mercoledì 7 gennaio 2015

Questo solo volevo dire, che non ho detto mai

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Stanno davanti ai cancelli e gridano. Dicono che erano loro che venivano ai concerti e erano loro che compravano i dischi e quindi ora gli spetta la libbra di carne, ora chiedono a gran voce di sentire che odore fai da morto e dicono che sei cosa loro. Non ho idea se abbiano torto o ragione, non mi interessa. Vedo questa teoria di facce e lacrime e ricordi e penso che ognuno abbia il diritto di viversi le cose come crede ma la sensazione è strana e mi lascia inquieto. Forse ha ragione Daniele Sepe, quando dice che siete e siamo forse meglio disposti a essere orfani che a essere figli e se abbiamo un padre ci piace piangerlo da morto. Non sono sicuro di niente ora. Almeno non sono sicuro di quello che dovrebbe essere o meno condiviso. Come non sono certo mai di quello che riguarda una moltitudine, della marea che monta e della voce che si fa grossa delle altre voci. E allora parlo di quelle stinte certezze che mi porto addosso.

Pino Daniele è stata una colonna sonora formidabile di una mia stagione precisa. Era il peggior incipit possibile e me lo sono concesso perché il peggio è affar mio. Sta di fatto che vivevo a Battipaglia, il resto della mia famiglia era a Udine, e misuravo a passi affrettati la distanza verso la maggiore età, forse perché alle prime pulsioni verso gli undici anni le mie fantasie sessuali avevano come dead line del digiuno pelvico i diciotto anni. Stavo nel letto, chiudevo gli occhi davanti al buio della stanza di notte e partiva il disco che mi correva insistente dentro… “quando avrò diciotto anni mi troverò una ragazza tutta nuda, mora, la voglio mora con gli occhi chiari”… Ammetto che alla fine non ho saputo resistere e il regalo l’ho aperto prima del tempo che mi ero dato.

All’epoca non avevo un giradischi, un piatto si diceva tra noi che già a parlare così ci si sentiva del giro giusto, e dormivo nell’immenso salone di quella casa un tempo riempita dalle voci di una famiglia incredibile e impossibile. Mi ero messo una branda tra i divanoni inizio Novecento e di fronte a me avevo un pianoforte così scordato che non lo ricordava davvero più nessuno. Erano tracce di un passato fastoso di cui annusavo la presenza ma che non m’era mai stato possibile condividere. Serate con gli spartiti e il pianoforte e le auto rombanti dei miei avi e i cavalli e le femmine di nascosto, innumerevoli femmine, a dimostrare che come dicono da quelle parti la schiatta mia ha una sorta di ossessione nel sangue. Il palazzo portava nella targa sul portone il nome di quella famiglia, mia da parte di madre, e era un tempo segno di potere e ricchezza tra Salerno e le campagne di Eboli. Mi muovevo tra quei mobili e le suppellettili e l’odore di qualcosa che non c’era più e che sapeva vagamente di morto. Qualcosa di più di un sentimento vago a ben vedere, ma ne parlo con rispetto. E c’era un motorino elettrico per pompare l’acqua al sesto piano quando volevo farmi una doccia o anche solo bere un bicchiere d’acqua e un tavolo enorme rotondo in cucina e balconi sulla via principale, proprio all’angolo con la piazza buona.

La mattina mi svegliavo e partivo per il liceo. Liceo classico Enrico Perito. A Eboli. Mi sono diplomato lì. Cinquantotto sessantesimi. Senza sapere né leggere né scrivere, dicevo io. Per strada, andando a scuola, incontravo quelli che nel giro di poche ore erano diventati i miei fratelli di allora e per sempre. Ce ne stavamo pomeriggi interi nella mia casa che sembrava una sorta di Vittoriale sbilenco e borghese. Stravaccati sui divani e i broccati ascoltavamo la musica, tutta la musica del mondo. E parlavamo di femmine.

Non si batteva un chiodo all’epoca sul versante delle femmine. Poche cose raccattate alla peggio e un sacco di storie inventate e condivise mentre in quelle stanze cantava dal radione sul mio comodino Pino Daniele. Già, quando eravamo vinti da certi struggimenti e certe nostalgie per un mare mai visto, noi che il mare lo sentivamo a naso se le finestre erano aperte, ci sentivamo quelle cassette passate di mano in mano e a cui io avevo rifatto le copertine una a una con disegni e note ai testi. C’era rabbia oltre che struggimento nelle canzoni di Terra mia o di quella micidiale seconda prova su vinile che rispondeva all’appello se dicevi Pino Daniele, quella con la copertina di lui che si fa la barba. Già, le copertine, i titoli e la sequenza dei pezzi, la facciata A e la facciata B lo scricchiolio della polvere. Lo dicevo io che era una stagione precisa e a guardarla ora è davvero lontana. Perché a un certo punto ci mancavano le parole e restavamo a guardare il soffitto mentre pioveva sui palazzi scuri e si camminava e si camminava vicino al porto ricordando una Maria che non avevamo nemmeno mai sfiorato.

Pino Daniele ha traghettato nei miei giorni una schiera di incredibili suonatori da tutto il mondo. M’ha regalato il gusto per la musica suonata e la rabbia e l’invettiva e il sospetto dell’amore. Non l’ho confessato mai prima d’ora ma ho imparato a leggere i libri con la biblioteca sgangherata di mio padre e le canzoni di Guccini e ho imparato a capire qual’era la musica buona, buona per me almeno, inseguendo le note di quei dischi lì. Fino a Bella’mbriana e ancora spingendomi al disco doppio dal vivo che uscì proprio in quei giorni spesi tra la casa e la piazza e la pizza a metro che ci facevamo tagliare a striscioline per mangiarla tutti. Si girava la sera fino a tardi ma le femmine rientravano molto prima e allora si ciondolava da una pizzeria a metro a un film con le prime cassette piratate a casa di qualcuno. Passavano quelli con la fidanzata ma noi non ce l’avevamo, passavano quelli con la moto ma noi non ce l’avevamo, passavano quelli con un futuro davanti ma noi non ce l’avevamo. Quello che avevamo noi erano quegli assoli di sax in faccia al mare e avevamo anche quello, il mare, da arrivarci con il costume da casa e gli zoccoli di legno che quando ho fatto l’orale della maturità sono arrivati gli amici vestiti da spiaggia e mia madre, che era venuta da Udine a cercare di capire cosa si poteva ancora salvare di quel figlio scasso e problematico, quando vide arrivare la mia tribù perse definitivamente la speranza di vedermi dignitosamente collocato nel mondo. E pure quel giorno, io che dopo una notte clandestina avevo dovuto dire addio a un amore che ancora mi mordeva alla gola, avevo Pino Daniele che usciva dalle casse del radione e le risate e quel giro di tre accordi che ripeteva al mondo Nun me scuccià.

Poi è successo che sono partito e ho continuato a vivere come un lazzaro e spesso felice, che la lezione l’avevo imparata e quel lampo d’acqua salsa che mi porto addosso me lo giocavo a favore ma ormai quei giorni erano lontani e nei dischi di Pino Daniele non mi ci ritrovavo più e per anni ho sospettato mi avesse tradito. Ora non saprei com’è andata davvero. Lui non ce l’aveva più la rabbia di un pulcinella avvelenato e neppure la nota sarcastica e l’ironia e alla carta sporca di quella città, che non smetto di amare odiandola di cuore, aveva sostituito certa pratica canzonettara in cui cantava alla donna “quando muovi il fisico in un ritmo isterico”. Quando muovi il fisico? Ma che cazzo di modo è di scrivere una canzone. Insomma è successo che non mi ci sono ritrovato più nelle canzoni e non ci trovavo più il blues delle origini ma ora che lo racconto, io che non lo avevo detto mai, non sono più sicuro. Se n’è andato lui o me ne sono andato io?

Anni dopo sono andato a intervistarlo. Suonavano la notte delle chitarre e ho stretto la mano al mio mito Randy California che di lì a poco sarebbe sparito su una tavola da surf per sempre. Dovevo fare l’intervista per Frigidaire e ci siamo messì li a fine concerto a Pordenone e lui mi ha guardato e mi ha detto “Ma tui hai capito dove devo andare a suonare… a Vienna... hai presente dove sta Vienna… la ncopp aggia i a sunà”. E ridevamo tutti e due, ficcati in un mondo e in una storia che era tutta un'altra storia.

L'ho visto tantissime volte in concerto. Pure quando non capivo cos'era successo davvero. E ci sono andato in autostop con la donna dei miei desideri. Questo conta e avrei voluto dirglielo.

Il disco dal vivo l’ho comprato originale all’epoca, uno sforzo economico da fottermi le finanze. L’ho comprato in cassetta che il piatto, l’ho già detto, non ce l’avevo. Quando ho saputo che Pino Daniele era morto ho alzato il telefono e ho chiamato il mio amico di allora e di sempre. Con lui è tutta la vita che cerchiamo di incontrarci in giro per il mondo fosse solo lo spazio di un caffè e con lui solo avevo voglia di parlarne. Le parole ce le siamo riguadagnate alla bocca come allora. Le stesse. La stessa meraviglia. Parlavamo nella stessa lingua di quei dischi, parlavamo cresciuti neri a metà. 

Ora ci saranno gli eredi e le raccolte gold e platinum e le vie intitolate e la venerazione delle reliquie e già c'è stato il flash mob e i veleni tra i parenti e il pubblico che reclama e il mistero della morte. Le canzoni, le benedette canzoni, quello c'è e basta. Poi c'è l'uomo ma è un'altra storia e riguarda lui e quelli che respiravano la sua aria. Roba che a noi che sentivamo le canzoni mica ci compete. Quello non sono io canta quell'altro e vale tenerlo a mente.

Questo volevo dire. Perché non l’ho detto mai.






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