Il dieci luglio del duemila nasce Orso, che è mio figlio, il mio primo figlio. A dire il vero è anche il figlio di Ste. Ci hanno detto di trascinare la panza fino a Moncalieri che è un’isola felice e fanno il parto naturale. L’androne dell’ospedale ti lascia perplesso, l’ascensore ti getta nello sconforto, fai un moviolone col cervello cercando di ricostruire perché sei finito lì dentro. Poi scopri che il vantaggio è che lì i nanetti nascono e non sono i polli di batteria della metropoli. Ognuno si ritaglia un suo rispettabile spazio e il piccolo Orso se lo ritaglia grosso, che decide di esordire a quota quattro chili e otto. Davanti alla vetrata sentirò dire guarda quello è grosso come un maiale e rimarrò indeciso se offendermi o essere fiero del mio coda a cavaturacciolo.
A Ste le acque si rompono alle quattro del
mattino, l’ora giusta per una rottura. Cerco di fare quello calmo e mentre lei
prepara le sue cose metto il guinzaglio al cane e lo porto a pisciare fuori.
Gesto privo di qualunque utilità visto che il cane è uscito un paio d' ore
prima e non è affatto contento di affrontare l’alba. Arriviamo in ospedale che
non c’è nessuno, passando per una strada completamente diversa da quella che mi
sono allenato a percorrere in questi giorni. Ovviamente pensiamo di avere
priorità su tutti, corsie preferenziali giustificate dal fatto che secondo noi
non si tratta di una cosa normale ma piuttosto di un’evento che merita dovuta
attenzione. Al bambinificio non fanno una piega e troppi ne vedremo arrivare
nei giorni a seguire, tutti con la faccia da centro dell’universo. Che poi a
non prenderla di fretta hanno pure ragione. Ste rimane tre giorni lì, a farsi
procurare le contrazioni inutilmente e a monitorare, con me vicino che imposto
la faccia dei padri delle pubblicità ma su di me funziona poco. Faccio su e giù
con la moto e un pomeriggio, sono appena venuto via, mi telefonano per dirmi
che Ste sta per entrare in sala operatoria. Cesareo. La moto vola come non le
era capitato mai in città, brucio i semafori meditando di costituirmi ai
carabinieri a fine corsa. Arrivo in bomba nel piazzale dell’ospedale, freno a
spezzare la leva e il pedale. Le forcelle affondano, singhiozzano. Fermo.
Cavalletto laterale e scendo dalla moto con un gesto atletico di cui non avrei
mai sospettato. Il tempo di vedere il cellulare volare sull’asfalto,
direttamente dalla tasca del mio giubbotto frusto e la batteria del medesimo
passare la grata di un tombino e precipitare nella fogna. Il cellulare è di
Ste. Raccolgo i resti della misera tecnologia che ci siamo potuti permettere e
vado oltre. Ho ben altro a cui pensare. Vedo Ste che viene portata dentro, apro
il varco tra i parenti in visita e riesco a darle un bacio e a dirle che ci
sono. Sul cellulare sorvolo. Ci sono solo io, che a noi emigranti ci è data la
fortuna di risparmiarci i parenti causa distanza. In questo caso poi Ste è
stata categorica e li ha fatti rimanere a casa loro. A me m’è rimasto il
mestiere mio di cane da guardia. Come nei cartoni di Silvestro. Mi figuro che
per aprire una pancia e tirarci fuori un bambino ci voglia il suo tempo e
invece dopo poco esce l’infermiera e dice dov’è il papà di Orso e che cazzo ne
so penso io e me ne rimango contro il muro. Passano i minuti e la tipa torna
fuori e ripete alla folla, siamo sempre in orario di visita, dov’è il succitato
padre e allora ho un dubbio e mi avvicino. Sorridono e mi fanno entrare in una
stanza piccola. Ste, mi dicono, è sotto anestesia e se non mi fa impressione
loro il pupo lo passerebbero a me per dargli tempo di capire in che razza di
guaio si è andato a cacciare. Ma certo, sorrido io, e dentro mi muoio di paura.
E’ bello grosso, dicono, pensi che pesa quattro chili e otto. Sarà abbastanza
penso io che ho come parametro le mozzarelle aversane, le trote che pescavo da
piccolo e la bicicletta di Pantani. La stanza è buia. Mi piazzano il vermolone
tra le braccia e mi mollano lì senza dirmi niente. E se caga, se ha fame, se
gli spunta improvvisamente un dente, la dentizione dice che è un momento
critico. Ma si fa così, nessun sostegno scientifico a questa mia paternità
zoppicante. Forse dovrei telefonare a qualcuno ma il cellulare lo stanno usando
le pantegane. Me ne rimango lì e lui arriccia il naso e sbadiglia e non piange.
Minchia, non piange. Nei film i bambini appena nati fanno un casino da far
impallidire i Ramones e questo se ne rimane zitto. Porca puttana ha dei
problemi. Provo a chiamarlo ma non da segno di accorgersene. Per forza, è
sicuramente sordo e muto. Un grosso sordomuto. Nessuno mi soccorre e decido che
non è il caso di allarmarsi. Lo porto alla finestra e scosto la tenda. Fuori c’è
un cielo meraviglioso e io voglio rubare al mondo questo momento irripetibile
del suo primo cielo. Poi lo troverà normale e smetterà la meraviglia ma ora è
ora. Comincio a cantargli piano Hotel Supramonte di De Andrè, che per fare
bella figura mi piacerebbe buttare giù una scaletta meravigliosa di pezzi
selezionati per vantarmi di averglieli cantati tutti con la voce calda e invece
ripeto come un ebete le uniche due strofe di quella canzone. E se vai all’Hotel
Supramonte e guardi il cielo tu vedrai…
La sera la passo a rispondere a tremila
telefonate e invio un milione di sms con il vecchio cellulare, che per fortuna
ancora conservavamo e che abbiamo continuato a usare ancora per un paio di
anni. I resti di quell’altro, nuovo nuovo, se ne rimangono lì sulla mensola da
allora. A dire il vero nella notte, passata la grande botta adrenalinica, ho
provato a recuperare la batteria dal tombino, che era pure cementato al suolo e
non si poteva sollevare. A parte essermi fatto un corroborante aerosol di
merda, i miei tentativi sono stati inutili.
Bello.
RispondiEliminaFrancesco, da Torre Annunziata.