venerdì 13 aprile 2012

NEL NOME DEL PADRE



Il dieci luglio del duemila nasce Orso, che è mio figlio, il mio primo figlio. A dire il vero è anche il figlio di Ste. Ci hanno detto di trascinare la panza fino a Moncalieri che è un’isola felice e fanno il parto naturale. L’androne dell’ospedale ti lascia perplesso, l’ascensore ti getta nello sconforto, fai un moviolone col cervello cercando di ricostruire perché sei finito lì dentro. Poi scopri che il vantaggio è che lì i nanetti nascono e non sono i polli di batteria della metropoli. Ognuno si ritaglia un suo rispettabile spazio e il piccolo Orso se lo ritaglia grosso, che decide di esordire a quota quattro chili e otto. Davanti alla vetrata sentirò dire guarda quello è grosso come un maiale e rimarrò indeciso se offendermi o essere fiero del mio coda a cavaturacciolo.
A Ste le acque si rompono alle quattro del mattino, l’ora giusta per una rottura. Cerco di fare quello calmo e mentre lei prepara le sue cose metto il guinzaglio al cane e lo porto a pisciare fuori. Gesto privo di qualunque utilità visto che il cane è uscito un paio d' ore prima e non è affatto contento di affrontare l’alba. Arriviamo in ospedale che non c’è nessuno, passando per una strada completamente diversa da quella che mi sono allenato a percorrere in questi giorni. Ovviamente pensiamo di avere priorità su tutti, corsie preferenziali giustificate dal fatto che secondo noi non si tratta di una cosa normale ma piuttosto di un’evento che merita dovuta attenzione. Al bambinificio non fanno una piega e troppi ne vedremo arrivare nei giorni a seguire, tutti con la faccia da centro dell’universo. Che poi a non prenderla di fretta hanno pure ragione. Ste rimane tre giorni lì, a farsi procurare le contrazioni inutilmente e a monitorare, con me vicino che imposto la faccia dei padri delle pubblicità ma su di me funziona poco. Faccio su e giù con la moto e un pomeriggio, sono appena venuto via, mi telefonano per dirmi che Ste sta per entrare in sala operatoria. Cesareo. La moto vola come non le era capitato mai in città, brucio i semafori meditando di costituirmi ai carabinieri a fine corsa. Arrivo in bomba nel piazzale dell’ospedale, freno a spezzare la leva e il pedale. Le forcelle affondano, singhiozzano. Fermo. Cavalletto laterale e scendo dalla moto con un gesto atletico di cui non avrei mai sospettato. Il tempo di vedere il cellulare volare sull’asfalto, direttamente dalla tasca del mio giubbotto frusto e la batteria del medesimo passare la grata di un tombino e precipitare nella fogna. Il cellulare è di Ste. Raccolgo i resti della misera tecnologia che ci siamo potuti permettere e vado oltre. Ho ben altro a cui pensare. Vedo Ste che viene portata dentro, apro il varco tra i parenti in visita e riesco a darle un bacio e a dirle che ci sono. Sul cellulare sorvolo. Ci sono solo io, che a noi emigranti ci è data la fortuna di risparmiarci i parenti causa distanza. In questo caso poi Ste è stata categorica e li ha fatti rimanere a casa loro. A me m’è rimasto il mestiere mio di cane da guardia. Come nei cartoni di Silvestro. Mi figuro che per aprire una pancia e tirarci fuori un bambino ci voglia il suo tempo e invece dopo poco esce l’infermiera e dice dov’è il papà di Orso e che cazzo ne so penso io e me ne rimango contro il muro. Passano i minuti e la tipa torna fuori e ripete alla folla, siamo sempre in orario di visita, dov’è il succitato padre e allora ho un dubbio e mi avvicino. Sorridono e mi fanno entrare in una stanza piccola. Ste, mi dicono, è sotto anestesia e se non mi fa impressione loro il pupo lo passerebbero a me per dargli tempo di capire in che razza di guaio si è andato a cacciare. Ma certo, sorrido io, e dentro mi muoio di paura. E’ bello grosso, dicono, pensi che pesa quattro chili e otto. Sarà abbastanza penso io che ho come parametro le mozzarelle aversane, le trote che pescavo da piccolo e la bicicletta di Pantani. La stanza è buia. Mi piazzano il vermolone tra le braccia e mi mollano lì senza dirmi niente. E se caga, se ha fame, se gli spunta improvvisamente un dente, la dentizione dice che è un momento critico. Ma si fa così, nessun sostegno scientifico a questa mia paternità zoppicante. Forse dovrei telefonare a qualcuno ma il cellulare lo stanno usando le pantegane. Me ne rimango lì e lui arriccia il naso e sbadiglia e non piange. Minchia, non piange. Nei film i bambini appena nati fanno un casino da far impallidire i Ramones e questo se ne rimane zitto. Porca puttana ha dei problemi. Provo a chiamarlo ma non da segno di accorgersene. Per forza, è sicuramente sordo e muto. Un grosso sordomuto. Nessuno mi soccorre e decido che non è il caso di allarmarsi. Lo porto alla finestra e scosto la tenda. Fuori c’è un cielo meraviglioso e io voglio rubare al mondo questo momento irripetibile del suo primo cielo. Poi lo troverà normale e smetterà la meraviglia ma ora è ora. Comincio a cantargli piano Hotel Supramonte di De Andrè, che per fare bella figura mi piacerebbe buttare giù una scaletta meravigliosa di pezzi selezionati per vantarmi di averglieli cantati tutti con la voce calda e invece ripeto come un ebete le uniche due strofe di quella canzone. E se vai all’Hotel Supramonte e guardi il cielo tu vedrai…
La sera la passo a rispondere a tremila telefonate e invio un milione di sms con il vecchio cellulare, che per fortuna ancora conservavamo e che abbiamo continuato a usare ancora per un paio di anni. I resti di quell’altro, nuovo nuovo, se ne rimangono lì sulla mensola da allora. A dire il vero nella notte, passata la grande botta adrenalinica, ho provato a recuperare la batteria dal tombino, che era pure cementato al suolo e non si poteva sollevare. A parte essermi fatto un corroborante aerosol di merda, i miei tentativi sono stati inutili.






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