mercoledì 8 aprile 2015

Ciò che è perso di noi





Tutto comincia come iniziano sempre le cose su cui poi poggia la parte consistente dei miei giorni. Un'altra di quelle travi che ficchi a sostegno della barcollante struttura che ti ostini a chiamare "la mia vita" e che a guardarla così, non troppo da vicino, rischia di farti l'effetto di certe tele impressioniste che fanno diventare le macchie un racconto. Insomma sono decenni ormai che tra noi tutti fratelli randagi di questo niente che non ha confini e non ha statuti e non ha neppure una grammatica condivisa ma che è tutto quello che s'è potuta permettere la nostra idea di libertà ci troviamo e ci lasciamo e gli abbracci, nell'uno o l'altro caso, si piazzano come pagine piegate all'angolo per tenere il segno sul libro del tempo. Un giorno, ne ho già scritto da qualche parte, ho chiamato un numero al cellulare e cercavo una redattrice per un corso di storia dell'arte e invece mi risponde una voce d'uomo. Mi parla in italiano e mi dice di vivere in Inghilterra e, guarda tu, arriva da Torino e abita vicino a casa mia e ce la raccontiamo e ridiamo della coincidenza che sbaglio numero e certo una col suo cognome e forse è una sua cugina ma vai a capire chi cazzo è. Solo mentre sto chiudendo la telefonata quella voce mi dice qualcosa che va oltre la coincidenza e soprattutto insiste sulla mia memoria amicale e anche su quel lusso di memoria da ascolto ragionato della musica e delle parole che ancora posso permettermi. Cazzo, io questo lo conosco. E mentre siamo ai saluti tra sconosciuti grido "Ma sei Stefano" e quello dall'altra parte si blocca e risponde che è lui e nella redazione della casa editrice dove lavoro, un open space che nella negazione alla minima intimità nasconde un agghiacciante pungolo alla produttività sempre, le mie telefonate sono sempre un momento topico della giornata e tutti si fermano a sentirmi, facendo finta di non ascoltare, che qua siamo pur sempre in terra sabauda e un contegno gli altri lo portano d'abitudine. Insomma quello dall'altra parte è il mio amico, mio fratello Stefano Giaccone e tra tutti e due ci siamo giocati i dadi nostri randagi che, così abituati a fermarci a quello che troviamo non ci siamo nemmeno accorti che c'era più necessità che caso in quel pezzetto di vita condivisa al telefono. Insomma l'ho cercato per caso Stefano, con il privilegio guadagnato negli anni di poter parlare in confidenza con uno di quelli che la stagione mia l'hanno cantata con la voce che io da solo ancora non sapevo tirar fuori e l'ho inseguito con tutto il branco suo dei Franti in giro per centri sociali e vinili distribuiti da un qualche dio minore del solco ficcato nei corridoi di una casa occupata o nella redazione di una radio libera ma libera veramente. L'ho cercato come lo cerco da sempre, da quando cammino coi passi miei, ho cominciato presto, e i suoi suoni cambiavano come cambiava la mia anina e l'attenzione delle mie narici all'aria attorno e lui era acustico quando io guardavo in bianco e nero e lui era rabbia quando camminavo per le strade con gli occhi stretti a fessura, sentendo la maledizione di sapere dove stavano le trappole e guardando quegli altri che con la vena vinta da una tagliola maledetta non smettevano di sorridere convinti di aver vinto loro. Da misurare non c'era che questa maledetta macchia bruna di sangue in comune. Questo sangue in comune. Questo maledetto sangue in comune.




Stefano all'affacciarsi dell'inverno è passato da casa mia a raccontarmi che se ne andava e che non aveva senso raccontare più come aveva raccontato fin'ora e io sono rimasto con il fiato sospeso e con la scusa di una lunga intervista che poi ho mandato alla radio in realtà ci siamo detti per ore cose tra noi, con il cane mio che arriva dal Galles sdraiato sotto la scivania e con lui che tornava da quelle parti a inventarsi padre come ci inventiamo padri noi che non siamo buoni se non come fratelli e solo per quelli della razza nostra. Insomma con un ultimo disco che sto recensendo finalmente in questi giorni, ce ne ho messo a convincere la rivista a farmelo pubblicare, Stefano se ne andava a masticare altra vita. Come abbiamo fatto tra tutti e come gli abbiamo visto fare altre volte. Però a salutarlo la sera tra pochi amici io me lo guardavo e speravo di poter legittimamente sospettare un ritorno.



L'altro giorno mi cerca Stefano. Torna, forse torna, e vuole spedirmi una cosa che ha fatto con suo figlio Talee alla batteria e lui al solito chitarra e voce. Un video in cento copie e mi dice "se ti va parlane che dietro c'è tutta una storia e voglio raccontarla" però le copie sono cento e insomma è una storia che non ci farà ricchi, nessuna storia è mai stata buona per provarci e quelle che sospettavamo le abbiamo scansate per timidezza, che le questioni di principio sono un esercizio di potere che non serve a un cazzo. Insomma mi arriva il dvd e apro il video e quella grafica e quelle frasi sono cose che riconosco e sono tempo di un altro tempo e sono la mia grammatica originaria, quei passi primi che ho fatto per muovermi nella parola. Mi passano davanti le fanzine e certi volantini appiccicati sui muri e sui pali della luce e dentro quel racconto c'è l'orrore della guerra che io porto in giro nello stesso modo, raccontando il massacro agghiacciante della prima guerra mondiale e le pagine di Ernst Friedrich. Siamo rimasti quelli lì, aggrappati a poche idee ma ostinate dicveva quell'altro.
La domenica mattina la casa è silenziosissima e io mi alzo presto e in mutande mi accoccolo nella poltrona dello studio e guardo cose e leggo pagine. Due guerre a confronto, la Prima e la Terza che stiamo combattendo noi senza consapevolezza, come capita a ogni buon fantaccino ubriacato che sta ficcato nei buchi scavati in terra. Guardo le immagini, leggo le frasi in punta anche di certa retorica che riconosco e mi fa sorridere, che il tempo a noi ci ha regalato anche l'ingiuria di qualche ruga nelle parole ma è giusto così. Ma il bello deve ancora venire. Dentro quel dvd c'è un tesoro di canzoni, un compendio di un'epoca riletto da Stefano in versione acustica. E alzo il volume e mio figlio si sveglia e viene a vedere e si siede sul divano e prende la chitarra elettrica e comincia a suonarci sopra e lo stesso faccio io e a un certo punto voglio sapere, voglio capire, che quasi mi incazzo che dentro quella mezz'ora di suono si concentra un tempo che mi pareva fosse immenso e invece sta tutto in un pugno e ora mi fa tenerezza chiamarla vita. 
Lo cerco e Stefano mi spiega come stanno le cose con quel dvd e io vi giro la spiegazione sua. Per quello che mi riguarda ora ho un pallottoliere truccatissimo per fare i conti con il mio passato e aggiungere addendi al tempo di mio figlio. Direi che non è poco, non è poco per niente.

Grazie Stefano o, come dici sempre tu, mai soli.

Di seguito la storia per come me l'ha spiegata Stefano. Fatene buon uso e fatele buona guardia che la memoria non ce la può prendere nessuno. Perchè ciò che è perso di noi forse lo abbiamo solo nascosto troppo bene.