Dunque, dovresti averlo capito come funziona ma a scanso di equivoci ti ricordo che conviene far partire la canzone e poi leggere.
Sabato mattina a Torino. Esordio
d’autunno che misuro sulle scarpe che si inzuppano d’acqua mentre me la cammino
al parco con i cani. Oltre gli alberi intuisco la fabbrica ma è un mero indizio
di nozione urbanistica, niente di comparabile con l’idea di fulcro del respiro
cittadino che per tanti decenni qui si sono portati addosso. L’effetto è lungo
da smaltire ma, dati alla mano, c’è poco da fare i gradassi, che da quei
cancelli escono briciole e la memoria industriale sono piuttosto i palazzoni di
periferia a raccontarla ancora. Ho davanti un altro fine settimana
postindustriale e non ne sono quasi consapevole, tutto concentrato nell’idea
che i miei piedi stiano subendo l’acqua diaccia che entra bellamente dalla tela
delle scarpe e si aggrappa ai calzini che mi ero finalmente deciso a tirare
fuori dal cassetto. Me la prendo con i piedi e con l’erba bagnata ma in realtà
il mio livore è tutto riferito a questo autunno che arriva e che è il preludio
alla maledizione dell’inverno che inchioderà il mio respiro e mi costringerà a
lasciare la moto in garage nelle giornate più fredde. Se morirò sarà d’inverno
mi ripeto da sempre, che non me lo posso permettere di morire nella stagione in
cui le rondini sfrecciano in cielo e le femmine passano con i vestiti leggeri.
Ogni volta che arrivano le rondini, prima avevo come segnale temporale anche le
fragole al mercato ma pare che questi cazzo di frutti ormai ci siano
tutto l'anno, penso « anche
quest’anno non morirò ». Poi vedo le gonnelle leggere e le magliette
accennate e mi ripeto con insistenza « no, proprio non morirò
quest’anno ». Invece arriva l’autunno, annunciato da questo grigio che
domina, come una foto scattata male e stampata peggio, come un bianco e nero
che cede al prevalere delle tinte intermedie senza mai trovare soluzione nella
pienezza dei colori che porta nel nome. L’umido mi si ficca sotto la maglia,
ancora mi sono ostinato a uscire con le maniche corte, e la sinusite pare
svegliarsi dal suo letago contrario per farmi compagnia nella stagione che
avanza. Non mi piace e cammino a testa bassa e i cani si tengono a distanza
debita.
Saliamo tutti in macchina, uomini
e cani, come in un’evoluzione di certo narrare dalla grande depressione di là
dall’oceano. Ogni sabato, per rimettere in pari il conto con l’ingiustizia di
vivere, vado a fare colazione da Zichella. Da sempre. Facciamo il cavalcavia di
corso Dante che per il magico furgoncino è una bella sfida alla meccanica, al
tempo e alle leggi della fisica e planando con bella noncuranza entriamo in via
Nizza. Come una cavallina storna e storta la nostra vettura cassonata va da
sola verso il bar pasticceria. In mezzo alla strada un fiotto di gente che si
raggruma verso un lato e che forma un’organismo unico e, a giudicare per
approssimazione, neanche troppo complesso. Da lontano sembra una roba corposa,
si sente gridare e mi ricordo che per oggi c’è una manifestazione degli
studenti in programma. Passo oltre. La gente ha le facce stravolte ma capita
sempre, la gente è segnata da una furia maledetta ma capita sempre, molti però
soggiacciono a un peso della rassegnazione che pure sai riconoscere senza
incertezze. Che cazzo succede. Andiamo oltre e guadagnamo la sicurezza di un
caffè e una meringa con panna. Chiedo. Dice che la catena dei polli arrosto che
qui in città puoi trovare a ogni angolo e che porta il nome della piazza dove
ieri hanno ammazzato uno a coltellate, vende i polli a 50 centesimi per
festeggiare i cinquant’anni di attività. Pensa tu. A bocce ferme il lunedì sul
giornale scopriremo che sono stati dati diecimila polli alla popolazione e che
le persone si sono prese a calci e pugni per un boccone e che si facevano tre
ore di fila e che i giornalisti hanno intervistato persone che dicevano di non mangiare
un pollo da dieci anni. Infine dice pure che è intervenuto il servizio d’ordine
dei pollarrostari, sorta di samurai armati di spiedo e con il giacchetto in
pelle di pollo. A questo punto mi viene da pensare che se stai davanti alla
rosticceria tre ore con la moneta in mano la crisi non è causa di nulla ma sei
tu che sei stritolato in un meccanismo fatto di persuasori e nemmeno occulti e
consumo e mercato. Tre ore, non ci posso pensare, tre ore con tuo figlio a
tenerti la mano e le botte davanti alla saracinesca. Ma quante cose si possono
fare in tre ore. I conti non tornano. La città è stata attraversata da questa
smania di pollo degna delle più epiche pagine di Marcovaldo. E mai che si sia
avuto sospetto di un profumo nell’aria.
Sempre dai giornali apprendiamo
che la sera a Venaria, la reggia di Venaria, c’è stato un ballo in maschera e i
millecinquecento posti disponibili a pagamento sono andati a ruba e il costume
costava trecento euro a trovarlo in affitto ma molti hanno preferito farselo
confezionare. L’altra bella faccia della città postindustriale. Hanno provato a
raccontarglielo a quelli che ballavano che il popolo aveva finito i polli e una
signora vestita da cortigiana, poi glielo spiegheremo cos’erano le cortigiane e
la rima le darà ragione delle sue scelte, ha sorriso e ha detto :
« che problema c’è, che mangino brioches ».
E mentre gli studenti marciavano
per le vie del centro e la folla assaliva pagando le rosticcerie, che pure Manzoni
ci faceva miglior figura rivoluzionaria coi suoi forni, e l’elite attendeva
sera per ballare il minuetto col volto incipriato, un uomo vagava per le strade
del centro. Un uomo per noi, ma lui dice di essere scrittore, soprattutto
scrittore, fondamentalmente scrittore, scrittore e basta. Uno scrittore
sfortunato che non riesce a trovare spazio e mercato per le sue pagine e magari
toccherebbe dirglielo che quel mercato lì è ormai bella fiera della vanità.
Arrivato qui a Torino dal centro Italia, dove le sue fortune narrative erano
più che incerte, s’è arenato come un cetaceo davanti ai Murazzi. La famiglia è
ritornata alla casa d’origine e lui è rimasto qui da solo a girare per le vie
del capoluogo sabaudo che pure portano ancora addosso certa suggestione editoriale
che pare d’intuire tra i portici attraversati dal fantasma di Pavese,
dall’ectoplasma di Calvino. Sta di fatto che in quella mattina lo scrittore, chiamiamolo
il nostro scrittore per dargli coraggio, si sente incollocabile. Non marcerà
con gli studenti, non ballerà con la gente per bene. Peggio di tutto, non gli
piace il pollo al nostro scrittore. Quindi disarmato entra in una banca e grida
che è una rapina e vuole i soldi. Lo guardano increduli e nemmeno gli danno
retta e lui mi immagino che insista e poi capisca che il naufragio letterario è
solo un presagio per quella maledetta vita che si porta addosso e che pare
portargli al tavolo in quel momento un conto impietoso. Esce in strada e
comincia a correre, poi dirà che voleva essere ucciso dai proiettili della
polizia, ma il fisico dei cinquant’anni appena passati è quello che è e deve
presto fermarsi e sedersi a una panchina sopraffatto dall’affanno. Così lo
trovano i poliziotti che lo portano via e nel pomeriggio lo affidano ai servizi
sociali.
Così corre il tempo nell’era
postindustriale, nella città postindustriale, raccontata da un uomo
postindustrioso. Ora vado a mangiarmi il pollo che ho rapinato a un corteo di
studenti. Non mi prenderanno perchè ero vestito da moschettiere.
Ah già, qua sotto vi metto i link delle notizie, così ci mettiamo l'aniimo in pace con 'sta storia che non bisogna mai fare a gara con la realtà.
http://www.lastampa.it/2013/10/03/cronaca/notte-folle-alla-reggia-con-centinaia-di-maschere-sOPcQZNJL9UzxlAFG4vzkN/pagina.html
Ci sarebbe anche il link del nostro scrittore rapinatore ma ve lo cercate da soli che a metterlo mi sento un po' un delatore. Tanto è successo nello stesso giorno e non dovrebbe essere difficile ma se lo troverai non sarà in mio nome.
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