Al santuario di Oropa per una santa ragione
E sono rimasto tre giorni nel santuario di Oropa, un'enorme fortilizio
della fede a far da bastione ai sentieri partigiani che corrono alle sue
spalle. a milleseicento metri di quota. il secondo santuario d'Europa a
dominare la valle biellese, teatro di guerre di resistenza e industrie
tessili del miracolo, ancora il miracolo e quindi il santuario è
pertinente, economico con l'ombra della sua miracolosa madonna nera.
Guai a chiederglielo alla chiesa ufficiale il senso compiuto di quelle
madonne nere sparse dal sasso materano alla costa zingara della
Camargue, giusto per citare due luoghi della mia storia e della mia vita
a cui tengo particolarmente. Se gliene chiederai ragione di queste
madonne nere, in ombra di pagani riti fertili sopravissuti, in sospetto
di complesse articolazioni antropologiche del dialogo tra uomo e natura,
ti diranno che le madonne si scurivano per il fumo delle candele o al
massimo borbotteranno vaghi riferimenti all'oriente bizantino
iconoclasta. Non è così importante ora. Per me almeno non lo è. Siamo
rimasti questi giorni in montagna, mentre il freddo della stanzetta che
m'era stata assegnata batteva il tempo sui miei denti la notte e mi dava
misura del corpo ideale della monaca e del pellegrino, così distanti
dal mio a giudicare dall'ergonomia del lettuccio stretto che non sapeva
contenere l'oltraggio adiposo del mio peccare militante. Siamo rimasti
lì, un pugno di folli a raccontarci di didatica e storia e io a giocare
il numero mio di foto e canzoni e parole a filo di memoria e a ridosso
della metodologia della ricerca. Sempre coi modi miei, con
quell'attitudine a dirti che quello che ho da condividere è roba seria e
che quindi è d'obbligo il sorriso. Siamo rimasti lì e c'ero io e altri
come me, parecchi di più di quanti ne avrei immaginati, a inventarci il
modo di insegnare la storia, di cercarla negli indizi minimi, e a dirlo
ficcati nelle sale di un enorme santuario già ti mancava il fiato. La
sera poi ci sono state canzoni, anche eretiche direi, e ancora una volta
non erano solo tempo riempito di tempo battuto ma ennesima prova per la
storia e le storie, per quella cosa lì che passa dall'accademia e dal
saggio ma che per quanto mi riguarda è soprattutto incardinata
sull'esigenza della narrazione sempre, come forma militante di respiro,
di pulsazione coronarica. La notte io e Marco Peroni,
mio fratello di sempre, dopo aver dato ancora bella prova del nostro
mestiere di vivere, che se eravamo lì era anche in ragione del soldo e
non ci può essere vergogna a dirlo che questo è il mio lavoro e questa è
la mia dignità leale, ci siamo girati tutti i corridoi infiniti di quel
luogo enorme e deserto, abbiamo letto il libro del mondo da un ex voto
all'altro e camminavamo scansando i radi fiocchi di neve che cadevano
quasi a rispettare un contratto con i luoghi comuni più triti lì. Sulla
montagna dei pellegrini, di notte e tra le colonne infinite del
santuario. Piantati nel bel mezzo del bosco, con quell'architettura che
dominava la valle e raccontava duemila anni d'esercizio del potere,
mentre una volpe arrivava sul piazzale dal nulla del buio a dirmi che
questo bosco era anche come il bosco mio, quello in cui mi ficco quando
voglio riguadagnarmi alla mia considerazione, quel bosco e quella casa
che pochissimi di voi qui hanno davvero visto. Un'altra storia mia da
raccontare, e altre ne ho rubate a tavola, tra i corridoi e pure spiando
le facce di quegli altri mentre stavo lì, col filtro imbarazzante di
una cattedra a dividerci fisicamente, a raccontare la mia storia, che
proprio di storia si trattava.
Poi son tornato a casa e Ste m'ha
guardato in faccia e ha letto quanto avevo dovuto lavorare col piede di
porco per sollevare la maledetta pietra che grava su una timidezza che
pochi sanni riconoscermi. M'ha baciato, non m'ha chiesto nulla e m'ha
ficcato nella macchina. Mi ha portato da Zichella a Sansalvario, la mia
pasticceria bar preferita, un posto che non troverete nelle guide perchè
le guide son per i boccaloni che camminano guardando il mondo dall'
ipad che gioca con la realtà aumentata e io, dopo quell'assenza
astinente, sapevo riconoscermi un'unica possibilità d'aumento del reale
in certe dimensioni mie basse e intime che forse non lo so ma son pure
queste amore. E mentre ci mangiavamo la nostra torta al cioccolato e
ridevamo guardandoci, un tizio grosso è entrato nel bar ha guardato
sotto il tavolo e mi ha detto "ma quello, il cane, tiene un occhio marrò
e un occhio azzurro". Ho fatto la faccia stupita "come scusi?" "Il
cane, ho detto, tiene un occhio e un occhio (sic). lo vedi... ha un
occhio marrono e uno azzurro". ho guardato a mia volta sotto il tavolo
"oddio, è vero, ha un occhio e un occhio (sic)... non me n'ero mai
accorto... pazzesco" l'ho detto gridando. La gente attorno guardava,
quelli che mi conoscono scuotevano la testa, Ste rideva e voleva
ficcarmi con la faccia nella torta al cioccolato, una tipica reazione a
bivio delle donne. "io me ne ho accorto subbito... appena entrato... io
mi intendo di cani" ci siamo sorrisi e ha ordinato un Campari.
Finalmente riguadagnato alla mia quotidianità. Ho cominciato a
canticchiarmi "nella prossima vita" di Federico Sirianni, che sta diventando la colonna sonora di tutte le stagioni mie. Con immutato affetto, sempre vostro.
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