Ultimo spot.
Cassetta smagnetizzata e voce tremula
“...fermati, dove corri così in fretta...”
Il pezzo d’apertura è già puntato sull’altra piastra.
“...troverai un ambiente accogliente e rilassante...”
Ancora uno sguardo alla scaletta, preparata due ore
prima, sicuro che anche questa volta non verrà rispettata.
Sempre la solita musichetta, sono ormai troppi anni, a
chiudere lo spazio pubblicità.
Piccola pausa, pochi secondi per differenziare la sua
voce da pizzerie e fabbriche di materassi.
L’orologione bianco, rassicuranti lancette trafittrici
di cristalli liquidi e giapani, gli fa segno di partire
“Radio Etere presenta.”
Attacco di Downbound Train a volume sparato.
Sfuma.
“Radio Etere presenta.”
Attacco di Downbound Train a volume sparato.
Sfuma.
“Babel.”
Risale.
Sfuma.
“Programma di musica, prosa e poesia.”
Risale e si attesta su un volume corposo.
I leds
danzano dal basso verso l’alto. Un’occhiata ai livelli e via, a puntare il
prossimo pezzo.
Le cuffie gli spaccano i timpani con il preascolto a
volume stellare. Quando gli parlano spesso Milo non capisce ed è un mistero se è
perché e più scemo o più sordo.
Il pezzo d’apertura viene sfumato. Sono anni che lo
accompagna e certe confidenze se le può anche prendere.
“Bentrovati a tutti sulle doppie frequenze dei
centottocento e dei novanta megahertz di Radio Etere. Ancora una volta
cercheremo di aprire insieme i cancelli di questa notte che vi auguro
fantastica, lasciandoci portare dalla corrente di suoni e parole.”
Sale il volume del sottofondo, sempre con il cursore
manuale. Il tossicchiare dell’automatica gli ha sempre fatto girare i coglioni.
“Romeo
is bleeding.”
Parla di questa notte che deve cominciare, che tocca
accompagnare aggrappandosi alla più triste retorica radiofonica.
Romeo
continua a perdere sangue ma tutti hanno fatto il callo a questi drammi da
vicolo.
Il tema della serata non esiste anche se la scaletta
viene preparata cercando di concatenare i pezzi tra loro. Il metodo è quello
delle associazioni, come dallo psicanalista e bisogna essere dei maghi perché
Guccini possa venire prima di Lou Reed e dopo i Napalm Beach.
“...il gioco è tutto sulle sensazioni,
sugli odori dei suoni.” Dio quante stronzate mentre aspetta che la luce rossa
si accenda.
“ Se comunque volete togliermi da questa morsa di
solitudine, vi ricordo i numeri di telefono...” Come un nastro preregistrato.
All along
the Watchtower.
La versione è quella di Michael Hedges e parte di
botto, senza presentazione, lasciando il moncherino delle sue parole a
penzolare nell’etere.
Clip Clop Zanzà
Cicadùm Bà Zanzà.
Chitarra acustica e mano veloce.
Colpi a mano aperta sulla cassa dello strumento.
Colpi di tacco sul palco.
Ancora uno sguardo alla luce rossa del telefono.
Sfuma sul pubblico che applaude.
“Cosa vedete dalla vostra torre di guardia, qual è il
nemico che continuate ad aspettare mentre dal deserto arriva sempre la stessa
sabbia sugli spalti. A combattere il tartaro siete rimasti voi e un paio di
dentifrici.”
Se fosse in loro, negli ascoltatori, cambierebbe
sintonia.
“Per quel che mi riguarda dalla mia fortezza ho il
pieno controllo della situazione perché da qui, signore, si domina la valle.”
Banco del Mutuo Soccorso in crescendo sul suo
sproloquiare.
Si accende la luce rossa.
“Radio Etere.”
Attesa.
“Milo, sono Fausto, ci raggiungi dopo ?”
“Dove ?”
“Siamo tutti da Marcella.”
Sente già l’aria densa degli spini, delle cazzate, del
vino e delle cazzate ancora.
“Se ne ho voglia, vi raggiungo.”
“Con che stai ?”
“Motorino.”
“Se vuoi passiamo a prenderti.”
“Restiamo liberi, se mi gira passo io.”
“Se andiamo da qualche parte ti lasciamo un biglietto
sul cancello.”
“Così se lo mangiano i cani come l’altra volta.”
“Ma no, è colpa di quella fulminata di Laura che ha
scritto il messaggio sulla carta del prosciutto.”
“C’è pure Laura ?”
“Si, ma tu vieni lo stesso.”
“Vedrò se mi riesce.”
Il brano è finito e non ha fatto in tempo a prepararne
un altro.
Acchiappa al volo un nastro e lo infila nella piastra,
che si punta sul primo brano in automatico.
“Continuo a lasciare le mie briciole, camminando verso
la notte, calco il passo nella sabbia e faccio di tutto per permettervi di
seguirmi, di rintracciarmi.”
Parla senza pensare, mentre cerca di leggere almeno il
titolo del pezzo che tra pochi secondi si libererà nell’etere.
Che schifo di calligrafia e come fare a inserirlo nel
contesto.
“E se cercherete di seguirmi ancora sarà bene che mi
preoccupi di intrattenervi.”
Cosa cazzo si potrà inventare.
“Ovviamente il tutto è commisurato ai miei esigui
mezzi e tutto quello che posso offrirvi è un modestissimo ma divertentissimo
hula-hop. Lui è T-Bone Burnett.”
Roba da darsi un morso nei coglioni.
Il pezzo parte e Milo non ha nemmeno le cuffie in
testa, che col caldo che c’è lì dentro gli si sciolgono i padiglioni
auricolari.
Comincia a cercare tra gli scaffali dei dischi, nella
borsa, tra le cassette sparse. Niente che gli venga in mente.
Il pezzo ondeggia con il suo carico di percussioni e
coretti.
Bum-Tabùm Bum-Tatàbum.
Cerca di raccapezzarsi in quella bolgia infernale.
Sta per finire.
“Era
T-Bone Burnett, dall’album Proof through the night. Il pezzo si intitolava
Hula-hop e a sentire questo brano me ne è venuto in mente un altro che
era diverso tempo che volevo farvi ascoltare.”
Sale la musica.
“Hefner and Disney. Il disco è sempre lo
stesso, lui è ancora T-Bone Burnett” e se la cava.
Non ha
mai capito perché questa canzone gli richiami alla mente L’oro di McKenna,
un western americano che sembra l’imitazione triste di una produzione
italo-spagnola, con Gregory Peck, Omar Sharif e Telly “Bellicapelli” Savalas.
C’è un tesoro da trovare, seguendo un’antica mappa indiana. Di tanto in tanto
nel film compare un particolare della mappa con sottofondo di nenia tamburosa
che dovrebbe fare tanto atmosfera amerindiana e il brano che sta trasmettendo
ora richiama la colonna sonora più per le sospensioni che per la struttura
compositiva. Forse è solo lo scherzo della sua memoria rintronata e affogata
nelle coperte del letto grande della nonna, che aveva la televisione in camera
e quando toccava stare per lungo tempo a respirare l’aria buona del sud era
tutta una giostra di pizze, frullati e film western. Forse nemmeno la pellicola
è proprio quella ma non c’è da preoccuparsi, tanto al microfono si guarderà
bene dal coinvolgere gli ascoltatori nei suoi frappé cerebrali.
Per fortuna è riuscito a riprendere le redini della
scaletta e punta il brano in preascolto.
“Piano piano ci stiamo infilando in questa nuova
notte.”
Parte un sottofondo che dev’essere roba tipo Miles
Davis. Uno degli ultimi dischi prima di cacciarsi nella notte lunga. Lui per
davvero.
“Stasera il telefono non suona, o forse dovrei dire
non lampeggia, visto che qui in regia l’unica cosa che segnala l’arrivo di una
telefonata è una lucina rossa vicino al mixer. Se devo dirvi la verità, meglio
così. Non ho voglia di parlare con una voce che mi risponda. Preferisco farmi
quattro passi in mezzo ai solchi di qualche disco polveroso.”
Mixa con il sottofondo e il pezzo parte.
“Willie
Dixon. Walkin’the blues.”
Di solito
nel corso del programma legge o fa leggere poesie e brani vari ma stasera non
gli gira.
Di colpo le luci saltano, le spie hanno un singulto,
la puntina sgomma in frenata su quei vecchi, preziosi solchi. Toglie le cuffie
e le sbatte sul mixer. Che succede adesso. Il generatore d’emergenza non è
partito e dalle finestre alcune luci accese danno l’idea che, più che di una
cosa generale, si tratti di un casino circoscritto alla radio. Al condominio o
forse solo al loro appartamento.
Ripensa a tutte le volte che in riunione si sono detti
che così non si può andare avanti, le apparecchiature sono vecchie e gli impianti
fanno schifo. E adesso?
Chissà le radio accese nelle case, nelle macchine,
nelle teste, come lo faranno sentire questo vuoto di ora.
Rimane alcuni lunghi minuti seduto al buio, credendo
al miracolo, poi prova a telefonare a Paolo ma, quando si dice troppo, pare che
anche il telefono sia inchiodato. Tira un calcio alla poltroncina che corre
sulle sue rotelle e finisce contro il mobiletto della classica. Al semibuio
Milo cerca di raccattare la sua roba, sapendo che tutto quello che dimenticherà
troverà triste sorte in questo covo di ladri di dischi, maestri del melopresti
e devoti della madonna del mancato ritorno. Bestemmiando infila le cose alla
rinfusa nella borsa. Esce dalla stanza che lì, pomposamente chiamano regia e
inciampa nel buio, rischiando di finire con gli incisivi sulla moquette, in
qualcosa di vagamente somigliante a un portaombrelli che non ricorda di avere
mai notato prima. Sale il volume delle bestemmie. Raggiunge la porta con le
mani protese in avanti, come i sonnambuli dei fumetti, apre ed è finalmente
fuori.
Sul pianerottolo cerca, con le mani che lisciano sulla
parete, l’interruttore della luce delle scale, crede di averlo trovato e, dopo
qualche minuto di titubanza, sperando non sia il campanello della porta
accanto, preme.
Niente. Fanculo a questo palazzo marcio. Con quello
che costa di condominio, potrebbero anche sostituire le lampadine fulminate.
Scende le scale, guidato dal corrimano in legno e una
volta nel portone cerca di stare attento a schivare la Vespa di quello del
secondo che, per paura che gli fottano il rottame, la lascia sempre dentro,
sotto le cassette della posta.
Quando il suo ginocchio impatta con il portapacchi
dello scooter si piega in avanti, rischiando di sfregiarsi con lo specchietto
tetanico. Le bestemmie vanno in distorsione e tocca riequalizzare la madonna e,
inavvertitamente, gli parte un calcio di punta che va a piantarsi nella chiappa
larga e lamierosa di quel simbolo del miracolo economico che fu.
Fuori, in strada, Milo ci arriva con il labbro serrato
tra i denti e un ringhio sordo che sale dallo stomaco al paradiso. I lampioni
che illuminano questo schifo di posto, prima qui davanti c’era il mercato
ortofrutticolo, vanno a intermittenza ma la cosa non lo stupisce più di tanto.
Visto e considerato che in genere sono proprio spenti.
Passa una volante a sirena spiegata ma neanche di
questo c’è da stupirsi.
Milo arriva al motorino, lontanamente imparentato con
la bastarda Vespa nascosta nel portone, Fissa la borsa al portapacchi, stando
attento a non piegare i dischi e, con il solito borbottio, il motore parte alla
prima mezza pedalata. Accende il faro e scende giù dal cavalletto. Deve
ricordarsi di stringere i bulloni dello specchietto che penzola inutile,
aggrappato al manubrio. Lascia scaldare e parte con un velo d’olio superfluo
nella miscela che marca il territorio.
Mentre corre per le strade vuotate dalla sera canta,
anzi urla, il ritornello di Born to be Wild, sempre con il rischio che
qualche corpo estraneo, insetto o chissà cosa, prenda la via della sua bocca
spalancata a forno.
Al
semaforo di via Ranni si mette in coda a una Lancia familiare. Scatta il verde,
la macchina fa per partire e si pianta. Si pianta anche lui, potenza del
variatore, con la ruota sul paraurti e precipita in avanti, finendo con la
faccia sul lunotto posteriore.
“Cazzo fai ?”
“Ma non lo vedi che mi si è fermata.”
“Se non sai guidare resta a casa.”
“Ma vaffanculo.”
Il tipo non è neanche sceso e grida guardando nello
specchietto. Come urlare insulti all’arbitro davanti alla tele. Crede di
cavarsela con un insulto a mano tesa e una sgommata ma è qui che sbaglia. Gira
la chiavetta e cerca di ripartire ma la macchina non accenna a riavviarsi.
Morta.
A sua volta, Milo lancia un occhio al parafango storto
del motorino, raccoglie i suoi pezzi sparsi e dando sul gas, è giusto
sottolineare che il prodigio su due ruote non si è neanche spento, si affianca
allo stronzo.
“Vaffanculo tu.”
Parte tirando un calcio, santa serata dell’anfibio,
allo sportello.
Di nuovo Born to be Wild a squarciagola.
In viale Marchetti i semafori sono
spenti e passa tronfio. Non ha nessuna voglia di raggiungere gli altri, con il
rischio che la notte pieghi in peggio, e infila sparato la strada di casa.
Nel vialetto del cortile c’è il ghiaino per la solita
derapata, alla bella età di ventisei anni, ed è nel garage.
Chiude la saracinesca, Milo si pulisce le mani, nere
di polvere e scarichi assassini, sulle tasche posteriori dei jeans.
Una spinta ed è nel portone. Qui non ha bisogno di
accendere la luce, che queste scale le ha fatte in tutte le condizioni, sulle
gambe, sulle mani, sul culo, sulle ginocchia, sulla lingua, combinando talvolta
le singole tecniche.
Arriva alla porta di casa e, dopo l’autoperquisa
di prassi per trovare le chiavi, apre mandando il battente a sbattere sulla
parete, giusto per aggiornare la tacca in corrispondenza con la maniglia.
In cucina si dirige subito verso il frigo con la
spiacevole sensazione di camminare in una pozzanghera. Avesse almeno la sua
fida mantellina gialla e la sua cartella rossa della prima elementare, quella
con scritto El Pachito, che non ha mai saputo cosa volesse dire, potrebbe
mettersi a saltare, schizzando acqua tutto attorno. Invece è lì, ad un passo
dalla laurea, e ha l’obbligo di bestemmiare ancora. Si sta giocando il paradiso
in una serata e non gli sembra di avere chissà che carte.
Non ci
vuole molto a capire che il frigorifero si è sbrinato e che il ghiaccio
accumulato nella cella da anni di incuria si è sciolto con esiti nefasti. La
luce funziona e c’è da credere che il frigo sia stato interessato dallo stesso
black-out che ha stoppato la radio stasera. E lui che si era pure incazzato con
gli impianti troppo vecchi. Probabilmente, se non si fosse lasciato prendere
dalla rabbia e avesse aspettato qualche altro minuto, ora le cose sarebbero
tornate a posto e avrebbe potuto riprendere a trasmettere, scusandosi per il
contrattempo e seghe varie.
Di più,
in questa zona della città il black out dev’essere durato un pezzo se è
riuscito a squagliargli il ghiaccio nel frigo. Lui era in giro già dalla
mattina.
Prende un pezzo di formaggio dal frigo, che rimane
spento mostrandosi coerente con le posizioni prese stasera. Probabilmente la
stanchezza di vent’anni di onorato servizio gli è pesata inesorabile sul
compressore e quando la luce è tornata non se l’è sentita di ripartire.
Chissà domani.
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