lunedì 1 febbraio 2016

Camargue




 
 
La Camargue non era come l’aveva immaginata. Stava seduto sulla spiaggia, con di fronte quel mare annegatore di madonne ma di gitani nemmeno l’ombra. I cavalli dovevano essere estinti a causa dell’abuso di bagnoschiuma e i tori li avevano messi tutti sulle etichette del porto. Niente di niente. Nemmeno le zanzare, che ci avrebbe messo la mano sul fuoco che in quel paradiso palustre ce ne fossero a bizzeffe e invece manco l’ombra. Ma dove cazzo ti sei cacciata Camargue. Com’è che nei documentari c’è tutto quel pulsare di vita e galoppo e ora che lui era qui, su questa sabbia, col mare davanti e le paludi alle spalle, nulla di quella meraviglia naturale gli si palesava. Un granchio, un fottuto gabbiano che per quel giorno aveva rinunciato al banchetto in discarica. Niente. Strinse gli occhi a fessura per arrivare il più lontano possibile con lo sguardo. Fino all’estrema linea d’orizzonte. Col dubbio che s’era ormai impossessato di lui e scavava come il carul nella sua testa. Per i non friulani il carul è un tarlo che mangia il cervello. Per i friulani è pure il vizio malato della modernità. E insomma aveva questo rovello che si faceva insistente. Vuoi vedere che pure in Africa di elefanti non ce n’era nemmeno l’ombra e la simpatica presentatrice i pachidermi li faceva arrivare dallo zoo di Boston, li piazzava sotto un baobab, di cartongesso pure lui, e li faceva inquadrare in campo lungo o con certi primissimi piani che occultavano la zampa fermata dalla grossa catena. Evitando di andare con l’obiettivo sull’occhio, altrimenti si capiva che erano bestie distrutte dalla tristezza.

Tutto il suo viaggio sarebbe stato a questo punto inutile. Ma cosa andava a pensare. Proprio gli elefanti che per muoverli tocca averci delle attrezzature costosissime. Sicuramente stavano al loro posto come da milioni di anni a questa parte. Da prima che nascesse l’uomo e la terra e l’universo. In principio erano gli elefanti.


Decise di finire la giornata su quella spiaggia, anche se di ore buone per viaggiare ce n’erano ancora parecchie e lui la Francia s’era proposto di sfiorarla appena. Non che quei posti lì, a parte la delusione della Camargue, gli stessero antipatici, solo che si era ripromesso di salire su fino ai paesi baschi, deviando dalla strada più breve, o almeno da quella che lui immaginava fosse la pista migliore per raggiungere i pachidermi, e s’era già sbagliato una volta. Sempre con quel confuso ordine geografico che si portava in testa e che era tutto generato da certe frequentazioni infantili di sussidiari che raccontavano di ogni posto, che vi si producevano cereali e ortaggi e vi si allevavano bestie e c’erano industrie e artigianato e queste cose si potevano dire di qualsiasi paese e la maestra annuiva sempre. Rafforzando il concetto con cartine col disegno della mucca, a porre l’accento sull’area vocata all’allevamento. A fare libri di geografia ci vuol poco ma a prendere un’insufficienza tocca essere maghi davvero. E lui in geografia non era mai riuscito ad andare bene, perché gli sembrava disonesto verso la maestra e il mondo raccontare le stesse frottole per tutti i posti e allora diceva che in quella certa regione si allevavano gli zebù e la maestra sussultava che era abruzzese per parte di padre e quelle bestie lì, col nome che ricordava il diavolo, a casa dei suoi nonni non le aveva viste mai. Insufficiente. Avrai tempo per recuperare.