lunedì 21 gennaio 2013

la cattiva influenza






In questi giorni sono stato divorato da una febbre micidiale. Una cosa mai provata prima. Quattro giorni a letto in una sorta di coma nemmeno troppo vigile, senza mangiare, forse senza bere. Restavo da solo in casa con i cani che mi vegliavano e la musica bassa. A volte la sentivo la musica ma più spesso venivo spinto in una sorta di dimensione spaziotemporale densa e catramosa in cui tutto, ogni minimo movimento, sembrava faticosissimo.

Ho delirato. I libri di tutte le librerie di casa e i dischi e i fumetti, tutto cadeva dagli scaffali e s’accumulava a terra nella polvere. Tantissima polvere. Al risveglio la mattina sono andato in studio e a vedere tutto a posto sono rimasto lì a guardare stordito la teoria infinita di dorsi di volumi che riesco a riconoscere ormai al minimo ammiccamento cromatico. Non avevo più misura del reale.

E una mattina ho aperto gli occhi e c’era la luce del giorno che filtrava dalla tapparella abbassata passando dalle fessure e proiettandosi sulla parete. Ero nudo nel letto ma non ero più tutto sudato come le altre mattine e non avevo più la sensazione che qualcuno m’avesse preso a calci le costole. Accanto a me c’era Ste e stavamo abbracciati e poi è arrivato Dani col pigiama di Paperinik e s’è buttato sul letto a ridere. Niente scuola, niente lavoro e noi lì come capita spesso nei festivi, a decidere dove andare a far colazione, che poi gira e gira sempre da Zichella andiamo. Mentre siamo lì dal corridoio arriva un lampo. Ci giriamo tutti da quella parte. Ste solleva la testa dalla mia spalla. Si è accesa la luce del bagno, forse era già accesa penso io e non ce ne siamo accorti prima. Restiamo lì a fissare quell’alone giallo sul pavimento del corridoio. Guardo i cani che dormono acciambellati vicino al letto. Come a sospettare che possano esserci loro nel bagno. Poi succede. Sentiamo tirare l’acqua. A questo punto ci si ferma il respiro. Dopo una prima incertezza, mi alzo e mi precipito in corridoio. E vedo un’ombra nera passare nel corridoio e entrare nell’armadio grande, che sta lì appoggiato alla parete che ci divide da un altro appartamento, addirittura da un altro palazzo. Arrivo allo stipite dell’armadio e resto aggrappato con le dita contratte su quel legno d’abitudine. Adrenalina. Una donna anziana con uno scialle nero sulle spalle si è infilata nell’armadio e io dietro di lei. Sul fondo del mobile, da cui pesco ogni giorno il mio giaccone, c’è una porta ancora e da lì intuisco un altro appartamento, quello della donna presumibilmente. La vicina che non sapevamo di avere, che percepivamo a volte come capita in questi condomini cresciuti ai bordi della città industriale, per qualche movimento enfatizzato dal vibrare delle pareti, un colpo di tosse d’esistenza a cui, nati e cresciuti in queste batterie per polli industriali, non abbiamo mai dato attenzione. E la vedo che si infila veloce e intanto penso che la casa, la nostra casa è sempre vuota e questa entra e gira per le stanze e come uno stupido immagino che legga i miei quaderni scritti fitti a mano e mi monta una rabbia maledetta. Sto quasi per entrare ma la vecchia mi compare all’improvviso davanti, un’ombra scura enfatizzata dal controluce che mi regala solo svantaggio. Grida e ce l’ho addosso. Mi respinge dalla mia parte, e alza le braccia al cielo ricordandomi una di quelle prefiche fotografate da Franco Pinna negli anni Cinquanta. E invece le dita le si serrano su una barra metallica, stiamo parlando di frazioni di secondo, e cala fragorosa davanti a me una serranda di metallo, come quella delle vecchie botteghe. Mio padre mi raccontò una volta che i fascisti trovarono per strada un compagno socialista di mio nonno che non si era tolto il cappello vedendoli passare. Lo misero sotto la serranda di un negozio e giù a fargliela cadere di peso sulle spalle come una ghigliottina. Papà s’era spaventato, avrà avuto sei anni, pure pensando che quella fine la poteva fare anche il nonno. E il rumore mi immagino dovesse essere proprio quello. Un fragore di lamiere e perni ingiuriati dall’ossido che gridano una guerra di corazze impossibili.

Mi ritrovo in un corridoio insieme al mio cane. Ho i vestiti addosso e ancora tremo e ho una rabbia fottuta che mi morde dentro. Mi fanno accomodare in un ufficio e gli racconto la mia storia e la luce del bagno e la vecchia e quel fragore di serranda. Ascoltano. A poco a poco attorno a quel tavolo si radunano tutte le persone che sono nell’ufficio. Quando ho finito il tizio a cui sto forse sporgendo una denuncia, non è chiaro, mi dice che devo seguirlo. Arriviamo in una vecchia aula, la stessa dove al DAMS tenevo le lezioni di storia della fotografia, e questo che mi accompagna mi mostra una sedia e mi dice “Si accomodi. La pregherei di ripetere il suo racconto alle persone che vengono a fare le solite denunce perché è emblematico, lei mi capisce, è davvero emblematico”. Non che non capisco ma non dico nulla, io che di solito conta fino a tre e sto già piantando un casino ciclopico, non dico nulla. Anzi, mi alzo e ricomincio a raccontare dall’inizio. “mi sono svegliato ed ero nudo sul letto ma non ero sudato come….”. Mentre parlo vedo che arriva altra gente e un poliziotto in divisa dice “Restate in corridoio, ha già cominciato, non può riprendere dall’inizio, appena finisce gli chiediamo gentilmente di ripetere anche per voi”. Sono pietrificato, vedo arrivare gente, sempre più gente e ripeto ancora la mia storia e ancora poi. Non oppongo più nessuna resistenza. Racconto e sento ogni volta quello stridere di serranda che mi gela il sangue. La mia voce. Percepisco la mia voce non come una cosa che arriva direttamente dal mio corpo ma piuttosto come una sorta di annuncio della stazione ferroviaria lontano e leggermente distorto. Anche le labbra sono fuori sincrono.

Mi sveglio nella stanza buia e vuota. Nudo e sudato. Tremo.



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