I palazzi dove stavamo noi erano gli ultimi della città, poi
c’erano i campi, ma mica una cosa bucolica e rasserenante. Erba sfilacciata e
malata che cresceva scansando i copertoni usati fino alla tela e i preservativi
abbandonati la notte nelle stradine sghembe e sotto il gelso del Milanino.
Saccocci di gomma trasparente senza fiato, col loro carico di vita negata che
per noi che stavamo lì a guardarla la maledetta vita nostra, quel lattice
sverso in terra era già una rassicurazione. Una delle poche. La marca che
andava di più era Hatù, che con il modello Settebello agiva tra noi in regime
di monopolio. C’era uno che girava con un vecchio 124 sport e aveva tutte le
confezioni usate dei goldoni di
quel modello lì impilate nell’asta del cambio. Per vantarsi o per monito. Vai a
capire. Sta di fatto che nessuno comprava i preservativi in farmacia ma è certo
che tutti li compravano e li tenevano in tasca, un po’ perché non puoi mai
sapere come svolta la giornata ma più realisticamente perché se ce li hanno
tutti e tu non ce li hai è un lampo che sei fuori dai giochi e salta il posto
tuo sui gradini del portone la sera, coi motorini razza Ciao schierati a faro
spianato a guardia, che il mondo non ce l’ha mai raccontata a convincerci. Però
in farmacia non ci si andava a comprare i goldoni e non c’era nemmeno il
distributore automatico come adesso e allora si adava da uno che ogni tanto lo
vedo ancora in giro e mi verrebbe voglia di chiederglielo adesso, a palle
ferme, da dove cazzo nasceva quel giro lì. Arrivavamo in tre o quattro, con gli
spiccioli ciancicati nelle tasche dei jeans strettissimi, coi pedali del
motorino razza Ciao smontati, che noi si partiva sempre in corsa saltando in
sella, e si faceva la nostra spesa. In casa il tizio in oggetto aveva degli scatoloni
di Settebello e si contrattava e s’usciva colla preda nostra in tasca, sempre
nei jeans strettissimi. Dicevano che questo qui aveva un gancio con le
fabbriche e si faceva dare quelli difettati e quindi non stavi mai tanto
tranquillo, al punto che quando è stata la volta mia, la prima volta mia e pure
la prima volta di quell’altra che a dispetto dell’impaccio iniziale siamo
rimasti amici fino a oggi, me ne son messi due e a dirla tutta se qualcuno mi
chiede com’è stato non ne ho una percezione precisa che mi son presentato
all’appuntamento con la vita gommato come un trattore e la sensibilità era
decisamente attenuata.
La mia educazione sentimentale è partita proprio da quelle
zolle stitiche dietro casa che erano per molti una risorsa alimentare da non sottovalutare
in quei tempi di magra. La benzina e la fettina di carne, più qualche
confortino composto da dolci e budini improbabili, li recuperavamo come tutte
le altre famiglie in Jugoslavia, affrontando lunghe code alla frontiera nei
fine settimana. Poi ognuno s’arrangiava come poteva e c’erano gli orti abusivi
ma non avevano gran successo che appena i cavoli erano pronti era un attimo e
te li ranzavano in una notte propizia. La maggior parte s’adattava a recuperare
i frutti stenti di quella terra un tempo a vocazione agricola e ora strozzata
da fabbriche scasse, altro che miracolo del nord est, e capannoni e roba
buttata in giro alla come viene. Alberi di susine inselvatichite, qualche mela
butterata e oblunga che era presagio di una Seveso prossimo ventura e il
radicchietto nei campi e lo sclopit e la cicoria. Mio padre si dedicava ai
funghi e agli asparagi selvatici e se siamo vivi è perché nessuno mi toglie
dalla testa che abbiamo sviluppato delle difese che ci rendono immortali a
forza di mangiare quella roba lì che capitava in casa in cartocci e cestini
degni di Marcovaldo. A fare gli asparagi dalla parte del Cormor, ovvero già
pesantemente fuori zona per me e il mio motorino razza Ciao, che all’epoca
c’erano confini su cui non valeva la pena scherzare, mio padre ci andava con
mio fratello piccolo e tornavano con certi mazzetti di fili d’erba e qualcosa
che poi mia madre trasformava in spiritosissime frittate. Fossi stato Socrate,
dopo quella cura lì, la cicuta non mi ammazzava di certo.
Un giorno mio padre e mio fratello tornano e mi raccontano
che lì, al Cormor, in una sorta di capannuccia nascosta nella vegetazione hanno
trovato una cassa con dentro centinaia di riviste pornografiche. Non sono
rimasti lì a guardare che mio fratello era ancora troppo piccolo ma riportavano
la notizia del reperimento come se si trattasse di una necropoli etrusca. Vado
al policlinico, che noi non avevamo il telefono in casa, e dal bar di quella
struttura sanitaria telefono al mio amico di sempre Corrado. Gli racconto del
reperimento del tesoro editoriale e decidiamo di impossessarcene per rivendere
le riviste al dettaglio. Magari un paio ce le saremmo pure tenute ma il
pensiero nostro gettava radici forti nella capacità imprenditoriale del
benedetto nord est. Corrado non aveva il motorino per cui spettava a me andare
in quel maledetto posto e caricarmi il bottino. Recupero delle corde e parto in
una mattina d’estate. Le indicazioni di mio padre e mio fratello erano precise.
Mi ficco nel folto della vegetazione e scopro la cassa. Ci saranno dentro
duecento pezzi di pregio da Caballero a Le Ore Mese. Una formidabile
emerototeca. Faccio una fatica maledetta a fissare la cassa al Ciao e mentre
son lì che dal sentiero riguadagno l’asfalto sento delle grida dietro di me. Mi
giro di sguincio e vedo un abominio d’uomo, una roba geneticamente
impressionante avvolta in una maglia a righe colorate che enfatizza il ventre
gonfio e il collo taurino, che mi insegue gridando. Il proprietario delle
riviste, il fine bibliofilo. Vai Ciao vai. Ringrazio le ore spese a chiedere a
quel motorino tutta la velocità possibile modificando il modificabile.
Raggiungo la strada con quello che ansima alle spalle e con la discesa che
aiuta prendo la mia bella velocità e la mia distanza di sicurezza. Quello dopo
mi avrebbe pure ammazzato. Prima non ci voglio pensare. Sta di fatto che con la
paura che si mangia i miei quindici anni corro come un matto e attraverso tutta
la città, che Corrado abita agli antipodi di casa mia. Arrivo nel cortile col
cuore che batte a mille e m’attacco al citofono. Lui scende e solo allora
m’accorgo che ho distribuito immagini d’amore per tutta la città e la cassa che
s’è spalancata nella fuga è vuota per metà. Me lo immagino il tragitto mio
segnato da un porco Pollicino e disseminato di tutte le posizioni possibili, da
tutti gli ardimenti carnali concepibili e anche da qualcuno che non avresti mai
sospettato. Prendiamo la parte rimasta e la portiamo nella cantina di Corrado.
Restiamo un paio d’ore, con buona professionalità, a constatare la qualità
della merce nostra prima di immetterla sul mercato. Appena riaprono le scuole
contiamo di smerciare tutto. Lasciamo le pagine di piacere lì e ci accordiamo
su un paio di linee strategiche di mercato. Qualche giorno dopo la mamma di Corrado va in cantina, trova
il tesoro nostro e butta tutto via. Ce ne torniamo leggeri leggeri dal campetto
di basket un pomeriggio e i suoi insulti dal balcone ci inseguono lungo la
roggia.
Lì è morta la mia aspirazione d’essere giornalista.
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