lunedì 29 aprile 2013

canzone di notte





L’esposizione al riverbero del dolore. In questi giorni faccio i conti con il dolore degli altri. Non parliamo di un dolore denso e consistente ma di un malessere che si propone in forma d’odore denso e insopportabile per prendere via via peso e concretezza e poggiarsi come una cotta di maglia gravosa ma studiata al contrario, per lasciar penetrare tutte le lame e le punte senza lasciarle andar via. Mai. Pesante di metallo dunque il dolore. Con un sapore di metallo e un odore ancora di metallo. Non c’è artificio retorico che possa agevolare quell’unica tremenda constatazione metallica che s’appoggia alle tue ossa e pesa di dolore. Sono passato di casa in casa, di città in città e certamente mi son regalato sorrisi e abbracci e la necessità di constatarci vivi oltre il labile segnale di leggerci in rete, chè noi nativi analogici non troviamo sazietà nel racconto del reale in pixel e giga e sempre cerchiamo di ficcarci negli odori e nelle voci e questo ci salva. Ho fatto i conti con la mia memoria domestica più consistente e ho misurato nel sorriso dei più piccini il senso compiuto dell’immortalità. Ho diviso parole al tavolo con quella mia solita foga dell’arrivare e partire. Sono stato bene ma su tutto incombeva il dolore che necessariamente andavo a incontrare poi. Rimandando e versandone un altro ma ritrovandolo tra le pieghe del tovagliolo e nelle ombre che passavano rapide. Dopo alcuni giorni in giro sono tornato a casa e nel buio degli ultimi cento chilometri sotto una pioggia notturna e prepotente parlavo con Ste, e facevamo il conto dei dolori attraversati. Perché in questi giorni ci siamo misurati con il terror panico di chi non vuol morire e il dolore sordo di chi insegue fantasmi incessantemente, spiando l’errore della tua felicità e ripetendo che su di te s’è posato davvero l’occhio benevolo della fortuna, in beffa alla fatica maledetta che hai fatto per metterti in tasca una vita dove poter dare un volto alla lealtà e al sorriso, e poi vite collocate sul filo di racconti sospesi e sempre quest’ombra di morte con cui non sapevamo compiutamente misurarci. Di fronte alla diffusa pratica del dolore tendo a portare con timidezza la mia vita bella che pure mi sono conquistato a morsi e senza regali. Eppure lo sentivamo che la maledizione del dolore è che non ti lascia salvo mai, come il peggiore dei virus. La risposta al dolore è la nozione consistente del respiro. Poi non ci riguarderà più nulla, nemmeno il dolore medesimo. Della morte ci si occupa da morti, non è questo il tempo. Per me non lo è mai stato.

lunedì 15 aprile 2013

I'm a rocker baby, sarà il caso di farsene una ragione




Autostrada Milano Venezia. Notte fonda. La moto si lascia inghiottire dal buio e il mondo, almeno quello che posso credere esista ancora del mondo, è tutto concentrato nel triangolo di luce gialla proiettato dal mio faro. “Mister state trooper please don't stop me”. Sono i versi della canzone che corrono dentro il mio casco la notte, durante i viaggi lunghi. Sempre gli stessi. Parlando con gli altri motociclisti scopri che la maggior parte cantano mentre guidano, soprattutto durante i tragitti lunghi. Del resto andare in moto è in ogni caso confrontarsi faccia a faccia con se stessi, che altri interlocutori non ce ne sono anche quando hai un passeggero a un tiro di spalla. E allora hai il tempo di raccontarti le tue storie, di prendere la misura della memoria e di lasciare che passione, emozioni e follia giochino sul ciglio dell’attenzione che la strada pretende. E a un certo punto cominci a ripetere “Mister state trooper please don't stop me”. Giri e rigiri su quel verso e soprattutto sul battito della chitarra, ché tutto quel disco si regge su quel pulsare che nel tempo è diventato quello del tuo cuore, delle tue tempie, della tua anima se mai ne avrai una. Un mantra da ripetere a casco aperto, lasciando che l’aria ti soffi su quei versi a fior di labbra, perché quando canti in moto basta il gesto delle parole, tanto i suoni, tutti i suoni possibili, sono già ostaggio del motore. Sull’autostrada in quel momento, malgrado la notte avanzi, c’è molto più traffico del solito e mi immagino siano tutti reduci dalla mia stessa serata e forse non è nemmeno un’idea così balzana. Siamo a cavallo tra il 19 e il 20 aprile del 1999, ci stiamo spendendo le ultime lire prima dell’arrivo della moneta unica e non ne abbiamo grande consapevolezza. Stiamo finendo anche i giorni di un secolo e di un millennio e, a parte vaghe nozioni di un imminente collasso delle tecnologie che si rivelerà piuttosto la formula moderna del millenarismo medievale, anche di questo passaggio portiamo addosso vaga consapevolezza. Quella sera lì a Milano c’è stato il concerto di Bruce Springsteen che per questa tournée ha rifatto corpo unico con la leggendaria E Street Band, per la gioia di milioni di appassionati e per la mia gioia in particolare, considerato che quando viaggi chiuso in un casco gli orizzonti percepiti si riducono parecchio. “Mister state trooper please don’t stop me”.

La prima volta che incontrai Bruce Springsteen mi portavo addosso i miei quindici anni, che so ricordarmi per l’odore di miscela del motorino che mi serrava la maglietta in una morsa fatale che probabilmente contribuiva a tener lontane le ragazze. Tutti noi dei palazzi avevamo qualcosa che teneva lontane le ragazze ma non avevamo percezione di cosa fosse. Probabilmente erano i palazzi stessi a formare una sorta di triangolo delle Bermuda delle passioni, inghiottendo ogni nostra possibilità.
La prima volta che incontrai Springsteen sarà stato il 1980 a occhio e i miei quindici anni lavoravano sodo per costruire quel baluardo di passione fatto di canzoni e film e libri e fotografie che da lì in poi mi sarei portato dietro come un cantiere infinito, sorta di Sagrada Famiglia della memoria personale e difesa attiva contro il tempo e il peggiore dei mondi per tutte le volte che m’è capitato di incontrarlo.
La prima volta che incontrai Bruce Springsteen avevo un paio di cassette C90 vergini. Per la cronaca duravano abbastanza da farci stare un LP per ogni facciata. Sempre per la cronaca che ormai i nostri giorni respirano a fatica dietro al tempo di questa maledetta tecnologia mutante, gli LP erano i dischi in vinile grandi, quelli con la copertina che potevi godertela come un quadro d’autore e con le note belle chiare da leggere e lo scaffale pronto ad accoglierli per l’orgoglio tuo e della stanza.
La prima volta che incontrai Bruce Springsteen me ne restavo lì nel salottino dell’amico ricco, quello con la villa e la faccia da secchione. Quello secchione oltre la faccia. Quello che ora lavora in banca e la cravatta ce l’aveva tatuata sul petto già da bambino. Quello che comprava i dischi a decine e centinaia per il bell’esercizio di potere che attivi quando puoi comprare sempre e tutto. Toccava difenderlo a scuola e tenerselo buono quello lì, che aveva tutti quei dischi, che se ci fosse stata una giustizia su questa terra sarebbero spettati a me per diritto naturale e anche per quel prezzo che avevo pagato di palazzoni in periferia e motorini truccati e botte e risate sghembe e voglia di femmine da lasciarmi tramortito. Tutta roba che correva in quelle canzoni. Ma ancora non lo sospettavo. La madre del secchione mi aveva detto di aspettare perché lui era di sopra a studiare avvolto nelle sue camice stirate come in un sudario. Restavo lì, in piedi, con le mie cassette caccolose, forse riciclate col pezzotto di nastro adesivo teso sulla finestrella che impediva di registrare nastri già incisi. Una vita di pezzotti tesi tra l’aorta e l’intenzione, ma questa storia stava in un altro disco che pure scoprivo in quei giorni lì. Quella era una stagione confusa dal punto di vista delle scoperte e i cantautori e il punk s’accoppiavano in razza bastarda nelle mie cassette. Lo stereo non ce l’avevo ma m’ero comprato un radioregistratore, radione dicevamo noi che ignoravamo quanto sarebbe stato più figo chiamarlo ghetto blaster, e le cassette giravano tutto il giorno a pieno regime. Ne avevo anche di originali. Ma tutto questo, il pugno di terra in cui potevi tenere il mio mondo e ci stava comodo, in quel momento non esisteva. Ero nel salotto di quell’altro e c’erano i mobili antichi e lo stereo come la consolle di un astronave e centinaia di dischi in fila ordinata. Diceva che la passione della musica gliel’aveva passata suo padre che ascoltava la classica. A casa mia sentivamo la radiolina a pile in cucina e c’era la trasmissione Chiamate Roma 3131 ma noi non potevamo anche con la più buona volontà perché il telefono non ce l’avevamo. Una vita tagliato fuori. Poi quell’altro lì s’è deciso a smettere di studiare, che eravamo entrambi al ginnasio, io in bilico sui paradigmi dei verbi greci che dalle mie parti nessuno frequentava e che gettavano ombre sul mio onore che continuamente dovevo riposizionare, e lui totalmente proiettato nel suo futuro professionale con la cravatta tramandata di padre in figlio come un’arte. Con un futuro stabilito in cui la padronanza delle lingue morte e la messa domenicale erano un accessorio indispensabile nell’ipotesi di esprimersi da lì a sempre con un timbro picchiato giù duro sulle carte di competenza. Giù, bang, di peso, sulla proiezione della vita di millanta poveri cristi che mettevano a nudo il loro cuore e il loro giorno sul tuo tavolo aspettando speranzosi che scendesse in picchiata guidato dalla tua mano santa, il timbro giusto. Anche questo c’era in quelle canzoni e ancora non lo sapevo. Ho sorriso e mi costava mille punti d’orgoglio essere lì ma era quell’apnea che dovevo sopportare per poter riempire la mia stanza ancora una volta di musica. Lui mi stendeva le copertine sul divano e mi mostrava gli ultimi acquisti. Il valore di quella merce sembrava essere proprio il lasso temporale che correva dall’arrivo nelle vetrine del negozio alla planata nei suoi scaffali. L’ultimo disco di qualcuno era sempre il più ambito. Come se da lì a poco solo l’apocalisse. Senza sospettare che la morte di quel mondo di vinile premeva davvero alle porte e noi ormai c’eravamo stufati di guardare dagli spalti il presagio dei Tartari e delle loro orde, convinti che quel nostro mondo sarebbe stato per sempre. Per sempre i palazzi, i motori che ti sporcavano le mani e il campetto col pallone e le risse e quella maledetta voglia. Tutto stava anche in quelle canzoni e ancora non lo sapevo e mai avrei immaginato che quelle notti nostre con le gare nei viali vuoti e qualche birra calda sul muretto avrebbero avuto altra dignità se ricollocate in una Jungleland di competenza. L’avessi saputo che le mie notti avevano diritto d’essere portate dal sax dell’uomo gigante. Invece quello lì, il secchione per capirci, mi fa vedere ‘sto disco che si intitola Born to Run e di primo acchitto mi incuriosisce, che quella faccia è roba che so misurare d’istinto. Poi leggo sull’angolo e c’è una scritta in italiano che recita qualcosa come Il nuovo Bob Dylan. Le regole di strada e del rispetto le conosco, magari i paradigmi dei verbi greci meno, e me lo immagino che se uno è disposto a farsi scrivere una cosa così sul suo disco è uno loffio che non gli disturba l’idea d’essere un avanzo del pranzo di un altro e non merita di riempire un lato delle mie cassette. Passo a un altro disco ma mi resta un dubbio.


Ci sono dei lampeggianti blu e macchine con le doppie frecce. Scalo un paio di marce della moto, anche lei un sogno americano, l’ennesimo e ci sarà un motivo, saltato in padella con gli ingredienti a disposizione. Guido una Moto Guzzi California, per la memoria di mio nonno e mio padre che guidavano con lo stesso stemma sul serbatoio e per la memoria di un sogno che anche le canzoni di Springsteen mi hanno regalato e che m’ha fatto sentire che nei miei gesti di tutti i giorni, dalla fatica alle notti a correre su una lingua di asfalto, c’era racchiusa tutta la poesia possibile. Qualcuno si è schiantato e a giudicare dal groviglio si sarà già scordato di respirare. Magari era stato anche lui, o lei, o loro, al concerto. Le macchine si accatastano in fila asmatica e io passo con la moto che borbotta a filo di sportelli e tensione. Il poliziotto mi fa segno di andare oltre. Mister state trooper please don’t stop me. Lo vedi che serve cantarsela.


Un giorno me ne stavo sdraiato sul letto in camera e su Linus leggo di questo tizio che è poi lo stesso della copertina che avevo bocciato a casa del secchione. The River, si intitola il disco di cui parlano. Addirittura un doppio. La faccia in copertina è quella lì e sento che devo fidarmi. L’acquisto di un disco doppio per me all’epoca, pure se m’ero dannato a masticarli i paradigmi dei verbi greci alla fine, era uno sforzo mica da ridere ed era una stagione che non  portava regali a nessuno e quello che avevi fatto era sempre e solo la metà del tuo dovere. Fratello, hai la faccia mia e la camicia mia e il mio stesso stilista del capello e mi chiedi di stracciarmi le vene sulla fiducia per comprarti il disco. O sei un bastardo o sei un mago. L’uno non esclude l’altro. La cassetta originale, lo dico ormai solo per i cultori del genere, non era doppia come il disco. In un nastro solo ci stava dentro ficcato tutto quel fiume lì di storie. Che mi ha cambiato la vita. Anche a partire da quelle canzoni ho capito che non importava che lavoro facevi e che cosa succedeva nella tua vita perché quello che contava davvero era l’attenzione, le storie minime che a saperle raccontare erano il nesso plausibile, la chiave di lettura privilegiata per cercare di darti una ragione di questo fatto che siamo al mondo e cadiamo e ci rialziamo e piangiamo e ridiamo e crepiamo comunque. Springsteen quella lezione l’aveva imparata a sua volta dai maestri suoi, gli stessi che, a partire da Woody, deciderà un giorno di regalarci come fa lui entrando nella tua vita e lasciando quasi per caso un capolavoro sul tavolo della cucina. E mi ero sforzato di ficcarmi in quel sogno di storie e emozioni ridando un senso alla mia estetica e sognando una Pink Cadillac anche se mi sarei ben guardato dall’andare in giro con un 131 Mirafiori dipinto di rosa per le strade del mio quartiere. Il prezzo che devi pagare. Sono un rocker, piccola, fattene una maledetta ragione. Quelle canzoni stavano diventando cosa condivisa e a diciassette anni mi ritrovo sbalzato a seicento chilometri dai miei palazzi in una nuova strada, in una nuova scuola e nuovi amici da conquistare e sempre quelle maledette voglie e passioni addosso e il muro della diffidenza l’ha rotto per me il vecchio Bruce. Nebraska in quei giorni, uno dei miei preferiti, con i versi da portare scritti a penna sulla borsa di tela. Mister state trooper please don’t stop me. Comincia lì anche questa storia. Ma quelli erano già i giorni di Born in the USA, che poi lo scopriremo che le canzoni di quei due dischi erano arrivate tutte insieme e divise tra solitudine e band. Pivello, mi permettevo di fare quello della vecchia guardia e scuotevo il capo e dicevo che quella roba lì era paccottiglia e invece di nascosto mi piaceva ma era la stagione che le femmine cominciavano a essere a tiro di sorriso e uno un tono se lo doveva dare.Poi c'era quella bandiera americana e Ronald Reagan che strizzava l'occhiolino suo da attore naufragato e signore del mondo che affonda. Avessi solo prestato migliore attenzione a quel testo in apertura, con l'urlo d'essere nato in quel paese che dentro di me era un'idea che combatteva tra sogni e diffidenze. Ma come potevo, ficcatevi nei panni miei di quei giorni turbinosi presi a morsi di carne vera e nulla riuscirete a fare se non ululare I'm on fire alla luna.

Al concerto di Milano non ci sono andato da spettatore. Per anni uno dei miei mille lavori era stato schiantarmi di fatica come facchino e come sicurezza ai concerti. Altro che Ismaele, chiamatemi “George of all trades”. Decine di ore spese nei sottopalchi e servizio agli ingressi e ai camerini e sospeso sulle impalcature. Un modo come un altro per portarmi dei soldi a casa e per vedermi qualche concerto con gli amici. Quando Springsteen arriva in Italia alla testa della E Street Band voglio esserci e voglio stare davanti, dentro, ficcato il più possibile in quel frammento di storia. Telefono a Franco, un fratello con cui ho condiviso parecchio in questi anni, comprese passioni e deliri, e gli chiedo se lui e i suoi lavorano per quella data. Da giurarci. Chiedo di essere del gioco. Chiedo che nella retribuzione ci entri anche un biglietto per Stefania. E poi partiamo in direzione Milano, verso il palaqualcosa. La carovana è già lì e iniziamo a lavorare dalla mattina. Ste resta fuori e se la gira mentre noi ci organizziamo. Il pass che mi consente di entrare dove voglio ce l’ho lì, appeso ancora oggi davanti alla scrivania, e quel giorno verrò avvicinato almeno da venti persone che offrono soldi per averlo a fine concerto. Una reliquia. Ma state chiedendo a quello sbagliato fratelli, io magari vi vendo le parole a peso se ho fame e le scrivo anche come vi piacciono, ma la pelle, quella non me la dovete toccare. E quel giorno si fatica e mi camallo con un roadie americano il contrabbasso di Gary e lo porto sul palco. Custodia bianca rigida. Ci hanno dato delle magliette gialle. Chi mi conosce se lo immagina che affidare la sicurezza a me è come chiedere a un topo di custodirti il formaggio. Invece sto bravo e lavoro per il rispetto che devo a quella fatica che tante volte m'ha garantito una cena.
Poi devono fare le prove e salgono tutti sul palco e suonano per noi che la sera lavoreremo e ora stiamo lì, un pugno di sgangherati, con il mento appoggiato alle tavole polverose. E ci fanno un concerto tutto per noi workin'men e ci scappa pure una versione tutta filata proprio di Jungleland, con tanto di assolo potentissimo. Quel giorno sono caduto nel pentolone della pozione magica di quelli del New Jersey e da lì in poi potrei vivere senza un altro concerto per tutta la vita. Dico così e poi ci ricasco sempre, che siamo gente di strada e mica c'è da fidarsi troppo. Perdonatemi se potete e se non potete ci siamo abituati.

Siamo al 1987 e esce Tunnel of love. Sono tutti in fermento alla radio dove lavoravo e lavoro anche oggi ma il disco esce di mercoledì e la sera c'è Babel e tocca a me e tutti se lo immaginano che terrò in piedi la serata a farlo sentire tutto. Il pomeriggio vado al negozio che mi passa i dischi in cambio della pubblicità. Me ne hanno tenuta da parte una copia. Con il motorino razza Ciao, lo stesso su cui a bomboletta sul fianco ho scritto Johnny 99, sfreccio per la città. Devo arrivare allo stereo subito ma è duro essere un santo in questa fottuta città. Poi le canzoni scorrono e io mi rigiro la copertina e non ci posso credere. Mi sento tradito. Quel disco non mi dice niente. La sera, con i telefoni che squillano impazziti e la gente che mi maledice per non aver mantenuto la promessa, faccio sentire un vecchio bootleg. Quel disco non mi è mai piaciuto e i due che seguiranno ancora meno. Toccherà al fantasma di Tom Joad invitarmi al loro tavolo di nuovo ma capita in tutte le storie tra vecchi amici, che a me gli adepti di qualsiasi cosa mi sono sempre stati sulle balle. E a proposito di tavoli anni dopo, ho cambiato mille case e città in onore alla mia generazione flessibile e sono alla fine capitato a Torino. Succede che sempre più spesso nel mio lavoro che fa battere il tempo della storia con quello delle fotografie e del cinema e della canzone e del fumetto mi capita di incontrare gente che mi chiede se conosco Marco Peroni. Ogni volta dico che ho letto le sue cose ma non ho mai avuto il piacere e tutti a dirmi che dovrei proprio perché c'è qualcosa di indefinibile che ci accomuna. E un giorno di aprile ci ritroviamo in un giardino toscano faccia a faccia, mentre si festeggia un compleanno e anche a lui gli hanno fatto quel giochetto ripetuto del conosci mica Giorgio Olmoti? No? Dovresti. I presupposti perché ci si stia antipatici a vicenda ci sono tutti e stiamo lì uno di fronte all'altro, perché anche qui c'è gente che crede che sia vitale che noi due ci si parli. Certo che sappiamo reciprocamente chi siamo. Mangiamo e beviamo, ci troviamo su quel gesto di riempirci il bicchiere a vicenda e a un certo punto proviamo a parlare. “Tu di cosa ti occupi?” mi chiede lui “Sono un motociclista, arrivo dalle parti del Friuli” “Io gioco da terzino dalle parti della Valle d'Aosta”. Siamo scoppiati a ridere e da lì a scoprire che davvero eravamo legati a filo doppio dalle passioni e dalla stessa colonna sonora c'è voluto pochissimo. Abbiamo fatto libri insieme e lezioni all'università e seminari e spettacoli e soprattutto serate in bilico sulla surrealtà che domina la nostra sfera più intima. Circondati da amici perché tra noi di questa razza qui si finisce spesso per incontrarsi. Riccardo Cecchetti per esempio disegnava per Frigidaire, la rivista più importante di fine millennio e in quelle pagine correvano anche le mie parole sulla musica. Ci conoscevamo senza sospettarci. Com'è piccolo il mondo direbbe qualcuno. Com'è stupido il mondo scapperebbe da dire a noi. E ora Marco e Riccardo sono qui a raccontare una storia che non ha il vizio celebrativo delle discografie ben compilate che troverete ovunque ma parla tagliando a fetta sottile le nostre emozioni con l'invenzione di un personaggio che dentro si porta le canzoni che conoscete senza averle sentite. Perché ora il nostro mestiere passa dalla storia giusto il tempo di ricordarci che la Storia maiuscola forse non esiste. Esistono piuttosto le storie e quella è strada nostra.


Sto lì mentre sistemano l’organo di Danny e pare che agli altri lì attorno non gliene freghi niente. Arriva Franco e mi chiede se posso andare con lui. C’è una stanza e c’è da fare la guardia a una cosa, una cosa sola, e questo quasi fa ridere tutti. Io non rido. Quella Fender lì la conosco segno a segno, l'ho annusata dalle copertine dei giornali e sfiorata nelle fotografie sui giornali e mi mettono lì e mi dicono di non far avvicinare nessuno. Nessuno pare particolarmente coinvolto. I figli di Bruce e Nils sfrecciano con lo skate nei corridoi dei camerini e l’aria è quella della vita attorno al tendone del circo. Un circo dell’Arkansas penso io. Ho la sensazione che di me e della mia passione, che mi ficca una maledetta vertigine dritto nella nuca, qualche cosa si intuisca. Divento amico del responsabile del servizio di palco, un omone barbuto che un giorno scoprirò essere un pezzo fondamentale di quella storia e di lui ora resta la memoria, come per quelli che li fanno e buttano via lo stampo dice una canzone. Vabbè, quell’omone quando tornerà in Italia si ricorderà di me e telefoneranno a Franco per chiedergli, incuriositi anche loro, chi era quello lì della chitarra che ora gli americani lo rivogliono. Quello lì della chitarra, all’epoca, aveva già scritto i suoi primi libri e si occupava di storia attraverso le canzoni e le fotografie e il cinema, a dimostrazione che i paradigmi dei verbi greci alla fine sono denari che vanno spesi. Quello lì era preso a portare in giro il suo ultimo libro e a cercarsi un lavoro nuovo a Torino e a Genova non c’è andato, perdendo il salto per salire al volo sul treno del sogno ancora una volta. Quello lì era impegnato a vivere e aveva una ragazza da amare follemente e inseguire e un figlio in arrivo e una moto da ficcare nella notte, come aveva imparato a fare nelle canzoni e certo Bruce avrà capito. Franco dal canto suo è l'unico testimone del mio pomeriggio con quella benedetta chitarra, sempre sia sognata, e davanti agli altri tutte le volte che la racconterò negherà ridendo. Sono anni che ho smesso di raccontarla questa storia e quando siamo soli io e lui mi prende in giro e mi dice che morirà portandosi il segreto nella tomba. Va bene così dico io. Ci siamo abituati. E c'è ancora della strada da fare. 




Questo non è propriamente un post del blog ma è l'introduzione al libro di Marco Peroni e Riccardo Cecchetti "il mio nome è Joe Roberts" edito da Becco Giallo. Per esigenze editoriali questo brano è stato ridotto ma io ve lo propongo integralmente. Buon viaggio come sempree perdete un paio di minuti per sentirvi un pezzoi dello spettacolo qua sotto che questi son miei fratelli e mica per scherzo..







 

giovedì 4 aprile 2013

Un PEZ alla volta




Non sono sicuro che le caramelle PEZ siano nell'immaginario condiviso degli italiani. Per certo sono uno dei cardini della memoria dei bambini friulani nati negli anni Sessanta, che andavano con la famiglia a comprare la carne e a fare il pieno di benzina in Yugoslavia, Yugo e basta si diceva noi, che all'epoca era tutto uno stato governato col ringhio di Tito. Insomma arrivavi a Caporetto, Kobarid dicono dall'altra parte, e mentre tuo padre faceva la fila per la benzina e tua madre comprava il girello dal macellaio, tu andavi al supermercato e compravi le gelatine all'arancia e al limone fatte a forma di agrume e cariche di zucchero, confezionate in scatole senza scritte e imballate alla brutta, che erano una cosa buonissima e davvero d'oltrecortina. Quelle gelatine lì non le ho più trovate e non penso che le abbiano tolte dagli scaffali perchè poco consone con le normative visto che ancora ieri nelle vetrine dei supermercati sloveni c'era il Rosso Antico, che da noi è fuori legge da qualche decina di anni e se l'hanno messo al bando qui doveva essere davvero micidiale, considerato che a Seveso fino all'ultimo ci siamo raccontati che c'era una bell'aria frizzantina. Comunque da piccoli ce la giravamo per i supermercati della Yugo a un respiro dal confine e non c'era tutta 'sta scelta, anzi. C'era un Vov con le scritte in cirillico, magari non era nemmeno Vov, e non chiedetemi perchè ma, se stavamo buoni la sera, a me e mio fratello ce ne davano un bicchierino. Poi dice che in Friuli c'è la piaga dell'alcolismo. Altro non c'era sugli scaffali. Biscotti al cocco, budini alla fragola, vigliacco se li trovavi in Italia a quel gusto lì e poi si andava alla cassa stringendo nelle mani piccole un pugno di dinari. Già, era lì alla cassa che restavi paralizzato davanti all'espositore delle PEZ. Si trattava di aggeggi di plastica parecchio simili, uguali direi anche per concezione tecnologica, al caricatore di una pistola. In cima avevano la testa di un personaggio, e si spaziava dalla banda di Topolino e Paperino per giungere a Hanna e Barbera, passando da buffi spaziali e streghe e mostri. Tu spingevi all'indietro la testa, come a sgozzare il personaggio, e si apriva il caricatore e ci infilavi, proprio come faresti con una Beretta o una Browning, delle caramelle proiettile che si impilavano una sull'altra premendo su un aggeggio a molla. Davvero educativo come gesto, da lì a fare una strage a scuola c'era solo la distanza incolmabile dettata dal costo alto delle pistole vere, ma tu potevi ben dire, dopo aver caricato cinque o sei PEZ, di essere pronto a prendere la strada del bosco e a darti alla clandestina lotta. Del resto quelli erano gli anni della guerra fredda e quel confine lì era pesantissimo da questo punto di vista e l'aria di tensione internazionale riverberava nei nostri giochi ambientati nello spazio e sulla luna, cresciuti nella suggestione di quella gara a chi aveva il missile più lungo, che vedeva confrontarsi i due blocchi. Ma la malaeducazione che scaturiva dall'utilizzo delle PEZ non si limitava alla dimestichezza che acquisivi nell'eventuale uso di armi da fuoco. Ogni volta che ne prendevi una o la offrivi, era figo offrirle generando stupore anche se ce le avevano tutti e a stupirsi non c'era nessuno, il gesto era quello dell'accendino. Enfatizzavi il gesto degli adulti, che all'epoca fumavano anche quelli nel polmone d'acciaio e per anni ho creduto che certi film fossero stati girati nella nebbia perchè al cinema si generava una cortina spessa che rendeva oniriche le storie magre proposte sullo schermo dei cinema di terza visione. Ma torniamo alle PEZ. Tiravi indietro la testa del personaggio e lui, a spalancagola, offriva la caramella proiettile, che si generava direttamente dalle sue viscere. Bellissimo. Poi potevi comprarti le ricariche ma il gusto vero era conquistare il personaggio nuovo. In auto ho sempre con me un caricatore di PEZ pronto all'emergenza. Sempre carico. Gusto fragola.
Venerdì stavo andando in Francia da strade secondarie. Sul passo del San Bernardino, tra Piemonte e Liguria, proprio in cima, con le pale eoliche che risvegliano il Quixote che è in me, c'è un albergo abbandonato. La suggestione filmica e l'idiozia militante che mi caratterizzano m'hanno spinto a curiosare dentro quelle stanze. C'era una soglia di marmo coperta di ghiaccio e ho fatto un volo da bell'arte circense. Cadendo la mano se ficcata in un tronco marcio e mi sono ritrovato con il dito medio della sinistra totalmente disarticolato e deciso a rimanere in una posizione davvero buffa e fuori dall'ordinario. Il resto della tribù rideva a tenersi la pancia e mi sono steccato con un ramo, come una giovane marmotta terminale. Ridevo anche io, fino alle lacrime. La sera ci siamo fermati a dormire in Liguria a Cisano dove mi sento di segnalarvi il Bar sport che non è un bar ma una clamorosa trattoria dove vado a mangiare spesso. La mattina, mentre mi rifacevo la stecca al dito medio, che persisteva nella sua posizione contro ogni logica anatomica, m'è venuta l'illuminazione e al posto dell'ennesimo ramo ho usato il caricatore delle PEZ. Me ne sono andato in giro per la Costa Azzurra con una sorta di braccio bionico che dal dito medio, sovrastato dalla testa di Pippo, mio personaggio totemico, distribuiva caramelle. Sono belle soddisfazioni. Poi dopo cinque giorni sono andato all'ospedale a Torino e ora ne ho per una cinquantina di giorni e pregare che vada bene e mi sono fatto pure coprire di insulti da medici e paramedici. Però è noto che io tengo più al mio pubblico che alle mie dita. Per male che vada mi toglieranno un PEZ.