potuto fare niente. Ci sono rimasto male e approfitto per
dire che mi piacerebbe conoscere quella bambina che sarà a spanna
mia coetanea e la guardo in faccia e dico ma perché gli hai lanciato
il Cicciobello e già me l’immagino che quella dice che si era
spaventata e io le credo. A quell’epoca una bambina col cavolo che
si liberava così dell’ambito bambolotto. Magari era Cicciobello
Angelonegro che aveva avuto meno successo e allora è un altro paio
di maniche. Ora, con la cosa del razzismo, non lo possono produrre,
che dovrebbero dire Angelonero e sembra una roba da film horror che
evoca morte e devastazione. Per capirci andate a leggervi
l’Apocalisse e i cavalieri della medesima che ne combinano di tutti
i colori. Con questo però non voglio millantare dimestichezza con le
sacre scritture che per quello che mi riguarda sono qui a cimentarmi
con l’ennesimo vangelo apocrifo. Anzi vi confesso che non credo in
dio così ci togliamo l'ennesimo dubbio. Spesso non credo nemmeno a
Ste, che è bugiarda matricolata, ma sul fatto che esiste non ho
molti dubbi visto che io porto i soldi a casa e lei li spende in
belletti, profumi e gorgonzola di Novara. Soprattutto quest’ultimo.
Le mie passeggiate da
piccolo per Sassalvario mi piacevano molto e guardavo dentro al
panettiere e pensavo che i grissini dovevano essere proprio buoni ma
non avevo il becco d’un quattrino e passavo oltre. Una volta Giovanni, che mi appioppava assurde commissioni per un bimbino di
dieci anni, mi ha mandato alla farmacia di via Gaetano Bresci a
comprare del carbone vegetale e una siringa da insulina. La tipa col
camice bianco mi ha guardato come si guarda un bambino drogato e pure
scorreggione. Mi è andata di culo che quella volta lì a Giovanni gli
erano avanzati dei preservativi sennò li aggiungeva alla lista e
facevo bingo.
Certe volte mi spingevo
fino in via Po, tutto a piedi, e guardavo le vetrine e tutte le
pasticcerie e insomma mi divertivo proprio. Un giorno, l’ultimo
prima di tornare dai miei, ho visto una bancarella al mercato che
vendeva ovviamente animali e mi sono comprato due tartarughe di terra
che sono ancora in ottima salute a distanza di quasi trent’anni.
Nel viaggio le avevo sistemate in una scatola di cartone con la
sabbia del gatto e stavo con l’angoscia che il bigliettaio mi
scopriva e mi faceva pagare il biglietto tariffa tartaruga. A un
certo punto queste bestie hanno preso ad agitarsi e scavavano e da un
buco della scatola ha cominciato a cadere sabbia di gatto. Sulla mia
testa. Le persone dello scompartimento mi hanno fatto notare la cosa
e io rimanevo lì, a guardarli con gli occhi sbarrati e senza
proferire parola. Metteteci che viaggiavo da solo sulla tratta Torino
Mestre e che mi trascinavo dietro un monopattino di legno che era il
regalo per mio fratello e va già bene che non mi hanno consegnato
alla Polfer di Desenzano.
Poi qualche anno dopo alla
trasmissione che si chiamava Samarcanda si vede Sassalvario e io quasi
mi commuovo a vedere quelle strade note. Mi sentivo nel cuore della
notizia e quelli a dire che era tutto una merda e non lo voglio
mettere in dubbio ma a me sembrava che ci doveva essere stata una
qualche epidemia di cattiveria e tutti quei ceffi quando passavo io
dovevano essere in pausa pranzo. Invece mi confermano che erano cazzi
anche allora ma a me non m’era parso. E allora Giovanni era proprio
fuori a mandarmi in giro senza pensiero o forse già davo
l’impressione di quello che sopravvive sempre.
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