Stanno davanti ai cancelli e gridano. Dicono che erano loro
che venivano ai concerti e erano loro che compravano i dischi e quindi ora gli
spetta la libbra di carne, ora chiedono a gran voce di sentire che odore fai da
morto e dicono che sei cosa loro. Non ho idea se abbiano torto o ragione, non
mi interessa. Vedo questa teoria di facce e lacrime e ricordi e penso che
ognuno abbia il diritto di viversi le cose come crede ma la sensazione è strana
e mi lascia inquieto. Forse ha ragione Daniele Sepe, quando dice che siete e
siamo forse meglio disposti a essere orfani che a essere figli e se abbiamo un
padre ci piace piangerlo da morto. Non sono sicuro di niente ora. Almeno non
sono sicuro di quello che dovrebbe essere o meno condiviso. Come non sono certo
mai di quello che riguarda una moltitudine, della marea che monta e della voce
che si fa grossa delle altre voci. E allora parlo di quelle stinte certezze che
mi porto addosso.
Pino Daniele è stata una colonna sonora formidabile di una
mia stagione precisa. Era il peggior incipit possibile e me lo sono concesso
perché il peggio è affar mio. Sta di fatto che vivevo a Battipaglia, il resto
della mia famiglia era a Udine, e misuravo a passi affrettati la distanza verso
la maggiore età, forse perché alle prime pulsioni verso gli undici anni le mie
fantasie sessuali avevano come dead line
del digiuno pelvico i diciotto anni. Stavo nel letto, chiudevo gli occhi
davanti al buio della stanza di notte e partiva il disco che mi correva
insistente dentro… “quando avrò diciotto anni mi troverò una ragazza tutta
nuda, mora, la voglio mora con gli occhi chiari”… Ammetto che alla fine non ho
saputo resistere e il regalo l’ho aperto prima del tempo che mi ero dato.
All’epoca non avevo un giradischi, un piatto si diceva tra
noi che già a parlare così ci si sentiva del giro giusto, e dormivo
nell’immenso salone di quella casa un tempo riempita dalle voci di una famiglia
incredibile e impossibile. Mi ero messo una branda tra i divanoni inizio
Novecento e di fronte a me avevo un pianoforte così scordato che non lo
ricordava davvero più nessuno. Erano tracce di un passato fastoso di cui
annusavo la presenza ma che non m’era mai stato possibile condividere. Serate
con gli spartiti e il pianoforte e le auto rombanti dei miei avi e i cavalli e
le femmine di nascosto, innumerevoli femmine, a dimostrare che come dicono da
quelle parti la schiatta mia ha una sorta di ossessione nel sangue. Il palazzo
portava nella targa sul portone il nome di quella famiglia, mia da parte di
madre, e era un tempo segno di potere e ricchezza tra Salerno e le campagne di
Eboli. Mi muovevo tra quei mobili e le suppellettili e l’odore di qualcosa che
non c’era più e che sapeva vagamente di morto. Qualcosa di più di un sentimento
vago a ben vedere, ma ne parlo con rispetto. E c’era un motorino elettrico per
pompare l’acqua al sesto piano quando volevo farmi una doccia o anche solo bere
un bicchiere d’acqua e un tavolo enorme rotondo in cucina e balconi sulla via
principale, proprio all’angolo con la piazza buona.
La mattina mi svegliavo e partivo per il liceo. Liceo
classico Enrico Perito. A Eboli. Mi sono diplomato lì. Cinquantotto
sessantesimi. Senza sapere né leggere né scrivere, dicevo io. Per strada,
andando a scuola, incontravo quelli che nel giro di poche ore erano diventati i
miei fratelli di allora e per sempre. Ce ne stavamo pomeriggi interi nella mia
casa che sembrava una sorta di Vittoriale sbilenco e borghese. Stravaccati sui
divani e i broccati ascoltavamo la musica, tutta la musica del mondo. E parlavamo
di femmine.
Non si batteva un chiodo all’epoca sul versante delle
femmine. Poche cose raccattate alla peggio e un sacco di storie inventate e condivise
mentre in quelle stanze cantava dal radione sul mio comodino Pino Daniele. Già,
quando eravamo vinti da certi struggimenti e certe nostalgie per un mare mai
visto, noi che il mare lo sentivamo a naso se le finestre erano aperte, ci
sentivamo quelle cassette passate di mano in mano e a cui io avevo rifatto le
copertine una a una con disegni e note ai testi. C’era rabbia oltre che
struggimento nelle canzoni di Terra mia
o di quella micidiale seconda prova su vinile che rispondeva all’appello se
dicevi Pino Daniele, quella con la
copertina di lui che si fa la barba. Già, le copertine, i titoli e la sequenza
dei pezzi, la facciata A e la facciata B lo scricchiolio della polvere. Lo
dicevo io che era una stagione precisa e a guardarla ora è davvero lontana.
Perché a un certo punto ci mancavano le parole e restavamo a guardare il
soffitto mentre pioveva sui palazzi scuri e si camminava e si camminava vicino
al porto ricordando una Maria che non avevamo nemmeno mai sfiorato.
Pino Daniele ha traghettato nei miei giorni una schiera di
incredibili suonatori da tutto il mondo. M’ha regalato il gusto per la musica suonata
e la rabbia e l’invettiva e il sospetto dell’amore. Non l’ho confessato mai
prima d’ora ma ho imparato a leggere i libri con la biblioteca sgangherata di
mio padre e le canzoni di Guccini e ho imparato a capire qual’era la musica
buona, buona per me almeno, inseguendo le note di quei dischi lì. Fino a Bella’mbriana e ancora spingendomi al
disco doppio dal vivo che uscì proprio in quei giorni spesi tra la casa e la
piazza e la pizza a metro che ci facevamo tagliare a striscioline per mangiarla
tutti. Si girava la sera fino a tardi ma le femmine rientravano molto prima e
allora si ciondolava da una pizzeria a metro a un film con le prime cassette
piratate a casa di qualcuno. Passavano quelli con la fidanzata ma noi non ce
l’avevamo, passavano quelli con la moto ma noi non ce l’avevamo, passavano
quelli con un futuro davanti ma noi non ce l’avevamo. Quello che avevamo noi
erano quegli assoli di sax in faccia al mare e avevamo anche quello, il mare,
da arrivarci con il costume da casa e gli zoccoli di legno che quando ho fatto l’orale
della maturità sono arrivati gli amici vestiti da spiaggia e mia madre, che era
venuta da Udine a cercare di capire cosa si poteva ancora salvare di quel
figlio scasso e problematico, quando vide arrivare la mia tribù perse definitivamente
la speranza di vedermi dignitosamente collocato nel mondo. E pure quel giorno,
io che dopo una notte clandestina avevo dovuto dire addio a un amore che ancora
mi mordeva alla gola, avevo Pino Daniele che usciva dalle casse del radione e
le risate e quel giro di tre accordi che ripeteva al mondo Nun me scuccià.
Poi è successo che sono partito e ho continuato a vivere
come un lazzaro e spesso felice, che la lezione l’avevo imparata e quel lampo
d’acqua salsa che mi porto addosso me lo giocavo a favore ma ormai quei giorni
erano lontani e nei dischi di Pino Daniele non mi ci ritrovavo più e per anni
ho sospettato mi avesse tradito. Ora non saprei com’è andata davvero. Lui non
ce l’aveva più la rabbia di un pulcinella avvelenato e neppure la nota sarcastica
e l’ironia e alla carta sporca di quella città, che non smetto di amare
odiandola di cuore, aveva sostituito certa pratica canzonettara in cui cantava
alla donna “quando muovi il fisico in un ritmo isterico”. Quando muovi il
fisico? Ma che cazzo di modo è di scrivere una canzone. Insomma è successo che
non mi ci sono ritrovato più nelle canzoni e non ci trovavo più il blues delle
origini ma ora che lo racconto, io che non lo avevo detto mai, non sono più
sicuro. Se n’è andato lui o me ne sono andato io?
Anni dopo sono andato a intervistarlo. Suonavano la notte
delle chitarre e ho stretto la mano al mio mito Randy California che di lì a
poco sarebbe sparito su una tavola da surf per sempre. Dovevo fare l’intervista
per Frigidaire e ci siamo messì li a
fine concerto a Pordenone e lui mi ha guardato e mi ha detto “Ma tui hai capito
dove devo andare a suonare… a Vienna... hai presente dove sta Vienna… la ncopp
aggia i a sunà”. E ridevamo tutti e due, ficcati in un mondo e in una storia
che era tutta un'altra storia.
L'ho visto tantissime volte in concerto. Pure quando non capivo cos'era successo davvero. E ci sono andato in autostop con la donna dei miei desideri. Questo conta e avrei voluto dirglielo.
Il disco dal vivo l’ho comprato originale all’epoca, uno
sforzo economico da fottermi le finanze. L’ho comprato in cassetta che il
piatto, l’ho già detto, non ce l’avevo. Quando ho saputo che Pino Daniele era
morto ho alzato il telefono e ho chiamato il mio amico di allora e di sempre.
Con lui è tutta la vita che cerchiamo di incontrarci in giro per il mondo fosse
solo lo spazio di un caffè e con lui solo avevo voglia di parlarne. Le parole
ce le siamo riguadagnate alla bocca come allora. Le stesse. La stessa
meraviglia. Parlavamo nella stessa lingua di quei dischi, parlavamo cresciuti neri
a metà.
Ora ci saranno gli eredi e le raccolte gold e platinum e le vie intitolate e la venerazione delle reliquie e già c'è stato il flash mob e i veleni tra i parenti e il pubblico che reclama e il mistero della morte. Le canzoni, le benedette canzoni, quello c'è e basta. Poi c'è l'uomo ma è un'altra storia e riguarda lui e quelli che respiravano la sua aria. Roba che a noi che sentivamo le canzoni mica ci compete. Quello non sono io canta quell'altro e vale tenerlo a mente.
Questo volevo dire. Perché non l’ho detto mai.
Grazie.
RispondiEliminagrazie a te
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