sabato 18 agosto 2018

Di me e di Claudio Lolli e delle strade vuote







Un sogno di tutta la vita. Una grammatica nuova da inventare a martellate, verbi da coniugare come fossero sposi e sostantivi da declinare come fossero le generalità davanti alla sbirraglia e il verbo essere che guizza nei lombi e diventa copula. Ancora, preposizioni come fossero la teoria di una raffinatissima arte amatoria, accenti come se ognuno fosse portatore di un dialetto da far insistere sulla lingua di stato e poi una madre da chiamare sasso e gli amici da chiamare piedi. Il mio sogno di tutta una vita, e lo sanno bene quelli che mi frequentano, è parlare con parole impastate di suono ma senza un senso recuperabile da un dizionario e gli spigoli sono Takete e le curve Maluma. Cammino per strada e parlo lingue aliene, mai esistite, rubate a un bestiario medievale scritto in un carattere perduto. Le regole sovvertite del linguaggio sono la mia ossessione. E io lo so bene da dove arriva questo vizio dell'alfabeto fantastico. Dentro ci sono Borges, e i diari scritti da Darwin sul Beagle e i graffiti per strada e nei cessi degli autogrill e tutte le lingue minime, i codici dei contrabbandieri e le grammatiche di confine, i tatuaggi veri e i commenti nei social. E la tua analfabetizzazione come pratica della rivolta.

Oggi sei morto e lo vengo a sapere mentre sto qui, seduto nel portico di una masseria alle porte di Matera, una città che mi ha accolto per trent'anni e che adesso non riesco quasi a guardare, che non è più alla portata del mio respiro. Chissà per te Bologna. Sono qui, con il cane sotto il tavolo e questo odore di terra maledetta e sudore e la salita su cui arrancano convogli di turisti da tutto l'universo, attratti dall'attrazione, dalla voglia di esserci come si vede in televisione. Sei morto e a leggerlo resto con il gesto fermato a mezzo di un bicchiere da portare alla bocca. Chissà tu ora e chissà il tuo bicchiere ultimo se è già stato lavato. Alla fine degli anni settanta son cresciuto nel lembo ultimo della città, con i palazzi appoggiati al bordo dell'autostrada. Conciavamo le nostre pelli giovani con quei suoni d'oltre manica duri e rabbiosi che stavano diventando il nostro fortilizio, la linea difensiva che mettevamo tra noi e il mondo tutto. Avevamo pesanti cappottoni neri e anfibi e capelli che ci tagliavamo tra noi come in un rito di socializzazione tra primati. E a casa avevo un giradischi mono che era servito per certi vinili con le favole che c'era una voce che ti raccontava Pinocchio e ti ricordava di girare la pagina del libro a ogni trillo di campanello. Dopo anni di abbandono quel giradischi lo avevo recuperato all'uso e ci avevo attaccato le casse che originariamente erano sul bauletto di una vespa px, al tempo le vespe avevano pure lo stereo se volevi e sognare era ancora un esercizio di ridefinizione cromatica del presente e una possibilità. Chissà se già si stavano disoccupando le strade dai sogni. A dire il vero appeso alla parete della mia stanza c'era tutto il bauletto della vespa, nemmeno lo sforzo di smontarlo, con le casse e lo stereo e due fili accroccati per alimentarlo con la presa ma i dischi dovevo sentirli con quel piatto di quando ero piccolo, regalo di qualche natale dai parenti, che era così povero che per anni ho pensato che l'espressione "il piatto piange" fosse riferito alla misera tecnologia che potevo permettermi per sentire i miei dischi. Chissà come sentivi i dischi tu. Poi con i soldi che mettevo via, in bilico sulle monete di resto quando mi mandavano a comprare il pane e il latte, che prima una famiglia poteva sentirsi immortale fino alla data di scadenza del cartone del latte, sono andato alla Discotex. Allora stavamo ore a darci ragione dell'utilità del pollice sovrapponibile, facendo scorrete rapidi i dischi e i dischi e ancora i dischi dentro lo scaffale e sapevamo tutte le copertine e tutti i titoli e chi suonava perchè tutto era compreso in quel linguaggio complesso e partecipato che era la musica. Chissà se ti piaceva davvero quella copertina che non mi ha mai convinto. E ho comprato "Aspettando Godot" e quel pugno di anni che avevo s'è lasciato cullare da quelle tue canzoni che erano diventate per me una cosa intima, personalissima e incondivisibile. Certo, alla fine gli altri avevano trovato conferma ai loro sospetti e quello che sembrava un peccato inconfessabile nell'era del suono duro e sporco e dei cappottoni e degli anfibi è diventato il mio segno distintivo. Ascoltavo Claudio Lolli e ero pronto a difendere la mia scelta contro tutti. E mi facevo fare le cassette e le mandavo avanti e indietro a riempire la mia stanza tutte le volte che mi capitava di stare in casa. C'erano mille altre canzoni ma le tue erano un privilegio, un' esclusiva irrinunciabile al mio mondo pesato sulle rinunce. Chissà a cosa hai rinunciato tu, che tutti abbiamo una quota di no da regalarci. Insomma, sei diventato parte della mia vita con le tue canzoni.

Ora son questo qui, dice che faccio un lavoro che non si capisce, in bilico sulle parole scritte e dette ma un fatto è certo, i miei compagni di viaggio sono raramente storici dell'arte e esperti di linguaggi mediatici e didattica, come ci si aspetterebbe dal mio mestiere, ma piuttosto negli anni ho imparato a farmela con i musicisti e i cantastorie e a calcare con loro palchi portandomi addosso le parole mie inventate e non e pure quelle che ti ho rubato e ho copiato alle pagine degli appunti del mondo. Tiro a Campari insomma. Con te ci siamo incrociati un paio di volte. Il circo premiante della canzone autoriale a marchio d'origine t'aveva a lungo ostracizzato e poi riguadagnato, nel comodo di un segnale da dare per il rinnovamento e per un disco che, perdonami, non era certo dei migliori, decretandoti recentemente cantautore dell'anno. Chissà da quanti anni speravi non capitasse. Ma io di queste cose me ne son sempre fregato e me ne son battuto le palle di quel turbine di vocine che oggi hanno diritto di esistere perchè la voce non conta nulla e tutti confondono l'opinione con la conoscenza e si sentono portatori di sacre verità. Chissà che ne pensavi tu. Qualsiasi cosa succederà giuro che, questo è il culto mio della morte, non mi permetterò mai di azzardare che tu avresti detto così e fatto colà. Da adesso a sempre. Non si parla mai e mai e mai per bocca dei morti. Ora troverai mille amici che non sospettavi da vivo ma l'amicizia oggi si misura su lunghi elenchi digitali di persone che non hai visto mai e quindi tutto ha il peso del nulla. Fottitene e fottiamocene. Di te mi resta una canzone scritta sul muro e parafrasando Mutis se ci sarà qualcosa d'altro ci rivedremo altrimenti non importa. Io credo che non importerà. Ne sono quasi certo ma la vita si pesa con le incertezze. E ti regalo il dispiacere di oggi, qui, davanti a questa terra invasa dal sole e con questo gesto del portare il bicchiere alle labbra che concludo come fosse un saluto. Io alla fine ho trovato la mia Anna di Francia. Questo solo da anni volevo dirti.

Grazie.










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