martedì 14 agosto 2012

per quando morirò




Una domenica se ne stava seduto fuori, con la birra a scaldarsi tra le dita "ma io ci sono abituato, che in Africa la birra la tiri fuori del frigo e già puoi cuocerci la pasta tanto bolle e...". Ancora occhi al cielo. Con la coda dell'occhio percepì un movimento. Dal vicolo. Si voltò e lo vide. Un cazzo di volpino spellacchiato con le occhiaie. Con addosso, ficcato nel pelo, l’odore di pizzelle fritte e brodo di polpo. Juri allungò la mano e lo accarezzò. Col sorriso. L'altro era venuto fin lì per lui. Era l'ultimo della grande famiglia di volpini che anni prima s'era accanito a sterminare con distrazione. Il cane alzò la zampina. Come per grattarsi. Si sentì un rumore di zip. Da sotto alla pancia spuntò una Fox calibro 22, canna cortissima. Gli sparò due colpi in pancia. La birra cadde e Juri rotolò giù dalla sedia del bar. Prima di andarsene il cane alzò la zampa e gli pisciò sulla schiena. Mentre rantolava riuscì ancora ad assicurare che non era niente e che in Africa tutti i giorni gli sparavano nella pancia. Quelli che alzarono gli occhi al cielo lo videro già lì. In strada rimase la Guzzi e l'adesivo del Camping Gabugo. Luccicante come appena attaccato.


L'arrivo in Paradiso non è cosa da poco. Le anime si beccano una maledetta attesa e poi via, quattordici ore di volo. Nel viaggio la gente beve e mangia dei tramezzini di maionese e carne strana. Volpino pensò Juri, che ancora sorrideva all'idea di come s'era fatto fregare da quel rognoso cagnetto pistolero. Certe anime, dall'accento sembravano argentini, passavano il tempo a chiedere del cibo, delle croste di pane, di lebbra, qualsiasi cosa. L'angelo stuart gli tirava i croccantini del cane. Alle anime gli viene un pelo lucidissimo. L'anima di un sordo si sparava la musica a palla nelle cuffiette e non sentiva nulla, che era morto mica miracolato. Un cieco, per buggerarlo, guardava un film col dvd portatile e sorrideva. Juri se ne stava tranquillo, col bicchiere di Cabernet sospeso tra due dita. A ogni sorso vedeva il rosso che scorreva giù fino alla pancia, attraverso l'anima trasparente e poi fino a terra. Il pavimento era una merda. Una vecchia si sentì male ma nessuno la soccorse. Tanto morire non si poteva più. La ragazza accanto a Juri si masturbava da due ore con un barattolo di yogurt da mezzo chilo. Per fare l’amore con il sapore. In bagno c'era uno che s’inchiappettava l'angelo stuart. E non era neppure arabo. In businnes class viaggiano le anime dei volpini morti. "Mi dovrebbero solo ringraziare di avergli fatto il biglietto". Un tipo nell'altra fila sospirava. "Qualcosa non va?" chiese lui, che si sentiva scemo considerando che a uno appena morto non sono domande da farsi. "Cazzo, sono morto e non ho mai visto gli elefanti dal vero". Lui lo guardò stupito. L'altro lo scambiò per un arabo ammiccante e gli sparò un cartone in faccia. In pieno viso. Cazzo, se il volo era per il Paradiso, c’era da chiedersi com’è che si andava all’inferno. "A ognuno è assegnata una Moto Guzzi" rispose al suo pensiero lo stuart sorridente.


All'atterraggio la situazione era ormai precipitata. Il pilota si faceva la ceretta alle gambe e aveva affidato i comandi a due volpini rosso amaranto, variante rara del volpino giallo volpino. L'hostess portava vino a tutti, cani e morti. Al momento di allacciarsi le cinture la sorpresa. Le suddette non c'erano più. Tutti si voltarono verso gli argentini, che sorrisero imbarazzati. Le avevano mangiate loro. Bastardi. I passeggeri furono fissati al sedile con delle gomme masticate in fretta dal personale di bordo. Per i volpini in businnes class si agì con fretta e approssimazione, alla faccia dell'esborso, e li appiccicarono allo schienale con i fogli collosi, che servivano al pilota per farsi la ceretta. Juri non si perse d'animo, si legò al suo posto con la cintura di pitone e cinse la vicina col braccio porco. "stai tranquilla" le soffiò nell'orecchio "a te penso io". Lei aveva smesso di cosarsi col barattolo dello yogurt ma non trovava più il cucchiaino e si frugava con insistenza. "Lo cerchiamo dopo, con calma" fece lui con l'occhio a milleunanotte "ora reggiti a me". Porca puttana. Lei si resse a lui ma quella non era propriamente una maniglia. Lui sorrise disinvolto ma dentro, nell'anima, soffriva e sudava. L'aereo prese terra, lei strinse e lui perse i sensi. Quando rinvenne lei se ne stava andando via con quell'altro, che le raccontava di quando era andato a vedere gli elefanti dal vero. Cacciaballe. Sulla scaletta c'era una lunga fila di maialini rosa che a bordo non aveva notato. Guardò meglio. Erano i volpini che avevano abbandonato le pellicce sul sedile. Sui fogli della ceretta. Si infilò la mano in tasca e lo trovò. Il benedetto cucchiaino.


Li ammucchiarono in una sala col pavimento in linoleum che imitava il cotto fiorentino. Angeli in divisa passavano colla gamba veloce, le ali solo per figura, con fogli in mano e fretta da fax imminente. Un angelo mototaxi se ne stava appoggiato a una colonna da parecchio. Li fissava. Dall'altoparlante una voce impartiva ordini in mille lingue, a lui tutte sconosciute. "Ben arrivati allo scalo di Paradiso. I signori passeggeri sono pregati di passare al controllo anime prima di accedere alla sala ristoro". Questa era nella sua lingua. Poi in spagnolo. Gli argentini si precipitarono verso il corridoio che portava al controllo. Col miraggio del ristoro. Se ne andarono in blocco, vocianti, lasciando scoperto un pezzo di pavimento col linoleum tutto morsicato. Mentre correvano uno si fermò e si chinò a fare una carezza a un volpino spellicciato. Che ricambiò muovendo la codina. Fu un attimo e l'argentino si ficcò il botolo in bocca. Tutto d'un boccone. La coda rimase fuori e continuò a muoversi. Poi sparirono alla vista.
Juri se la prese comoda. Vide una poltroncina libera e si lasciò sprofondare. Il verso strozzato era quello tipico del volpino schiacciato. Lo conosceva bene. Si rialzò e il cagnetto era lì, che muoveva la coda. Juri gli tirò una sberla e lo sbattè giù. E quello continuava a guardarlo e a muovere la coda. Lo schiacciò col tacco del campero pitonato e quando rialzò il piede quello era ancora lì. E sempre agitava la coda. Porca troia, pensò Juri, siamo già morti e quindi in 'sto cazzo di posto i volpini non possono più crepare. Ma almeno che stiano alla larga. Calcio di punta e il volpino volò attraverso la sala. In una frazione di secondo un angelo vestito da Elvis si materializzò davanti a lui. "Ha inavvertitamente calciato il suo volpino". "Mio volpino"."Già, come crede di poter tirare avanti in Paradiso senza un volpino da amare".


Come sarebbe a dire un volpino da amare. Forse Juri aveva capito male e il tipo intendeva un volpino da mare. Guardò il botolo scodinzoloso e cispo che gli saltellava tra i piedi. Già. Un volpino da mare. Gli si ficca un tubo nel sedere e s’immette aria a mille atmosfere e quando il volpino è bello gonfio ci si va in spiaggia a pavoneggiarsi nell'acqua col galleggiante peloso. E sai che successo con le straniere statuarie che affollano le spiagge di questo posto. Tutte generose, altrimenti che cazzo di Paradiso è. "Prego, tocca al suo gruppo. Avviatevi verso il comparto 62". Il gruppo di chi? Ma lui era arrivato da solo. Non intenderanno quella masnada d’apocalittici che avevano volato con lui. E poi gli argentini erano già andati. E mentre pensava, Juri era già al comparto 62. Intruppato con certi altri mai visti prima, tutti col volpino regolarmente tra i piedi. Una donna grassa, avvezza già in vita, il suo lo teneva in braccio. "I signori sono pregati di accomodarsi e di attendere il loro turno". Ma per cosa?
Le poltroncine rosse attendevano il calco delle loro chiappe timorose. Con rassegnazione di mestiere.



E quando il suo nome echeggiò nella sala, con l'altoparlante che piegava in leggerissimo larsen, sempre una ferita per il suo orecchio viziato da certe chitarre sopraffine, quasi non ci credeva. Non il nome di comodo che quel “Luca Rambo” in paradiso non se lo bevevano, ma proprio quello vero, cui non era quasi più avvezzo. Cercavano proprio l’originale. Chiamando a gran voce. Come all'anagrafe, come dal salumiere, in ragione di turno e pazienza. In fila per il paradiso. Si alzò e anche il volpino, il suo volpino, si riscosse con lui. Quel gesto sincrono gli procurò uno strano piacere, una fitta di nostalgia. Prima fischiò e poi se ne rese conto. Il volpino zampettò dietro di lui, brontolando un ringhio di possesso agli altri botoli che, tra le gambe dei loro assegnatari, lo guardavano rispondere al richiamo che era già infinita confidenza. Un angelo con la felpa verde bottiglia gli sorrise e gli fece un cenno. Andiamo a vedere cosa cazzo vogliono da me, si disse Juri. Pentendosi subito d'aver pensato cazzo in Paradiso. Poi sorrise pensando che il cazzo era stato la sua penisola breve nel mare più prossimo al paradiso quando era in vita. "Venga, non abbia paura". Ogni volta che uno gli diceva "poverino" o "non aver paura" a lui montava una rabbia sorda. Da quando era piccolo ed era poverino e pieno di paura. "Fottiti angelo dei miei coglioni". L'altro sorrise e fece per accarezzarlo. Scansò con una finta di corpo e piantò gli occhi negli occhi del cazzo d’angelo. A monito. Rifallo e ti piscio in tasca. Il volpino scoprì i denti. L'angelo, che doveva essere un modello difettoso, gli allungò un calcio. Se è vero che un angelo non muore mai a quello lì gli diedero parecchi giorni di mutua. Lo portarono via reggendolo dalle ali, la felpa sporca di miele d'acacia, che è in pratica lo stucchevole sangue degli angeli. "Lascia stare i vecchi animali della strada e non sfiorare nemmeno coi pensieri i loro volpini" gli soffiò nell'orecchio Juri. Prima di staccarglielo con un morso. L'orecchio d'angelo ha un sapore di petto di pollo e i capelli d'angelo già li aveva mangiati con la minestra da piccolo.
"Ho riconosciuto la citazione dal film. Lascia stare i vecchi animali. Carino. Credo che la sua pratica sarà da rivedere". A parlare era un altro angelo, più alto e con la cravatta. Per un colpo allo sterno concavo di un angelo, ficcato col gomito, basta una frazione di secondo. Già fatto.


Ovvero della totale impunità. Così si immaginava già il sottotitolo di una storia che titolo non ne aveva e nemmeno penne per scriverla, che il Paradiso non ne è provvisto. A saperlo si sarebbe portato le sue e qualche boccetta d'inchiostro. Oppure solo la china e per scrivere avrebbe strappato penne alle ali degli angeli, che lì erano come i vigili urbani e per questo gli stavano pesantemente sui coglioni. Per conferma, bastava buttare un occhio all'angelo bancario con cravatta che rantolava ai suoi piedi. Dell'impunità dicevamo. Appena piantato, di simpatia, il gomito nella leggera consistenza dell'angelo capì due cose: primo gli angeli pesano poco e li sbatti giù con una certa facilità e hai pure l'illusione di sentirti Bruce Lee, secondo in Paradiso sono tutti buoni, lui era lì per un disguido, e più che rimbrottarlo dolcemente non potevano. Cominciò a saltare per la sala come faceva nei bar quando s'era bevuto pure il sudore della madonna dopo l'annunciazione. "Aiemabaicher" gridava e si cercava il coltello col manico d'ulivo nella tasca. E infatti era lì. Le teste di cazzo non l'avevano nemmeno perquisito. Cercò di sfidare un tizio a una gara di flessioni ma il tipo scuoteva la testa e sorrideva dolcemente. Uno buono davvero. E lui in vita aveva avuto contatto con un solo tipo di buoni: i buoni pasto. Saltò sul bancone del centralino e cominciò a fare gesti osceni, scuotendosi forte il pacco a due mani. Si sentì un plin plon come i segnali di attenzione delle stazioni e si aprì una tenda. Ne uscì una tipa vestita come un sogno erotico motaro, tutta di pelle sua e pelle di giubbotto e giarrettiere e la benedetta aquila guzzara tatuata su una tetta quasi tutta scoperta. "Ciao" disse lei. Lui saltò giù e corse a guardare se aveva le ali e era il trucco becero dell'angelo travesto. Niente ali ma un culo con due chiappe disegnate col CAD, che per guardarle toccava averci gli occhiali da sole. "Il capo ti vuole parlare. Seguimi". Tanto il coltello l’aveva. Andò.


Il corridoio era buio e l'unica luce era quella emanata dalle chiappe della tipa. Davvero. I loro passi, sul pavimento in lastre di marmo, rimbombavano come se sotto fosse vuoto. Uguale a quando da ragazzino correva a piedi nudi per i venti metri quadri del suo appartamento, per la gioia di quelli del piano inferiore. Spesso alle sei del mattino, che quando sei piccolo non c'è tempo da perdere. Arrivarono in una sorta di stanza d'attesa. Sul soffitto, volte a vela. Sedie coperte da velluto giallo appoggiate alle pareti. Al centro un tavolino con ammucchiate sopra riviste diverse. Le stesse di quando vai dal dottore. Per tutti i gusti e mai nulla che t’interessi davvero, che le sfogli e pensi che se devi affidare la tua salute ad uno che legge quella roba sei fottuto. Alle pareti un enorme tela raffigurante una scena di caccia o roba simile. Non ci prestò molta attenzione all'inizio. Poi, visto che la tipa l'aveva fatto sedere, era sparita dietro una porta e nessuno veniva a chiamarlo, cominciò a guardarsi in giro. Come al cesso, che, se non aveva niente da leggere, non ci riusciva e alle brutte si passava tutte le etichette dei vari flaconi sparsi e una volta si sparò pure l'opuscolo dei testimoni di geova. Lo sguardo di Juri si posò di nuovo sulla tela. Al centro una tigre con la zanna in bell’evidenza e su di lei si avventavano certi volpini fieri, che sembrava che nel frangente avessero pure la meglio. Minchia. Si ricordò e guardò in terra. Il suo volpino se ne stava lì, sotto la sedia. Appena si sentì osservato, drizzò le orecchie e mosse la coda. Guardandolo con l'occhio da volpino complice. Non si era mai allontanato da lui e, ora che ci ripensava, quando lui aveva fatto il diavolo a quattro nella sala, il botolo l'aveva spalleggiato e s'era dato da fare abbaiando con quella voce stridula e insistente che è tipica della razza. A questo punto era chiaro che il volpino stava dalla sua parte ma non era da escludersi il doppio gioco. Doveva stare in guardia con quelle bestie lì.


"Vieni pure" disse la tipa. Juri sperò di aver capito bene. La luce tremula e violacea delle chiappe si trasformò in un lampeggio rosso. "Mi scusi ma questi pensieri non sono consentiti". "Quali pensieri?" chiese lui, che s'era fatto rosso a sua volta ma senza lampeggiare, che ci vuol tecnica. "Mi ha capito benissimo". Già, come se Juri non avesse sgamato che lì non avevano modo di fermarlo. Perso per perso. Planò sulla schiena della tentazione di carne e finirono sul tappeto a volpini geometrici. Sotto lei non aveva niente. Già, per quanto Juri spingesse e premesse, lei era liscia e priva d'accesso anche minimo. Giocando la panchina, lui aveva tentato un adatto tra le chiappe. Si tirò su con la faccia delusa. Lei non aveva smesso di sorridere. E continuò anche mentre gli faceva il pompino. Tutta quella bontà lo stava uccidendo. Poi lei si rimise in piedi e pescò un pacchetto di sigarette che teneva nascosto nella scollatura. "Fumi?". "No". Il volpino abbaiò e lei gli allungò la cicca. L'altro si frugò nel pelo del sottopancia e tirò fuori un accendino. Juri si ricordò che, allo stesso modo, quell'altro bastardo cisposo l'aveva freddato davanti al bar. Cazzo, pensò, era ovvio che, se mi assegnavano un volpino, il mio doveva essere uno sbandato. Cominciava a fargli simpatia. Il volpino scaracchiò e tirò uno sputazzo sul muro.


L'angela/o si avviò verso la porta sul fondo, facendo cenno di seguirla/o. Lui si riabbottonò. Come sull'aereo s'era visto il vino scendergli giù per la trasparenza dell'anima ora s'era goduto lo spettacolo del suo cazzo opalino in azione. Gli scappava da ridere a pensarci. Che a dire il vero le mani, la faccia e tutto il resto mantenevano una loro consistenza lattiginosa, un pallore accentuato su una carne in pasta vitrea. Dio bono. Era lui ma confezionato con quei plexiglas delle lavagne luminose, quelle per guardare le dia. Da vivo aveva fotografato degli opali e, a seconda di com’erano attraversati dalla luce, cambiavano colore. Fotografarli rendendo giustizia era stata un'impresa. Ora anche lui si ritrovava a cambiare i riflessi, sensibile alle fonti luminose e trasparente come può esserlo un sacchetto del supermercato. Poteva ben dire di averci un cristallo di boemia tra le gambe. Ridacchiò. L'altra si voltò e sorrise a sua volta. Cazzo, è vero, quella gli leggeva i pensieri. Il volpino tirò una scoreggia significativa. "Vabbè che ognuno ha quel che si merita ma 'sto volpino che mi avete assegnato è proprio una chiavica". Il cane scodinzolò e ansimò festoso. Come fanno i volpini che vogliono essere simpatici. "Ma va a cagare" disse lui. "Fottiti" rispose il volpino. Basito. "Ma tu parli". Il cane starnutì e tossì, che quasi si strozzava. Doveva essergli costata fatica quella prova.


Appena l'angelo/a appoggiò la mano sulla porta, che aveva lo stipite dorato giusto per stare in tema con lo stile carico della sala, le chiappe gli/le si spensero. "Fai silenzio adesso e parla solo quando ti sarà richiesto". "Dillo al cane piuttosto" rispose lui, indicando il volpino. Entrarono in una sala buia, rischiarata appena da certe lampadine verdi, lungo il muro. "Non ci posso credere, le lucine che mi lasciavano accese in camera quando ero piccolo". "Ti avevo detto di stare zitto". Dicendo così l'angelo/a si girò e gli tirò un pugno nella bocca dello stomaco. Lui si piegò con un verso strozzato. "Vacci piano" gorgogliò il volpino "lo vuoi ammazzare". "Stai zitto che ne ho anche per te". Il cane abbassò le orecchie e tossicchiò, sempre per lo sforzo che gli costavano le parole ma anche per l'imbarazzo. Cazzo, la musica era cambiata. Pareva che lui e il volpino si fossero giocati l'impunità. "Ve lo dico per l'ultima volta". Allora erano proprio le lucine di quando sua madre veniva nella stanza e minacciava Juri e il fratello col "non voglio sentire volare una mosca" e lui, che pure lo sapeva quanto l'avrebbe pagata cara, non riusciva a trattenersi e lasciava partire nell'oscurità un lungo e intenso "ZZZZZZZZZZZZZZ". Come la mosca. Interrotto dalle sberle ogni volta. E ogni volta lo rifaceva. E suo fratello a ripetergli che era troppo scemo. E lui a pensare che l'onore delle mosche era salvo. E lo fece. "ZZZZZZZZZZZZZZ". L'angelo/a si girò e aveva la faccia incazzata davvero. Partì con un calcio al volto ma stavolta lui era pronto e si giocava il carico intero di tutte quelle altre sberle di quando era piccolo. Era motivato insomma. Si piegò di lato e affondò a sua volta col pugno ficcato nelle palle. Che stavolta stavano lì, al loro posto. Miracoli del Paradiso, cambi stanza e ti spunta l'uccello. L'angelo si piegò e lui gli caricò una mazzata a due mani sulla nuca. L'altro stramazzò a terra. O adesso o mai più. Gli alzò il gonnellino e tra le cosce c'era un'inequivocabile fica. 'Sto cazzo di sesso degli angeli era davvero un problema. Avrebbe potuto giurare che prima aveva colpito un bel groppolone di palle e stecca e ora…quasi, quasi. Non fosse stato fresco di pompino una botta gliela dava. Anzi, ora che ci pensava…. Il volpino, a uso di quella razza lì, si aggrappò alla gamba dell'angela e cominciò a simulare l'amplesso. "Sarei curioso di vedere il tuo pedigree" disse lui, guardando il cane con disgusto. Tra le cosce dell'angela era rispuntato l'uccello. Ma nessuno ci badò più di tanto.


"Non ti sembra di andarci troppo pesante?", chiese la voce. Lui si guardò attorno. Cercava gli altoparlanti o roba simile. "Mi sei simpatico, forse proprio per certe tue reazioni, ma dovresti moderarti un po'". "Ma chi cazzo sei?". "Ogni cosa a suo tempo. Segui l'angelo guida". Si girò. L'angelo/a s'era rimesso in piedi e lo guardava sorridendo. Alla faccia di tutte le mazzate che s'era portato a casa. "Andiamo" disse con la voce ferma, indicando col dito sottile una delle porte. Passarono oltre, in una sala poco illuminata. Distinse le note di Sultan of swing. A volume insinuante. Odore di fumo. Nel senso di canne. Per terra un casino di lattine, giornali e confezioni vuote di cibi sintetici. In fondo alla sala un mucchio di televisori accesi, messi uno sull'altro. Alla rinfusa. Col volume al minimo. E colori e bianco e nero. E tutto quell'odore di canne al vento. Da ogni schermo un film o uno spettacolo diverso. Da un megaschermo, di quelli da partita dei mondiali in piazza duomo, si vedeva una nota presentatrice di documentari sugli animali che teneva in grembo un volpino. Era nuda e il pelo biondo della passera si confondeva con quello del cagnolo. E lei sorrideva, guardando gli spettatori, quei milioni di pupille dilatate, dritto negli occhi e pareva agitarsi parecchio, colla lingua che guizzava agli angoli della bocca e il sedere che strofinava i cuscini pervinca della poltrona. Dietro di lei, sul palco, Jimi Hendrix, doveva essere un sosia pensò lui, che ci dava dentro con Foxy Lady e risultava pure bravino. Quasi come quello vero. "E' quello vero" disse la voce. Lui si girò di scatto per trovarsi davanti a una tenda di velluto nero. "Con quello che mi è costato averlo nel mio paradiso, ci mancava pure che non suonasse come si deve". "Ma chi cazzo sei". "Tu, come potrai intuire, non mi sei costato molto. Uno di quei lotti che ti vendono i trafficanti d'anime da strada, roba tagliata male, con una decina di vecchi barbogi mischiati a certe anime gaglioffe messe lì a far peso. Gli altri, i titolari degli altri paradisi intendo, si fanno tentare raramente, che poi a rimettere ordine ci vuole il suo tempo, ma, visto e considerato che il rischio di beccarsi proprio i peccatori veri, gli assassini matricolati, i proprietari di reti televisive, i dittatori cannibali, è decisamente basso, quella è merce ambitissima ai piani inferiori, io qualche pacchetto tutto compreso me lo faccio rifilare di tanto in tanto. Non ci crederai ma lo trovo divertente. Quando smistano gli arrivi mi diletto a individuare i difettati, quelle anime che non sono mai state grandi in niente ma nemmeno si sono distinte giocando nella nazionale del male. Te ti si sgama subito, caro mio. Avrei potuto dare un occhio alla tua esistenza e la cosa non mi riesce complicata da quando faccio il salvataggio dati. Prima, ai tempi di Miracle 3.1 per intenderci, era un casino. Toccava affidarsi alle mie stanche meningi o a certi appunti che prendono le segretarie angelo ma…". Una suoneria, una di quelle trillanti che partono al cinema, nel buio della sala, o in treno, negli scompartimenti addormentati. "Scusa un attimo" disse la voce. A fissare la tenda nera c'era poco guadagno da aggiungere allo stupore che a Juri correva in circolo a tutta pressione. Guardò di lato e vide il volpino. Aveva un joystick tra le zampe. Juri si voltò col riflesso condizionato, tipico di chi il diploma se l’era preso alla sala giochi Automatic di via Cividale, verso lo schermo. La bionda nuda lottava contro il Jimi Hendrix. Lei lanciava dei raggi fotonici dalle tette e lui rispondeva con certi bemolle e diesis che partivano dall'amplificatore a raffica e distorti a morte. "Se vince lui se la chiava" rugnò basso il cane. "E se perde?" "Se lo chiava lei". Per forza, se la sua non era un'anima veramente pura, anche il volpino assegnato doveva essere di scarto. Magari gli altri parlavano fluenti e senza tutto quello sforzo e non si sognavano nemmeno di far accoppiare col videogioco una presentatrice di documentari, la sua preferita, e un chitarrista, il suo preferito. Dall'altra parte della tenda si sentiva gridare. Ma in una lingua sconosciuta. "Mi piace venire qui a giocare" il volpino prendeva confidenza colle parole "con questo schermo si vede da dio" e scoppiò in una serie di singhiozzi che gli fecero cadere il joystick di mano. Il mentecatto volpino stava ridendo, pensò lui. Poi il cane s'accorse che nel gioco le mazzate continuavano anche da sole, afferrò il joystick ma ormai la bionda stava sferrando un ultimo fatale colpo di clitoride laser al chitarruto che pure, nel tentativo di parare, aveva usato la sua Stratocaster come scudo. E la chitarra prese fuoco e le dita presero fuoco e tutto fu cenere. La bionda fece segno di vittoria con le due dita, poi ne ritrasse una e col dito rimasto alzato rese palese che di lì a poco si sarebbe apprestata a riscuotere il suo premio.


"Spegni quella porcheria" tuonò la voce dietro di loro. Press the green button. Game over. Il volpino aveva abbassato le orecchie. Tutta la sua aria da volpinastro vissuto era sparita in un lampo. Il tipo dietro la tenda doveva averci il suo carisma. La tenda si mosse, dietro stava avvenendo qualcosa di convulso. “Come cazzo funziona qui… mai una volta… Angela, Angelaaaa. Possibile che qui non funzioni mai un cazzo di niente. E io continuo a firmare spese di manutenzione”. “Lasci fare a me”. La voce era quella suadente della tipa/o che lo aveva accompagnato fin lì. Ora che ci pensava, mentre il volpino si accaniva col videogioco e l’altro dietro la tenda cercava di dargli ragione della sua condizione attuale, l’angela era sparita. Si sentì un cigolio e la tenda pesante si scostò. Come un sipario. Si capiva che tutto era preparato per stupire. Un occhio di bue si accese ronzando sul soffitto. “Eccomi a te” sentì dire. E non distinse niente che non fosse un pezzo di pavimento d’assi. Polveroso quanto basta. “Luceeehh” la voce aveva preso una piega decisamente isterica. L’occhio di bue si mosse e non sembrava troppo convinto di quale fosse il suo compito. Poi, tremulo, si piantò sulla poltrona vuota. “Aspetta, ho dimenticato il piviale… spegni… si va bene, a ‘sto punto tanto vale che mi metto in mutande e ci faccio una figura migliore. Richiudi quella cazzo di tenda. Mai una volta che riusciamo a farla bene ‘sta scena della rivelazione. Scusami ora la rifacciamo”. Questa doveva essere rivolta a lui. “Siamo pronti” sussurrò l’angelum, che andava meglio declinarlo neutro e scansare i dubbi sul genere. La tenda si scostò di nuovo e partì una specie di sigla, una musica simile all’inno dell’Atalanta. Sempre che si riuscisse a fare l’orecchio all’abbaiare ossessivo. Già, il coro lo facevano dei cani, parecchi a giudicare dal casino, ma da come s’interruppe di colpo il pezzo lui intuì che era roba preregistrata. Fu la luce. L’occhio di bue si piantò sulla poltrona di prima, che ora era occupato da un pupazzone indefinibile. Juri strinse gli occhi, cercando di distinguere qualcosa. Aveva di fronte un enorme volpino, una roba più vicina a un carro del carnevale di Viareggio che all’animale che in quegli anni aveva, volente o nolente, imparato a distinguere anche a distanze considerevoli. Il grottesco cane era avvolto in un paramento pesantissimo e poco lavato, con lustrini e brillocchi che se la godevano con la luce potente del faro puntato. In mano, a guisa di scettro, stringeva un osso dorato di gomma e il capo era cinto da una sorta di corona con le luci come quelle degli alberi di Natale. L’odore attorno era quello tipico di cane bagnato. Gli occhi del megavolpino, addobbato come il papa, erano sporgenti in una maniera innaturale. Anche per quella razza lì, che pure pare abbia le pupille come biglie impazzite. Nel grande flipper della vita. “Vieni pure avanti” gli fece quello, con la zampa che gli faceva segno d’appropinquarsi. Come i volpini che danno la mano. Juri si avvicinò e lo vide meglio. La medesima zampa il volpinazzo se la ficcò nella mutanda e cominciò a frugarsi mentre, posato l’osso scettro, con l’altra mano si dava da fare a scavarsi l’orecchio col tagliacarte. “Allora, scommetto che eri curioso di incontrarmi”. “ A dire il vero non sospettavo esistesse niente di simile a te” rispose Juri. “Già, mi dimenticavo che sei pure ateo. Va bene, tagliamo la testa al toro, io sono dio.” Rimase a guardarlo per studiare un qualche segno di stupore ma dopo tutto quello che gli era capitato nulla più poteva creargli grandi stravolgimenti, nemmeno un volpinone polveroso e maleodorante che sosteneva d’essere dio. “Forse per te sarò maleodorante ma sappi che tra i volpini il mio odore è considerato paradisiaco.” S’era dimenticato che quell’altro poteva leggere nel pensiero. “Faccio portare qualcosa da bere? David”. Comparve un tipo parecchio zarro, con la sciarpa della Juve al collo, la faccia devastata dall’acne e lo sguardo spento. E lui per un momento s’era immaginato che gli sarebbe comparso quell’altro, quello che aveva fatto un culo tanto a Golia. Ma no, a giudicarlo così, questo David qui, appena entrato in scena, a nominargli Golia avrebbe risposto che non gli piacevano le liquirizie. “Dio fa” disse, con voce ottusa, confermando il sospetto iniziale. “Non ti sopporto” squittì isterico il dio volpino “sono sette anni che lavori alla centrale logistica e tutto quello che sai dire è sempre e soltanto dio fa. Ma cosa cazzo vuoi che faccia, dillo una santa volta. Sono il creatore, l’essere supremo, ho un curriculum di novanta cartelle e parlo pure diverse lingue. Non ti basta.” E, per rafforzare la stizza, il volpinone che diceva d’essere dio afferrò un busto di pietra che teneva sulla scrivania, una scultura che magari aveva pure il suo bel valore di mercato, e la lanciò contro la parete di fronte. Colpendo il monitor gigante. Che esplose con grande fragore. “Dio fa” disse il mentecatto guardando il disastro. “Forse tu puoi capirmi” disse il dio volpino rivolto a Juri “sono anni che ripete solo quella frase e non mi è chiaro nemmeno cosa intenda. Per lui sono stato più di un padre, l’ho accolto nella mia casa, l’ho fatto dormire nel mio letto.” Pausa. Il volpinazzo struffo mentre citava il letto aveva avuto un sussulto e era rimasto lì, con la zampa sospesa nel gesto. “Lasciamo stare. Avremo modo di conoscerci meglio. E tu, vacci a prendere una bottiglia di quel Merlot che ci siamo accaparrati con l’arrivo nel nostro Paradiso di quel viticultore friulano.” Tutta la scena era stata recitata con il cane-dio che aveva una voce stridulisterica che nei picchi peggiori si perdeva nelle frequenze degli ultrasuoni. Quelle dei fischietti per i cani, pensò lui. L’altro, il dio volpino, aveva ripreso quello che avrebbe dovuto essere un sorriso e lo guardava con un certo compiacimento. “Allora cosa te ne pare.” “Di cosa?” “Ma di tutto questo, è ovvio.” “Mi pare che se questo è il Paradiso è parecchio approssimativo e forse sarebbe bene che qualcuno scendesse da quegli altri, quelli aggrappati ai rosari, quelli che grattano con la zampa pentita alla grata del confessionale, quelli che non desiderano la donna d’altri, quelli degli atti impuri, e gli dicesse almeno di rilassarsi che, se aspirano a venirsene qui a passare l’eternità, è bene che sappiano che i lavori sono ancora in corso e proprio di pace eterna ancora non si può parlare.” Mentre diceva queste cose gli scappava pure da ridere. L’altro invece aveva preso una piega seria del muso e si scovolinava con frenesia le narici col tagliacarte. “Capisco quello che vuoi dire, ma sai quanto costa mantenere tutto questo. Noi produciamo cultura. Noi siamo cultura.” Queste ultime due frasi, scandite con l’occhio vitreo, dovevano essere una sorta di copione fisso. “Che cultura” chiese lui. “La cultura” rispose l’altro. E rimase lì con lo sguardo fisso. Si riprese con un sussulto, aprì una scatola di legno che teneva sul tavolo e si strofinò un unguento dal forte odore balsamico sulle guance. “I paradisi sono come centri commerciali. Per i primi era tutto facile. S’imbastiva un piano di mercato, s’inventavano dei testi sacri, si trovava il modo di veicolare con l’apparato di messia, profeti e maestri e si acchiappava una bella fetta della torta. Volenti o nolenti tutti dovevano passare da lì, i paradisi e relativi inferni erano un passaggio obbligato. I primi dei erano ancora poco abili nell’attività promozionale ma poi c’è stata l’era dei grandi comunicatori, tipi tosti col senso dell’umorismo, che sono arrivati a dire ai loro adepti che per accedere al paradiso bisogna tagliare la punta del pisello ai bimbi o negarsi il piacere di un salsicciolo o di una fetta di pancetta coppata. Giusto per vedere se quegli altri, gli uomini, arrivavano a seguire qualsivoglia comandamento o dettame. Roba da pazzi. A pensarci ancora non ci posso credere. Poi c’è stata, per così dire, una certa liberalizzazione del mercato. Le necessità dell’uomo moderno si sono andate via via definendo sulla base di sottili divisioni sociali e politiche. All’interno delle fedi massa c’è stato un proliferare d’altri credo. Più o meno plausibili. C’erano quelli che cercavano la forza interiore, quelli che rifiutavano la trasfusione, quelli che trombavano le galline. Un universo indistinto e confuso. E ogni volta c’era da inventarsi un paradiso plausibile, visto che la gente non poteva concepire come ricompensa gli eterni cori angelici. Almeno non dopo la comparsa sulla terra dei Rolling Stones. Per non parlare delle novantanove vergini. T’immagini la fatica di spulzellarle tutte. O il casino di farsi il bagno in un fiume di miele. Mancavano solo le case di marzapane e si faceva tombola. A questo punto, superato col minimo dei voti l’esame d’ubiquità, decisi di discutere la mia tesi dal titolo “Il dio cane. Teoria e tecnica della comunicazione della fede volpinica”. La media era bassa e lo stesso relatore poco convinto ma a me interessava quel pezzo di carta per potermi mettere in proprio. Mio padre aveva investito tutto in un’area che il piano regolatore non aveva ancora inserito nelle zone da adibire a paradiso. Unsi gli ingranaggi giusti e mi mossi a tutti i livelli e nel giro di quello che per voi possono essere settecento anni e per noi sono nulla di fronte all’eternità, mi ritrovai titolare di una licenza d’esercizio divino. A quel punto, e siamo ai giorni nostri, anzi per meglio dire tuoi, che per me la scansione cronologica ha un altro sistema convenzionale di calcolo, mi ritrovai titolare di un’area paradisiaca. A quel punto c’era da stipulare le convenzioni con i campi profughi del purgatorio e, più in giù, con qualche istituto di pena eterna. Per farlo c’era da definire premi e peccati. Mi ci misi d’impegno ma non ero mai stato bravo in materie umanistiche e la mia dottrina, una volta ultimata, mostrava gravissime lacune ed era in alcuni punti contraddittoria. La commissione apposita me la bocciò quasi totalmente, salvando le parti di premessa sul culto del Sacro Volpino e dando per buoni anche certi presunti manoscritti antichissimi che avevo confezionato con l’aiuto di un vecchio stampatore che nei suoi giorni migliori era riuscito a piazzare una dozzina d’efficacissime tavole a Nostrosignore, uno dei più quotati sul mercato. I rotoloni sul culto del dio cane, con tanto di disegni esplicativi, che poi il resto era scritto in un misto di lingue morte e col quoziente intellettivo medio che regna sulla terra c’era poco da fidarsi che qualcuno ne capisse il senso al volo, furono piazzate in una cantina di un supermercato. Sperando in un fortuito ritrovamento. Li usarono per incartare certi pacchi, che furono spediti chissà dove. Allora provammo con gli scavi archeologici. Una spedizione in Turchia ci sembrò l’ideale. Cercavano una grossa barca che, secondo loro, aveva contenuto due esemplari di qualsiasi essere vivente e che si era poi incagliata in mezzo alle montagne. Ci sembrò, e parlo al plurare, che all’epoca si era unita ai miei sforzi quella che poi sarebbe diventata mia moglie, che gente disposta a credere a certe fregnacce poteva sicuramente prestare attenzione a dei veri manoscritti svelatori di culto. Piazzammo i rotoli al centro del loro percorso, proprio in mezzo del sentiero. Li trovarono le due guide curde e li infilarono nei loro zaini. Forse pensando di sottoporli all’attenzione degli archeologi. Non lo sapremo mai perché i due furono massacrati dall’esercito regolare turco. I loro corpi, bagagli compresi, furono gettati in un profondo crepaccio e dei rotoli non s’ebbe notizia. Ammesso che si siano salvati dai colpi di mitra. A quel punto ero rimasto senza copie e con quello che mi erano costate non me la sentivo di rischiare ancora. Rimasi per giorni a pensare e alla fine ebbi l’illuminazione. Altri dei avevano affidato la diffusione del loro prodotto a rappresentanti, di volta in volta identificati come profeti. Uno dei successi migliori era stato però quello ottenuto mandando sulla terra un rappresentante di culto regolarmente iscritto all’ordine ma pubblicizzandolo come figlio di dio. Decisi di fare le cose in grande. Con mia moglie le cose andavano bene ma, considerato che sono dio e le leggi le faccio io, presi altre centododici concubine e mi diedi da fare. Le cucciolate non si fecero attendere. E io cominciai a invadere la terra di volpini che dovevano morire in nome mio. Come redentori. Per non disperdere il verbo scelsi alcuni soggetti cui destinare il messaggio e ogni volta che un volpino moriva inascoltato, e comunicare non era facile, un altro era pronto a sostituirlo. Dotai ognuno di un volpino custode ma visto gli inconvenienti cui andavano incontro i miei figli, portatori del guaito sacro, decisi di assegnare il suddetto alle anime solo una volta che le stesse fossero giunte in paradiso. Per ora non ho ancora ottenuto molto seguito, anche se le gesta di un mio figliolo inviato nel deserto australiano e venuto in contatto con alcuni aborigeni fanno ben sperare. Così sono costretto a comprare le anime per popolare il mio paradiso, scegliendo tra i lotti di quelli che non si sono troppo applicati in nessuna fede e anche lì, come nel tuo caso, a volte ramazzo anime dubbie, solo perché sono state comunque oggetto di tentativi assidui di redenzione, a suo tempo, da parte dei miei innumerevoli figli. Tu sei uno di questi.” Juri rimase in silenzio. Non c’era motivo di non credere al volpinone spelacchiato. Soprattutto dopo tutto quello che aveva già visto. “Perché avete scelto me?” chiese. “Oh, è la parte più semplice. Prendevo le guide del telefono, aprivo una pagina a caso e piantavo un dito sul nome tenendo gli occhi chiusi. Pura fortuna.” La chiamava pure fortuna. Tutto quel morire di volpini. “Ma allora come si spiega quel volpino che mi ha fatto fuori.” “Quando qualcuno accetta di entrare nel mio paradiso, lo fa accogliendo tutti i precetti del mio credo e ti assicuro che sono cose blande rispetto a certe altre fedi guerriere. Poi si ha diritto a esprimere un desiderio. In un certo senso la tua morte era il premio per qualche nuovo assunto in cielo. Ma nulla ti sarà svelato prima del tuo ingresso. Accetti d’essere anima nel paradiso del Dio Cane?” Chi avrebbe potuto volere la sua morte come ultimo desiderio in terra. “E se non volessi?” “Ti rispedisco ai campi di raccolta del purgatorio.” La prospettiva non gli pareva molto allettante. “Vabbè, accetto” “Ne ero sicuro, sei uno sveglio. Ora il tuo volpino ti porterà alle camere di catechesi. Rilassati e tutto passerà veloce. A breve sarai membro ufficiale del nostro paradiso. Complimenti per la scelta. Ora scusami che ho da accogliere un mucchio di argentini famelici che non so come cazzo sono finiti qui e se non mi sbrigo mi mangiano tutta la tappezzeria. Ci rivedremo alla Grande Cagnara.” Il siparione calò e si sentì un tramestio misto a ringhi e frasi sconnesse in una lingua impossibile.


Seguì il volpino lungo un corridoio con le pareti dipinte verde fluo. Chi si occupava dell’immagine doveva fumare qualcosa di veramente potente. Arrivarono in un salone che sembrava la sala d’attesa della mutua, con certe seggioline, scomode per principio e dei divisori che erano il confine marcato tra un reparto e l’altro, o tra un malanno e l’altro. Dopo di lui entrarono schiamazzando una trentina di individui scalmanati. Sembrava una tifoseria scalcagnata che entra in un autogrill. Li riconobbe. Erano gli argentini. I loro volpini, coperti da segni di morsi recenti, si affannavano a tenerli a bada e ci sarebbero voluti dei pastori maremmani. Uno lo riconobbe e accennò a salutarlo ma lui si girò dalla parte opposta. “Fai bene a non cagarli, sono uno dei peggiori lotti che il rimba abbia mai tirato su.” “Il rimba?” “Si, noi lo chiamiamo così il tuo dio volpino.” “Ma non è il padre di tutti voi.” “Di quasi tutti, ma va a sapere, le mamme certo non sono delle sante e quelli del reparto infernale sono dei demoni.” “Ma adesso parli abbastanza bene.” “Hai accettato di entrare in Paradiso e questo è il primo passo. Continuo a emettere i miei uggiolati e versi volpineschi ma adesso tu li capisci. Prima, quando mi sforzavo di parlare il tuo linguaggio, per poco ci lasciavo le tonsille.” “Ma i volpini hanno le tonsille.” “E che cazzo ne so io, chiedilo a un veterinario. La preparazione di base di un volpino custode è in proporzione a quella del suo destinatario e quindi io non so un cazzo di niente.” “Grazie.” “Figurati.”
Intanto il volpino s’era fatto largo nella calca ed era arrivato davanti alla porta dove c’era un’angela del tutto simile a quella che lo aveva guidato al suo arrivo. Si guardò attorno e vide che come lei ce n’erano altre trenta almeno. Si risparmiò il saluto. “Che c’è” disse lei guardandolo fisso negli occhi e attivando quella voce vellutata che lo mandava in delirio ormonale “fai finta di non riconoscermi. Eppure mi pareva che non ti fossi del tutto indifferente.” “Scusa, ma siete tutte uguali.” “Davvero carino” mormorò lei con un sorriso sarcastico “Lo porto dentro” le disse il volpino.” “Allora si è deciso.” “Pare di si.” “Passa.”
Entrarono in una stanza più piccola, con un tavolo e una sedia. “Mettiti tranquillo, sarà cosa di un attimo.” disse il volpino.
Attese diversi minuti. Una porta sul fondo si spalancò ed entrò indaffarata un’altra angela con un cortissimo camice aperto generosamente sulla scollatura. Lui sorrise indeciso. “Buongiorno e benvenuto al corso di catechesi.” “Buongiorno a lei.” “Forse potremmo darci anche del tu, considerato che non è la prima volta che c’incontriamo, ” fece lei ammiccante. “Ah, scusa, sei di nuovo tu, credevo fossi addetta all’accesso alla stanza.” “Tutti così voi uomini. Aspetta che mi faccio portare la tua documentazione.” Premette sul pulsante di un interfono a muro e disse “Pratica 4544LG.vol”. La porta si aprì di nuovo e entrò un’angela del tutto identica alla prima, vestita di una aderentissima salopette in latex rosso con i glutei scoperti. “Buongiorno” disse l’angela segretaria. “Salve” “Sono contenta che ti sei calmato, ho avuto il mio bel daffare a tenerti a bada prima.” “Ma allora era lei” “Puoi darmi del tu, in fondo ci conosciamo abbastanza bene o forse hai bisogno di un promemoria” e così dicendo l’angela si girò mostrandogli il culo scoperto. “Anche con me ha detto di non ricordare”, disse ridendo l’angela dottoressa. “Fanno tutti così.” “Già.” Lui le guardava stordito. “Lasciale perdere, si divertono a fare le troie ma non sono cattive” ringhiò da sotto il tavolo il suo volpino. “Va bene, passiamo alla sua pratica. Credo che il trattamento di base per lei sia più che sufficiente. Non per altro ma mi pare piuttosto frenato nel recepire le novità. Se ci fossero problemi, possiamo incrementare con una serie di sedute Igaf, ma credo non ce ne sarà la necessità.” Poi l’angela si abbassò sotto il tavolo e disse al volpino “Portalo al padiglione di Esperia.” La vide sparire sotto il mobile e di lì a poco distinse gli armeggi che preludono al pompino. Lasciò fare. Per pura cortesia.


Il padiglione Esperia era un parco pieno di piante belle e rare e panchine e fontanelle. Sembrava di stare in una di quelle località termali dove la gente si aggira con degli enormi boccali di acqua putrida che però fa parecchio bene alla salute. Tutti hanno l’aria di stare in paradiso e sorridono malgrado il disgustoso odore della spremuta di zolfo che pure sono costretti a trangugiare. Quell’aria, per quelli che stavano lì, era pertinente. Si trovavano in Paradiso. Senza nemmeno la scocciatura del boccale d’acqua termale. “Aspetta qui” disse il volpino, indicando col muso un’altalena. Juri non sapeva se si trattasse di un ordine da mettere in relazione con la catechesi o più semplicemente era l’ennesima puttanata del suo volpino scarto. Senza sapere né leggere né scrivere si mise a sedere sulla tavoletta di legno e si lasciò dondolare mollemente. Non era riuscito mai a farla andare a dovere l’altalena. Nemmeno da piccolo, quando s’ingaggiavano dei duelli in parallelo a chi arrivava più in alto, lui restava con le gambe anchilosate che s’irrigidivano per imprimere il giusto moto pendolare. Senza successo. Per non parlare del timore sacro che gli incutevano gli scivoli. Attese parecchio e si stufò pure di dondolarsi. Si sdraiò sull’erba e poco alla volta si lasciò andare al sonno.
L’alito del volpino direttamente inalato a pochi centimetri dal naso non è il migliore dei risvegli ma per uno che si era addormentato anche nel tubo di scolo delle fogne di Saragozza fu sopportabile. Tanto morire non si poteva. “Alla buon’ora” gorgogliò il volpino, che adesso gli pareva pure di riuscire a distinguere nel brulichio d’altri cagnastri lì attorno. “Sono andato a cercarti una somministratrice del Sacramento Unico ma c’era la riunione sindacale e me ne sono andato allo spaccio a bere qualcosa.” “Potevi chiamarmi.” “Non ti allargare. Va bene che sono il tuo volpino custode ma mica posso portarti allo spaccio dei volpini. Se non altro perché è a misura nostra e per entrarci dovresti strisciare.” “Se vuole qualcosa di fresco ci sono io” disse l’angela somministratrice di sacramenti che il botolo s’era trascinato dietro. Tutta nuda. Aveva il cazzo e le tette. Ancora l’incredibile sesso degli angeli. Stavolta Juri cercò di non cascarci. “Ciao, ci si reincontra continuamente oggi” disse gioviale. “Cerca di non prenderti troppe confidenze” rispose lei/lui con l’aria d’essersi innervosito/a e una inequivocabile erezione cominciò a cambiargli la volumetria di certa parte del corpo. Juri s’ammutolì. “Bando alle ciance” intervenne il volpino “ ora tu riceverai il Sacramento Unico e diventerai ufficialmente un’anima di questo Paradiso. “Ma in cosa consiste“ chiese lui titubante, senza smettere di guardare il cazzo dell’angelo che cresceva a dismisura. “Rilassati, vedrai che ci farai l’abitudine e alla fine ti piacerà.” L’esperienza carceraria di Juri non era trascorsa invano. Si alzò in piedi e si mise in posizione difensiva. A gambe larghe e con la guardia alta. “Stammi lontano.” L’angelo sorrise e il pene, rosso come un giaggiolo, si ritirò repentino e fu inghiottito dal ventre che si trasformò in un’inequivocabile passera rasata. Con tanto di tatuaggio sul monte di Venere. Poi l’angela si voltò, mostrandogli le terga e abbassandosi a frugare in una borsa sportiva che si era portata dietro. E ora era proprio palese che si trattava di una femmina. Questi cazzo di angeli cominciavano a fargli perdere la pazienza. Lei si risollevò. “ Strano” disse “pensavo che avresti approfittato di me.” “Ne ho le palle piene di approfittare. Ditemi cosa c’è da fare e tagliamo la testa al toro.” “Come vuoi” l’angelo stringeva in mano una scatoletta simile a quelle grosse di cibo per cani. Si sedette a terra con il barattolone in grembo, frugò ancora nella borsa e tirò fuori un apriscatole. Armeggiò col coperchio e quando la scatola fu aperta gliela porse. “Mangiala tutta. Questo è il tuo Compito. Il mistero si compia in Terra e in Ciotola e oltre ogni segno del Cane Assoluto. Ululiamo al cielo.” Nel barattolo c’era davvero cibo per cani. L’odore era inequivocabile e ributtante. L’etichetta recitava “con carne” e c’era da chiedersi cos’altro era il resto, se quello che pareva uno spezzatino aveva la carne come special guest. “Non ho nessuna intenzione di farlo.” “Allora non sarai idoneo” intervenne il volpino “e verrai spedito di corsa al purgatorio, che nel tuo caso è un campo profughi al confine col paradiso israeliano.” “Vorrai dire il paradiso degli ebrei.” “Macchè, quella è una roba seria. Certi israeliani si sono inventati il credo del territorio e quelli di loro che abbattono una casa con una ruspa o stroncano con una raffica un bimbo vi accedono senza problemi.” Cazzo, non era il caso di finire in quel purgatorio. “Avete almeno una forchetta e qualcosa di forte da bere.” “A te la posata” fece l’angelo sorridente “e una fiaschetta di ambrosia, la bevanda degli dei.” “Avrei preferito una bottiglia di Refosco.” “Fa parte del rito” ringhiò basso il volpino.
A dire il vero i bocconi di cibo per cani non erano male, masticando sentiva il trito fino di ossa, probabilmente di qualche incredibile bestia morta, scartata da tutti i macelli del reame. Se questa era la prova, si poteva anche superare. “Mangia, mangia” disse il volpino con ghigno canzonatorio “vedrai che bel pelo lucido ti verrà, vincerai un bel po’ di concorsi e ti accoppierai con le più premiate della tua razza e i tuoi figli saranno venduti a peso d’oro.” “Fottiti.” Juri afferrò la fiaschetta di ambrosia e bevve un grosso sorso. Quella si che era merda pura. Un sapore stucchevole che andò a impastarsi con quello dei bocconi per cani. Con esiti devastanti per le sue papille. “Dio cane che schifo.” “Vedo che comincia a fare effetto, hai invocato il tuo Dio Giusto. Bene, sei pronto.” Posò in terra il barattolo. “Che fai,” intervenne il volpino, “la scatoletta la devi finire.” Mai una volta che si faceva i cazzi suoi quello stronzo di cane.
E furono minuti lunghi anche per uno che si stava garantendo la pace eterna. Forse.


L’angelo era identico a tutte quegli altri/altre che avevano impegnato la scorta ormonale di Juri e allo stesso tempo l’avevano riempito di dubbi sul sesso reale di quelle creature paradisiache. “Ora sei pronto” disse solenne, sollevando appena la minigonna in pelle nello slancio del declamare. “Hai dimostrato d’essere degno e sei fortunato. Da lunedi scatta la nuova selezione e questa puttanata della scatoletta del cibo per cani verrà sostituita da un test psico-attitudinale di miglior serietà. Ora varca pure la Porta ma prima ti chiedo di esprimere il tuo desiderio, dono del nostro Eccelso agli illuminati. Non dirlo, pensalo soltanto e se possibile ti accontenteremo. Facciamo del nostro meglio ma non è che possiamo fare miracoli.”


Ad accompagnare Juri alla porta ci pensò il volpino. Attraversarono un campo da golf con l’erba arancione e poi salirono su un trenino a carbone. Viaggiarono per una mezz’ora circa. “Scendiamo, è la nostra fermata. Sbrigati.” “La stazioncina sembrava quella di Ferrandina e di tutti quei paesini dove hai la sensazione di varcare un labilissimo confine mai tracciato davvero ma presente e le facce impassibili di quei pochi attorno non ti vogliono dare la soddisfazione della conferma. Passarono la sala d’aspetto. D’aspetto triste. Passarono l’androne. Passarono il parcheggio dei taxi. Parecchio vuoto. Camminarono su una strada in mezzo a campi di soia, con certe cimici di campagna che affollavano il bordo della strada e schiacciandole producevano un lezzo insopportabile. Arrivarono infine a un cancello in ferro battuto. Il volpino spinse col naso su una tastiera componendo una combinazione. Sbagliata. La porta rimase chiusa. Riprovò altre volte, sudando di lingua, come suda un cane di quella razza lì. Al quinto tentativo la porta cigolò e si aprì. Col lampeggiante giallo del cancello elettrico a segnalare il pericolo di organi in movimento.
Eccoci arrivati” disse il volpino affannato “ora prosegui sempre dritto, il Paradiso è lì. Io passo all’ufficio accettazione a sbrigare due pratiche, ci rivediamo dopo.” Lui fece un cenno di saluto ma l’altro si era già voltato e zampettava verso un edificio, simile a una piramide di Tikal, che stava in fondo a un viale alberato. Juri s’incamminò sotto il sole porco che lo faceva scoppiare di caldo. Proprio di essere in paradiso non sembrava. Poi vide un faro in lontananza. Di giorno. Una moto. Ebbe un’intuizione. Una speranza. Il suo desiderio. La Guzzi, perché ora ne distingueva il pulsare, stava trottando verso di lui. Gli veniva incontro e se avesse avuto la coda l’avrebbe mossa frenetica. La guidava qualcuno nascosto da un casco integrale nero. L’ennesimo angelo, pensò lui. La moto si fermò davanti al suo sorriso. Il pilota mise il cavalletto e smontò. Si tolse il casco. “Isabel” riuscì a dire lui, guardando la ragazza che rideva e rimaneva lì, a pochi centimetri. “Che ci fai qui col mio desiderio.” “Sono qui per consegnarti la tua Guzzi, il tuo desiderio d’Illuminato e allo stesso tempo riscuoto il mio.” “Il tuo cosa?” “Il mio desiderio,” disse lei con la faccia divertita “Ho dovuto aspettare che passassi da questa parte dell’esistenza. Ora tocca a me” e lo baciò con certe labbra calde che una morta non dovrebbe avere.


Fine


Ma scusate, voi siete stato generosissimo, però a questo punto io che devo fare.”
Dovete giocare, e, se vincete, a me va l’otto per cento.”
Ma tutti questi fatti, tutta questa gente, io adesso come mi regolo.”
Quello che potevo fare l’ho fatto.”
Abbiate pazienza, ma, se proprio mi volevate aiutare, mi raccontavate un sogno piccolo, che non vi faceva fatica, e io mi pigliavo belli belli i numeri miei. Sicuri. Con tutte le cose che mi avete raccontato che posso fare io.”
Ma che andate trovando, siete venuta a cercarmi un sogno e io ve l’ho dato. Non potete pagare e io vi ho riferito questo sogno qui, che lo tengo pronto da un sacco di tempo ma che nessuno lo chiede. Se tenevate le possibilità veramente, vi facevo un sogno pulito che c’era solo da capare cinque numeri e quelli sicuro che uscivano. Voi vi dovete accontentare.”
Almeno datemi qualche parere.”
Che volete che vi dica, non ho mai giocato in vita mia. Non è serio.”
Tutti quei fatti, gli elefanti, la nave, la ragazza, le bombe, se ci penso esco pazza.”
Non saprei come consigliarvi, giocate come vi sentite e vedrete che farete bene.”
Detto questo, l’uomo si congedò con un cenno, infilò il casco e partì con la sua vecchia moto scassa, lasciandosi ingoiare nel ventre antichissimo della città. La donna avrebbe potuto guardare la scritta sul serbatoio ma gli passò di mente. La testa affollata d’altri ingombri.


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