martedì 8 ottobre 2013

Cronaca di una giornata postindustriale



Dunque, dovresti averlo capito come funziona ma a scanso di equivoci ti ricordo che conviene far partire la canzone e poi leggere.





Sabato mattina a Torino. Esordio d’autunno che misuro sulle scarpe che si inzuppano d’acqua mentre me la cammino al parco con i cani. Oltre gli alberi intuisco la fabbrica ma è un mero indizio di nozione urbanistica, niente di comparabile con l’idea di fulcro del respiro cittadino che per tanti decenni qui si sono portati addosso. L’effetto è lungo da smaltire ma, dati alla mano, c’è poco da fare i gradassi, che da quei cancelli escono briciole e la memoria industriale sono piuttosto i palazzoni di periferia a raccontarla ancora. Ho davanti un altro fine settimana postindustriale e non ne sono quasi consapevole, tutto concentrato nell’idea che i miei piedi stiano subendo l’acqua diaccia che entra bellamente dalla tela delle scarpe e si aggrappa ai calzini che mi ero finalmente deciso a tirare fuori dal cassetto. Me la prendo con i piedi e con l’erba bagnata ma in realtà il mio livore è tutto riferito a questo autunno che arriva e che è il preludio alla maledizione dell’inverno che inchioderà il mio respiro e mi costringerà a lasciare la moto in garage nelle giornate più fredde. Se morirò sarà d’inverno mi ripeto da sempre, che non me lo posso permettere di morire nella stagione in cui le rondini sfrecciano in cielo e le femmine passano con i vestiti leggeri. Ogni volta che arrivano le rondini, prima avevo come segnale temporale anche le fragole al mercato ma pare che questi cazzo di frutti ormai ci siano tutto l'anno,  penso « anche quest’anno non morirò ». Poi vedo le gonnelle leggere e le magliette accennate e mi ripeto con insistenza « no, proprio non morirò quest’anno ». Invece arriva l’autunno, annunciato da questo grigio che domina, come una foto scattata male e stampata peggio, come un bianco e nero che cede al prevalere delle tinte intermedie senza mai trovare soluzione nella pienezza dei colori che porta nel nome. L’umido mi si ficca sotto la maglia, ancora mi sono ostinato a uscire con le maniche corte, e la sinusite pare svegliarsi dal suo letago contrario per farmi compagnia nella stagione che avanza. Non mi piace e cammino a testa bassa e i cani si tengono a distanza debita.
Saliamo tutti in macchina, uomini e cani, come in un’evoluzione di certo narrare dalla grande depressione di là dall’oceano. Ogni sabato, per rimettere in pari il conto con l’ingiustizia di vivere, vado a fare colazione da Zichella. Da sempre. Facciamo il cavalcavia di corso Dante che per il magico furgoncino è una bella sfida alla meccanica, al tempo e alle leggi della fisica e planando con bella noncuranza entriamo in via Nizza. Come una cavallina storna e storta la nostra vettura cassonata va da sola verso il bar pasticceria. In mezzo alla strada un fiotto di gente che si raggruma verso un lato e che forma un’organismo unico e, a giudicare per approssimazione, neanche troppo complesso. Da lontano sembra una roba corposa, si sente gridare e mi ricordo che per oggi c’è una manifestazione degli studenti in programma. Passo oltre. La gente ha le facce stravolte ma capita sempre, la gente è segnata da una furia maledetta ma capita sempre, molti però soggiacciono a un peso della rassegnazione che pure sai riconoscere senza incertezze. Che cazzo succede. Andiamo oltre e guadagnamo la sicurezza di un caffè e una meringa con panna. Chiedo. Dice che la catena dei polli arrosto che qui in città puoi trovare a ogni angolo e che porta il nome della piazza dove ieri hanno ammazzato uno a coltellate, vende i polli a 50 centesimi per festeggiare i cinquant’anni di attività. Pensa tu. A bocce ferme il lunedì sul giornale scopriremo che sono stati dati diecimila polli alla popolazione e che le persone si sono prese a calci e pugni per un boccone e che si facevano tre ore di fila e che i giornalisti hanno intervistato persone che dicevano di non mangiare un pollo da dieci anni. Infine dice pure che è intervenuto il servizio d’ordine dei pollarrostari, sorta di samurai armati di spiedo e con il giacchetto in pelle di pollo. A questo punto mi viene da pensare che se stai davanti alla rosticceria tre ore con la moneta in mano la crisi non è causa di nulla ma sei tu che sei stritolato in un meccanismo fatto di persuasori e nemmeno occulti e consumo e mercato. Tre ore, non ci posso pensare, tre ore con tuo figlio a tenerti la mano e le botte davanti alla saracinesca. Ma quante cose si possono fare in tre ore. I conti non tornano. La città è stata attraversata da questa smania di pollo degna delle più epiche pagine di Marcovaldo. E mai che si sia avuto sospetto di un profumo nell’aria.
Sempre dai giornali apprendiamo che la sera a Venaria, la reggia di Venaria, c’è stato un ballo in maschera e i millecinquecento posti disponibili a pagamento sono andati a ruba e il costume costava trecento euro a trovarlo in affitto ma molti hanno preferito farselo confezionare. L’altra bella faccia della città postindustriale. Hanno provato a raccontarglielo a quelli che ballavano che il popolo aveva finito i polli e una signora vestita da cortigiana, poi glielo spiegheremo cos’erano le cortigiane e la rima le darà ragione delle sue scelte, ha sorriso e ha detto : « che problema c’è, che mangino brioches ».
E mentre gli studenti marciavano per le vie del centro e la folla assaliva pagando le rosticcerie, che pure Manzoni ci faceva miglior figura rivoluzionaria coi suoi forni, e l’elite attendeva sera per ballare il minuetto col volto incipriato, un uomo vagava per le strade del centro. Un uomo per noi, ma lui dice di essere scrittore, soprattutto scrittore, fondamentalmente scrittore, scrittore e basta. Uno scrittore sfortunato che non riesce a trovare spazio e mercato per le sue pagine e magari toccherebbe dirglielo che quel mercato lì è ormai bella fiera della vanità. Arrivato qui a Torino dal centro Italia, dove le sue fortune narrative erano più che incerte, s’è arenato come un cetaceo davanti ai Murazzi. La famiglia è ritornata alla casa d’origine e lui è rimasto qui da solo a girare per le vie del capoluogo sabaudo che pure portano ancora addosso certa suggestione editoriale che pare d’intuire tra i portici attraversati dal fantasma di Pavese, dall’ectoplasma di Calvino. Sta di fatto che in quella mattina lo scrittore, chiamiamolo il nostro scrittore per dargli coraggio, si sente incollocabile. Non marcerà con gli studenti, non ballerà con la gente per bene. Peggio di tutto, non gli piace il pollo al nostro scrittore. Quindi disarmato entra in una banca e grida che è una rapina e vuole i soldi. Lo guardano increduli e nemmeno gli danno retta e lui mi immagino che insista e poi capisca che il naufragio letterario è solo un presagio per quella maledetta vita che si porta addosso e che pare portargli al tavolo in quel momento un conto impietoso. Esce in strada e comincia a correre, poi dirà che voleva essere ucciso dai proiettili della polizia, ma il fisico dei cinquant’anni appena passati è quello che è e deve presto fermarsi e sedersi a una panchina sopraffatto dall’affanno. Così lo trovano i poliziotti che lo portano via e nel pomeriggio lo affidano ai servizi sociali.

Così corre il tempo nell’era postindustriale, nella città postindustriale, raccontata da un uomo postindustrioso. Ora vado a mangiarmi il pollo che ho rapinato a un corteo di studenti. Non mi prenderanno perchè ero vestito da moschettiere. 

Ah già, qua sotto vi metto i link delle notizie, così ci mettiamo l'aniimo in pace con 'sta storia che non bisogna mai fare a gara con la realtà.




http://www.lastampa.it/2013/10/03/cronaca/notte-folle-alla-reggia-con-centinaia-di-maschere-sOPcQZNJL9UzxlAFG4vzkN/pagina.html


Ci sarebbe anche il link del nostro scrittore rapinatore ma ve lo cercate da soli che a metterlo mi sento un po' un delatore. Tanto è successo nello stesso giorno e non dovrebbe essere difficile ma se lo troverai non sarà in mio nome.





 



Nessun commento:

Posta un commento