Forse l’ho già detto ma
piuttosto che andare a rileggermi tutto mi ripeto. Quando c’è stato il
terremoto in Friuli, sei maggio del millenovecentosettantasei, non avevamo più
una casa perché la proprietaria, una che da piccolo mi faceva paura, aveva
approfittato del casino e diceva che lei era in stato di necessità e non aveva
più dove andare e le serviva la casa e noi in strada. Due mesi dopo il nostro
appartamento è stato venduto alla regione e dentro ci hanno piazzato degli
uffici. Bastardi. In ogni caso per mesi la gente ha vissuto per strada e noi,
senza casa, non davamo tanto nell’occhio. Però i miei per farmi vivere meno il
disagio di quel campeggio infinito, che a me piaceva molto, mi hanno mandato a
Torino da Antonio che viveva in Corso Marconi in una casa che era davvero un
campeggio perenne. Mi sono divertito parecchio e Antonio che non sapeva
esattamente come si gestisse un bambino di undici anni mi ha dato le chiavi di
casa appena arrivato e i soldi per un panino, consigliandomi vivamente il buffet
della stazione di Porta Nuova e raccomandandomi di portargli un qualche cibo
pure a lui. In quegli anni stava incasinato con le donne, il lavoro e tutto. La
sua casa era piena di libri di fantascienza, piena di libri in generale ma in
quello già casa mia marcava bene. Lui aveva tutti quegli economici favolosi e
ciancicati e io me ne andavo in balcone a leggere e a tenermi dentro una fame
eterna. La mattina uscivo e giravo per Sassalvario e c’erano le puttane a tutte
le ore e io proprio in quei mesi cominciavo a pentirmi di non aver prestato
grande attenzione a quella bambina che d’estate insisteva per mostrarmi il culo
in cambio di una sbirciata al mio pisello e io l’accontentavo e me ne restavo
lì a fissare quelle chiappe come un televisore spento. Però quelle puttane lì
più che proiettarmi nella nuova dimensione erotica prepuberale mi sbalzavano
indietro all’infanzia più buia, quella delle megere delle favole che chiudono i
bambini nelle gabbie per ingrassarli e venderli ai comunisti. Antonio stava in
uno degli ultimi condomini di Corso Marconi, dalla parte del Valentino e sullo
stesso marciapiede c’era un canaro, a dire il vero c’è ancora ma forse non è la
stessa persona, che vendeva pure gli animali e io passavo e guardavo dalla
vetrina questo tizio che cotonava i barboncini e pensavo al buon soldato
Sc’vèik che avevo letto nell’edizione Feltrinelli con la copertina gialla.
Trovato a casa di mio padre. Ad Anzio. I canguri, era il nome della collana ma
era anche il nome che gli davo io per capirmi con mio padre e credevo fosse una
cosa del nostro lessico familiare e quando anche oggi vedo un Feltrinelli col
marsupiale a simbolo penso che ci hanno copiato l’idea. In quella serie ho
letto anche il compendio del capitale di Cafiero ma solo per ritrovare le atmosfere
dei racconti di mio padre che mi descriveva questo nobile pugliese rovinato
dall’idea. Avevo dieci anni e se vi dico che tutto mi era chiaro mi cresce il
naso. Senza contare che sospetto che mio padre quel libro lì non l'abbia mai
letto e tutta la storia che ci montava sopra deve averla rubata al Bacchelli
del diavolo al pontelungo. Questo però l'ho sospettato solo da grande e mio
padre è uno che racconta un sacco di storie e a volte cade in contraddizione ma
io me lo imparo a memoria pure ora che sono cresciuto e a tavola gli rifaccio
il verso e ridiamo. Come al solito esco dal tema. Dicevamo che bighellonavo
davanti alle vetrine della toelettatura per cani e avevo questa fissa per gli
animali e per i libri di animali e per i negozi di animali e volevo fare il
veterinario e quando mia mamma m’ha detto che dovevo laurearmi ho pensato che
era meglio fare il guardiano dello zoo. M’avessi ascoltato da piccolo. A questo
punto mi gioco l’asso nella manica che convincerà anche i più dubbiosi che a me
devono darmi le chiavi della città di Torino, che da sempre sono stato attento
a tutto quello che accadeva, pur senza viverci, e svelo che da piccolo
frequentavo molto il giardino zoologico e rimanevo un sacco di tempo a guardare
l’ippopotamo con la bocca spalancata. Un giorno Antonio mi ha telefonato, anzi
l’abbiamo chiamato noi dalla cabina, che credo che siamo stati l’ultima
famiglia italiana a mettere il telefono in casa e io chiamavo sempre dal
telefono del pronto soccorso del Policlinico che era vicino. Insomma Antonio mi
dice questa storia che l’ippopotamo è morto perché una bambina gli aveva
scagliato il Cicciobello nelle fauci spalancate e quello si era sentito male
che, a dispetto della mole, sono bestie delicate e, siccome io non mi ero
laureato veterinario, non s’è potuto fare niente. Ci sono rimasto male e
approfitto per dire che mi piacerebbe conoscere quella bambina che sarà a
spanna mia coetanea e la guardo in faccia e dico ma perché gli hai lanciato il
Cicciobello e già me l’immagino che quella dice che si era spaventata e io le
credo. A quell’epoca una bambina col cavolo che si liberava così dell’ambito
bambolotto. Magari era Cicciobello Angelonegro che aveva avuto meno successo e
allora è un altro paio di maniche. Ora, con la cosa del razzismo, non lo
possono produrre, che dovrebbero dire Angelonero e sembra una roba da film
horror che evoca morte e devastazione. Per capirci andate a leggervi
l’Apocalisse e i cavalieri della medesima che ne combinano di tutti i colori.
Con questo però non voglio millantare dimestichezza con le sacre scritture che
per quello che mi riguarda sono qui a cimentarmi con l’ennesimo vangelo
apocrifo. Anzi vi confesso che non credo in dio così ci togliamo l'ennesimo
dubbio. Spesso non credo nemmeno a Ste, che è bugiarda matricolata, ma sul
fatto che esiste non ho molti dubbi visto che io porto i soldi a casa e lei li
spende in belletti, profumi e gorgonzola di Novara. Soprattutto quest’ultimo.
Le mie passeggiate da piccolo per Sassalvario
mi piacevano molto e guardavo dentro al panettiere e pensavo che i grissini
dovevano essere proprio buoni ma non avevo il becco d’un quattrino e passavo
oltre. Una volta Antonio, che mi appioppava assurde commissioni per un bimbino
di dieci anni, mi ha mandato alla farmacia di via Gaetano Bresci a comprare del
carbone vegetale e una siringa da insulina. La tipa col camice bianco mi ha
guardato come si guarda un bambino drogato e pure scorreggione. Mi è andata di
culo che quella volta lì a Antonio gli erano avanzati dei preservativi sennò li
aggiungeva alla lista e facevo bingo.
Certe volte mi spingevo fino in via Po, tutto
a piedi, e guardavo le vetrine e tutte le pasticcerie e insomma mi divertivo
proprio. Un giorno, l’ultimo prima di tornare dai miei, ho visto una bancarella
al mercato che vendeva ovviamente animali e mi sono comprato due tartarughe di
terra che sono ancora in ottima salute a distanza di quasi trent’anni. Nel
viaggio le avevo sistemate in una scatola di cartone con la sabbia del gatto e
stavo con l’angoscia che il bigliettaio mi scopriva e mi faceva pagare il
biglietto tariffa tartaruga. A un certo punto queste bestie hanno preso ad
agitarsi e scavavano e da un buco della scatola ha cominciato a cadere sabbia
di gatto. Sulla mia testa. Le persone dello scompartimento mi hanno fatto
notare la cosa e io rimanevo lì, a guardarli con gli occhi sbarrati e senza
proferire parola. Metteteci che viaggiavo da solo sulla tratta Torino Mestre e
che mi trascinavo dietro un monopattino di legno che era il regalo per mio
fratello e va già bene che non mi hanno consegnato alla Polfer di Desenzano.
Poi qualche anno dopo alla trasmissione che si
chiamava Sherazade si vede Sassalvario e io quasi mi commuovo a vedere quelle
strade note. Mi sentivo nel cuore della notizia e quelli a dire che era tutto
una merda e non lo voglio mettere in dubbio ma a me sembrava che ci doveva
essere stata una qualche epidemia di cattiveria e tutti quei ceffi quando
passavo io dovevano essere in pausa pranzo. Invece mi confermano che erano
cazzi anche allora ma a me non m’era parso. E allora Antonio era proprio fuori
a mandarmi in giro senza pensiero o forse già davo l’impressione di quello che
sopravvive.
"Al mondo sono andato
dal mondo son tornato sempre vivo"
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