L’esposizione al riverbero del dolore. In questi giorni
faccio i conti con il dolore degli altri. Non parliamo di un dolore denso e
consistente ma di un malessere che si propone in forma d’odore denso e
insopportabile per prendere via via peso e concretezza e poggiarsi come una
cotta di maglia gravosa ma studiata al contrario, per lasciar penetrare tutte
le lame e le punte senza lasciarle andar via. Mai. Pesante di metallo dunque il
dolore. Con un sapore di metallo e un odore ancora di metallo. Non c’è artificio
retorico che possa agevolare quell’unica tremenda constatazione metallica che
s’appoggia alle tue ossa e pesa di dolore. Sono passato di casa in casa, di
città in città e certamente mi son regalato sorrisi e abbracci e la necessità
di constatarci vivi oltre il labile segnale di leggerci in rete, chè noi nativi
analogici non troviamo sazietà nel racconto del reale in pixel e giga e sempre
cerchiamo di ficcarci negli odori e nelle voci e questo ci salva. Ho fatto i
conti con la mia memoria domestica più consistente e ho misurato nel sorriso
dei più piccini il senso compiuto dell’immortalità. Ho diviso parole al tavolo
con quella mia solita foga dell’arrivare e partire. Sono stato bene ma su tutto
incombeva il dolore che necessariamente andavo a incontrare poi. Rimandando e
versandone un altro ma ritrovandolo tra le pieghe del tovagliolo e nelle ombre
che passavano rapide. Dopo alcuni giorni in giro sono tornato a casa e nel buio
degli ultimi cento chilometri sotto una pioggia notturna e prepotente parlavo
con Ste, e facevamo il conto dei dolori attraversati. Perché in questi giorni
ci siamo misurati con il terror panico di chi non vuol morire e il dolore sordo
di chi insegue fantasmi incessantemente, spiando l’errore della tua felicità e
ripetendo che su di te s’è posato davvero l’occhio benevolo della fortuna, in
beffa alla fatica maledetta che hai fatto per metterti in tasca una vita dove
poter dare un volto alla lealtà e al sorriso, e poi vite collocate sul filo di
racconti sospesi e sempre quest’ombra di morte con cui non sapevamo
compiutamente misurarci. Di fronte alla diffusa pratica del dolore tendo a
portare con timidezza la mia vita bella che pure mi sono conquistato a morsi e
senza regali. Eppure lo sentivamo che la maledizione del dolore è che non ti
lascia salvo mai, come il peggiore dei virus. La risposta al dolore è la
nozione consistente del respiro. Poi non ci riguarderà più nulla, nemmeno il
dolore medesimo. Della morte ci si occupa da morti, non è questo il tempo. Per
me non lo è mai stato.
"e io piangerò e saranno lacrime di silicone, perchè il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell'emozione." blughost
lunedì 29 aprile 2013
lunedì 15 aprile 2013
I'm a rocker baby, sarà il caso di farsene una ragione
Autostrada Milano Venezia. Notte fonda. La moto si lascia inghiottire
dal buio e il mondo, almeno quello che posso credere esista ancora del mondo, è
tutto concentrato nel triangolo di luce gialla proiettato dal mio faro. “Mister
state trooper please don't stop me”. Sono i versi della canzone che corrono
dentro il mio casco la notte, durante i viaggi lunghi. Sempre gli stessi.
Parlando con gli altri motociclisti scopri che la maggior parte cantano mentre
guidano, soprattutto durante i tragitti lunghi. Del resto andare in moto è in
ogni caso confrontarsi faccia a faccia con se stessi, che altri interlocutori
non ce ne sono anche quando hai un passeggero a un tiro di spalla. E allora hai
il tempo di raccontarti le tue storie, di prendere la misura della memoria e di
lasciare che passione, emozioni e follia giochino sul ciglio dell’attenzione
che la strada pretende. E a un certo punto cominci a ripetere “Mister state
trooper please don't stop me”. Giri e rigiri su quel verso e soprattutto sul
battito della chitarra, ché tutto quel disco si regge su quel pulsare che nel
tempo è diventato quello del tuo cuore, delle tue tempie, della tua anima se
mai ne avrai una. Un mantra da ripetere a casco aperto, lasciando che l’aria ti
soffi su quei versi a fior di labbra, perché quando canti in moto basta il
gesto delle parole, tanto i suoni, tutti i suoni possibili, sono già ostaggio
del motore. Sull’autostrada in quel momento, malgrado la notte avanzi, c’è
molto più traffico del solito e mi immagino siano tutti reduci dalla mia stessa
serata e forse non è nemmeno un’idea così balzana. Siamo a cavallo tra il 19 e
il 20 aprile del 1999, ci stiamo spendendo le ultime lire prima dell’arrivo
della moneta unica e non ne abbiamo grande consapevolezza. Stiamo finendo anche
i giorni di un secolo e di un millennio e, a parte vaghe nozioni di un
imminente collasso delle tecnologie che si rivelerà piuttosto la formula
moderna del millenarismo medievale, anche di questo passaggio portiamo addosso
vaga consapevolezza. Quella sera lì a Milano c’è stato il concerto di Bruce
Springsteen che per questa tournée ha rifatto corpo unico con la leggendaria E
Street Band, per la gioia di milioni di appassionati e per la mia gioia in
particolare, considerato che quando viaggi chiuso in un casco gli orizzonti
percepiti si riducono parecchio. “Mister state trooper please don’t stop me”.
La prima volta che incontrai
Bruce Springsteen mi portavo addosso i miei quindici anni, che so ricordarmi
per l’odore di miscela del motorino che mi serrava la maglietta in una morsa
fatale che probabilmente contribuiva a tener lontane le ragazze. Tutti noi dei
palazzi avevamo qualcosa che teneva lontane le ragazze ma non avevamo
percezione di cosa fosse. Probabilmente erano i palazzi stessi a formare una
sorta di triangolo delle Bermuda delle passioni, inghiottendo ogni nostra
possibilità.
La prima volta che incontrai
Springsteen sarà stato il 1980 a occhio e i miei quindici anni lavoravano sodo
per costruire quel baluardo di passione fatto di canzoni e film e libri e fotografie
che da lì in poi mi sarei portato dietro come un cantiere infinito, sorta di Sagrada Famiglia della memoria personale
e difesa attiva contro il tempo e il peggiore dei mondi per tutte le volte che
m’è capitato di incontrarlo.
La prima volta che incontrai
Bruce Springsteen avevo un paio di cassette C90 vergini. Per la cronaca
duravano abbastanza da farci stare un LP per ogni facciata. Sempre per la
cronaca che ormai i nostri giorni respirano a fatica dietro al tempo di questa
maledetta tecnologia mutante, gli LP erano i dischi in vinile grandi, quelli
con la copertina che potevi godertela come un quadro d’autore e con le note
belle chiare da leggere e lo scaffale pronto ad accoglierli per l’orgoglio tuo
e della stanza.
La prima volta che incontrai Bruce
Springsteen me ne restavo lì nel salottino dell’amico ricco, quello con la
villa e la faccia da secchione. Quello secchione oltre la faccia. Quello che
ora lavora in banca e la cravatta ce l’aveva tatuata sul petto già da bambino.
Quello che comprava i dischi a decine e centinaia per il bell’esercizio di
potere che attivi quando puoi comprare sempre e tutto. Toccava difenderlo a
scuola e tenerselo buono quello lì, che aveva tutti quei dischi, che se ci
fosse stata una giustizia su questa terra sarebbero spettati a me per diritto
naturale e anche per quel prezzo che avevo pagato di palazzoni in periferia e
motorini truccati e botte e risate sghembe e voglia di femmine da lasciarmi
tramortito. Tutta roba che correva in quelle canzoni. Ma ancora non lo sospettavo.
La madre del secchione mi aveva detto di aspettare perché lui era di sopra a
studiare avvolto nelle sue camice stirate come in un sudario. Restavo lì, in
piedi, con le mie cassette caccolose, forse riciclate col pezzotto di nastro
adesivo teso sulla finestrella che impediva di registrare nastri già incisi.
Una vita di pezzotti tesi tra l’aorta e l’intenzione, ma questa storia stava in
un altro disco che pure scoprivo in quei giorni lì. Quella era una stagione
confusa dal punto di vista delle scoperte e i cantautori e il punk
s’accoppiavano in razza bastarda nelle mie cassette. Lo stereo non ce l’avevo
ma m’ero comprato un radioregistratore, radione dicevamo noi che ignoravamo
quanto sarebbe stato più figo chiamarlo ghetto
blaster, e le cassette giravano tutto il giorno a pieno regime. Ne avevo
anche di originali. Ma tutto questo, il pugno di terra in cui potevi tenere il
mio mondo e ci stava comodo, in quel momento non esisteva. Ero nel salotto di
quell’altro e c’erano i mobili antichi e lo stereo come la consolle di un
astronave e centinaia di dischi in fila ordinata. Diceva che la passione della
musica gliel’aveva passata suo padre che ascoltava la classica. A casa mia
sentivamo la radiolina a pile in cucina e c’era la trasmissione Chiamate
Roma 3131 ma noi non potevamo anche con la più buona volontà perché il
telefono non ce l’avevamo. Una vita tagliato fuori. Poi quell’altro lì s’è
deciso a smettere di studiare, che eravamo entrambi al ginnasio, io in bilico
sui paradigmi dei verbi greci che dalle mie parti nessuno frequentava e che
gettavano ombre sul mio onore che continuamente dovevo riposizionare, e lui
totalmente proiettato nel suo futuro professionale con la cravatta tramandata
di padre in figlio come un’arte. Con un futuro stabilito in cui la padronanza
delle lingue morte e la messa domenicale erano un accessorio indispensabile
nell’ipotesi di esprimersi da lì a sempre con un timbro picchiato giù duro
sulle carte di competenza. Giù, bang, di peso, sulla proiezione della vita di
millanta poveri cristi che mettevano a nudo il loro cuore e il loro giorno sul
tuo tavolo aspettando speranzosi che scendesse in picchiata guidato dalla tua
mano santa, il timbro giusto. Anche questo c’era in quelle canzoni e ancora non
lo sapevo. Ho sorriso e mi costava mille punti d’orgoglio essere lì ma era
quell’apnea che dovevo sopportare per poter riempire la mia stanza ancora una
volta di musica. Lui mi stendeva le copertine sul divano e mi mostrava gli
ultimi acquisti. Il valore di quella merce sembrava essere proprio il lasso
temporale che correva dall’arrivo nelle vetrine del negozio alla planata nei
suoi scaffali. L’ultimo disco di qualcuno era sempre il più ambito. Come se da
lì a poco solo l’apocalisse. Senza sospettare che la morte di quel mondo di
vinile premeva davvero alle porte e noi ormai c’eravamo stufati di guardare
dagli spalti il presagio dei Tartari e delle loro orde, convinti che quel
nostro mondo sarebbe stato per sempre. Per sempre i palazzi, i motori che ti
sporcavano le mani e il campetto col pallone e le risse e quella maledetta
voglia. Tutto stava anche in quelle canzoni e ancora non lo sapevo e mai avrei
immaginato che quelle notti nostre con le gare nei viali vuoti e qualche birra
calda sul muretto avrebbero avuto altra dignità se ricollocate in una Jungleland di competenza. L’avessi
saputo che le mie notti avevano diritto d’essere portate dal sax dell’uomo
gigante. Invece quello lì, il secchione per capirci, mi fa vedere ‘sto disco
che si intitola Born to Run e di
primo acchitto mi incuriosisce, che quella faccia è roba che so misurare
d’istinto. Poi leggo sull’angolo e c’è una scritta in italiano che recita
qualcosa come Il nuovo Bob Dylan. Le
regole di strada e del rispetto le conosco, magari i paradigmi dei verbi greci
meno, e me lo immagino che se uno è disposto a farsi scrivere una cosa così sul
suo disco è uno loffio che non gli disturba l’idea d’essere un avanzo del
pranzo di un altro e non merita di riempire un lato delle mie cassette. Passo a
un altro disco ma mi resta un dubbio.
Ci sono dei lampeggianti blu e macchine con le doppie frecce. Scalo un
paio di marce della moto, anche lei un sogno americano, l’ennesimo e ci sarà un
motivo, saltato in padella con gli ingredienti a disposizione. Guido una Moto
Guzzi California, per la memoria di mio nonno e mio padre che guidavano con lo
stesso stemma sul serbatoio e per la memoria di un sogno che anche le canzoni
di Springsteen mi hanno regalato e che m’ha fatto sentire che nei miei gesti di
tutti i giorni, dalla fatica alle notti a correre su una lingua di asfalto,
c’era racchiusa tutta la poesia possibile. Qualcuno si è schiantato e a giudicare dal groviglio si sarà già
scordato di respirare. Magari era stato anche lui, o lei, o loro, al concerto.
Le macchine si accatastano in fila asmatica e io passo con la moto che borbotta
a filo di sportelli e tensione. Il poliziotto mi fa segno di andare oltre.
Mister state trooper please don’t stop me. Lo vedi che serve cantarsela.
Un giorno me ne stavo sdraiato
sul letto in camera e su Linus leggo di
questo tizio che è poi lo stesso della copertina che avevo bocciato a casa del
secchione. The River, si intitola il
disco di cui parlano. Addirittura un doppio. La faccia in copertina è quella lì
e sento che devo fidarmi. L’acquisto di un disco doppio per me all’epoca, pure
se m’ero dannato a masticarli i paradigmi dei verbi greci alla fine, era uno
sforzo mica da ridere ed era una stagione che non portava regali a nessuno e quello che avevi fatto era sempre
e solo la metà del tuo dovere. Fratello, hai la faccia mia e la camicia mia e
il mio stesso stilista del capello e mi chiedi di stracciarmi le vene sulla
fiducia per comprarti il disco. O sei un bastardo o sei un mago. L’uno non
esclude l’altro. La cassetta originale, lo dico ormai solo per i cultori del
genere, non era doppia come il disco. In un nastro solo ci stava dentro ficcato
tutto quel fiume lì di storie. Che mi ha cambiato la vita. Anche a partire da
quelle canzoni ho capito che non importava che lavoro facevi e che cosa
succedeva nella tua vita perché quello che contava davvero era l’attenzione, le
storie minime che a saperle raccontare erano il nesso plausibile, la chiave di
lettura privilegiata per cercare di darti una ragione di questo fatto che siamo
al mondo e cadiamo e ci rialziamo e piangiamo e ridiamo e crepiamo comunque.
Springsteen quella lezione l’aveva imparata a sua volta dai maestri suoi, gli
stessi che, a partire da Woody, deciderà un giorno di regalarci come fa lui
entrando nella tua vita e lasciando quasi per caso un capolavoro sul tavolo
della cucina. E mi ero sforzato di ficcarmi in quel sogno di storie e emozioni
ridando un senso alla mia estetica e sognando una Pink Cadillac anche se mi sarei ben guardato dall’andare in giro
con un 131 Mirafiori dipinto di rosa
per le strade del mio quartiere. Il prezzo che devi pagare. Sono un rocker,
piccola, fattene una maledetta ragione. Quelle canzoni stavano diventando cosa
condivisa e a diciassette anni mi ritrovo sbalzato a seicento chilometri dai
miei palazzi in una nuova strada, in una nuova scuola e nuovi amici da
conquistare e sempre quelle maledette voglie e passioni addosso e il muro della
diffidenza l’ha rotto per me il vecchio Bruce. Nebraska in quei giorni, uno dei miei preferiti, con i versi da
portare scritti a penna sulla borsa di tela. Mister state trooper please don’t stop me. Comincia lì anche questa
storia. Ma quelli erano già i giorni di Born
in the USA, che poi lo scopriremo che le canzoni di quei due dischi erano
arrivate tutte insieme e divise tra solitudine e band. Pivello, mi permettevo
di fare quello della vecchia guardia e scuotevo il capo e dicevo che quella
roba lì era paccottiglia e invece di nascosto mi piaceva ma era la stagione che
le femmine cominciavano a essere a tiro di sorriso e uno un tono se lo doveva
dare.Poi c'era quella bandiera americana e Ronald Reagan che strizzava
l'occhiolino suo da attore naufragato e signore del mondo che affonda. Avessi
solo prestato migliore attenzione a quel testo in apertura, con l'urlo d'essere
nato in quel paese che dentro di me era un'idea che combatteva tra sogni e
diffidenze. Ma come potevo, ficcatevi nei panni miei di quei giorni turbinosi
presi a morsi di carne vera e nulla riuscirete a fare se non ululare I'm on
fire alla luna.
Al concerto di Milano non ci
sono andato da spettatore. Per anni uno dei miei mille lavori era stato
schiantarmi di fatica come facchino e come sicurezza ai concerti. Altro che
Ismaele, chiamatemi “George of all trades”. Decine di ore spese nei sottopalchi
e servizio agli ingressi e ai camerini e sospeso sulle impalcature. Un modo
come un altro per portarmi dei soldi a casa e per vedermi qualche concerto con
gli amici. Quando Springsteen arriva in Italia alla testa della E Street Band
voglio esserci e voglio stare davanti, dentro, ficcato il più possibile in quel
frammento di storia. Telefono a Franco, un fratello con cui ho condiviso
parecchio in questi anni, comprese passioni e deliri, e gli chiedo se lui e i
suoi lavorano per quella data. Da giurarci. Chiedo di essere del gioco. Chiedo
che nella retribuzione ci entri anche un biglietto per Stefania. E poi partiamo
in direzione Milano, verso il palaqualcosa. La carovana è già lì e iniziamo a
lavorare dalla mattina. Ste resta fuori e se la gira mentre noi ci
organizziamo. Il pass che mi consente di entrare dove voglio ce l’ho lì, appeso
ancora oggi davanti alla scrivania, e quel giorno verrò avvicinato almeno da
venti persone che offrono soldi per averlo a fine concerto. Una reliquia. Ma
state chiedendo a quello sbagliato fratelli, io magari vi vendo le parole a
peso se ho fame e le scrivo anche come vi piacciono, ma la pelle, quella non me
la dovete toccare. E quel giorno si fatica e mi camallo con un roadie americano
il contrabbasso di Gary e lo porto sul palco. Custodia bianca rigida. Ci hanno
dato delle magliette gialle. Chi mi conosce se lo immagina che affidare la
sicurezza a me è come chiedere a un topo di custodirti il formaggio. Invece sto
bravo e lavoro per il rispetto che devo a quella fatica che tante volte m'ha
garantito una cena.
Poi devono fare le prove e
salgono tutti sul palco e suonano per noi che la sera lavoreremo e ora stiamo
lì, un pugno di sgangherati, con il mento appoggiato alle tavole polverose. E
ci fanno un concerto tutto per noi workin'men e ci scappa pure una versione
tutta filata proprio di Jungleland, con tanto di assolo potentissimo. Quel
giorno sono caduto nel pentolone della pozione magica di quelli del New Jersey
e da lì in poi potrei vivere senza un altro concerto per tutta la vita. Dico
così e poi ci ricasco sempre, che siamo gente di strada e mica c'è da fidarsi
troppo. Perdonatemi se potete e se non potete ci siamo abituati.
Siamo al 1987 e esce Tunnel of
love. Sono tutti in fermento alla radio dove lavoravo e lavoro anche oggi
ma il disco esce di mercoledì e la sera c'è Babel e tocca a me e tutti
se lo immaginano che terrò in piedi la serata a farlo sentire tutto. Il
pomeriggio vado al negozio che mi passa i dischi in cambio della pubblicità. Me
ne hanno tenuta da parte una copia. Con il motorino razza Ciao, lo stesso su
cui a bomboletta sul fianco ho scritto Johnny 99, sfreccio per la città.
Devo arrivare allo stereo subito ma è duro essere un santo in questa fottuta
città. Poi le canzoni scorrono e io mi rigiro la copertina e non ci posso
credere. Mi sento tradito. Quel disco non mi dice niente. La sera, con i
telefoni che squillano impazziti e la gente che mi maledice per non aver
mantenuto la promessa, faccio sentire un vecchio bootleg. Quel disco non mi è
mai piaciuto e i due che seguiranno ancora meno. Toccherà al fantasma di Tom
Joad invitarmi al loro tavolo di nuovo ma capita in tutte le storie tra
vecchi amici, che a me gli adepti di qualsiasi cosa mi sono sempre stati sulle
balle. E a proposito di tavoli anni dopo, ho cambiato mille case e città in onore
alla mia generazione flessibile e sono alla fine capitato a Torino. Succede che
sempre più spesso nel mio lavoro che fa battere il tempo della storia con
quello delle fotografie e del cinema e della canzone e del fumetto mi capita di
incontrare gente che mi chiede se conosco Marco Peroni. Ogni volta dico che ho
letto le sue cose ma non ho mai avuto il piacere e tutti a dirmi che dovrei
proprio perché c'è qualcosa di indefinibile che ci accomuna. E un giorno di
aprile ci ritroviamo in un giardino toscano faccia a faccia, mentre si
festeggia un compleanno e anche a lui gli hanno fatto quel giochetto ripetuto
del conosci mica Giorgio Olmoti? No? Dovresti. I presupposti perché ci si stia
antipatici a vicenda ci sono tutti e stiamo lì uno di fronte all'altro, perché
anche qui c'è gente che crede che sia vitale che noi due ci si parli. Certo che
sappiamo reciprocamente chi siamo. Mangiamo e beviamo, ci troviamo su quel
gesto di riempirci il bicchiere a vicenda e a un certo punto proviamo a
parlare. “Tu di cosa ti occupi?” mi chiede lui “Sono un motociclista, arrivo
dalle parti del Friuli” “Io gioco da terzino dalle parti della Valle d'Aosta”.
Siamo scoppiati a ridere e da lì a scoprire che davvero eravamo legati a filo
doppio dalle passioni e dalla stessa colonna sonora c'è voluto pochissimo.
Abbiamo fatto libri insieme e lezioni all'università e seminari e spettacoli e
soprattutto serate in bilico sulla surrealtà che domina la nostra sfera più
intima. Circondati da amici perché tra noi di questa razza qui si finisce
spesso per incontrarsi. Riccardo Cecchetti per esempio disegnava per Frigidaire,
la rivista più importante di fine millennio e in quelle pagine correvano
anche le mie parole sulla musica. Ci conoscevamo senza sospettarci. Com'è
piccolo il mondo direbbe qualcuno. Com'è stupido il mondo scapperebbe da dire a
noi. E ora Marco e Riccardo sono qui a raccontare una storia che non ha il
vizio celebrativo delle discografie ben compilate che troverete ovunque ma
parla tagliando a fetta sottile le nostre emozioni con l'invenzione di un
personaggio che dentro si porta le canzoni che conoscete senza averle sentite.
Perché ora il nostro mestiere passa dalla storia giusto il tempo di ricordarci
che la Storia maiuscola forse non esiste. Esistono piuttosto le storie e quella
è strada nostra.
Questo non è propriamente un post del blog ma è l'introduzione al libro di Marco Peroni e Riccardo Cecchetti "il mio nome è Joe Roberts" edito da Becco Giallo. Per esigenze editoriali questo brano è stato ridotto ma io ve lo propongo integralmente. Buon viaggio come sempree perdete un paio di minuti per sentirvi un pezzoi dello spettacolo qua sotto che questi son miei fratelli e mica per scherzo..
giovedì 4 aprile 2013
Un PEZ alla volta
Non sono sicuro che le caramelle PEZ
siano nell'immaginario condiviso degli italiani. Per certo sono uno
dei cardini della memoria dei bambini friulani nati negli anni
Sessanta, che andavano con la famiglia a comprare la carne e a fare
il pieno di benzina in Yugoslavia, Yugo e basta si diceva noi, che
all'epoca era tutto uno stato governato col ringhio di Tito. Insomma
arrivavi a Caporetto, Kobarid dicono dall'altra parte, e mentre tuo
padre faceva la fila per la benzina e tua madre comprava il girello
dal macellaio, tu andavi al supermercato e compravi le gelatine
all'arancia e al limone fatte a forma di agrume e cariche di
zucchero, confezionate in scatole senza scritte e imballate alla
brutta, che erano una cosa buonissima e davvero d'oltrecortina. Quelle
gelatine lì non le ho più trovate e non penso che le abbiano tolte
dagli scaffali perchè poco consone con le normative visto che ancora
ieri nelle vetrine dei supermercati sloveni c'era il Rosso Antico,
che da noi è fuori legge da qualche decina di anni e se l'hanno
messo al bando qui doveva essere davvero micidiale, considerato che a
Seveso fino all'ultimo ci siamo raccontati che c'era una bell'aria
frizzantina. Comunque da piccoli ce la giravamo per i supermercati
della Yugo a un respiro dal confine e non c'era tutta 'sta scelta,
anzi. C'era un Vov con le scritte in cirillico, magari non era nemmeno
Vov, e non chiedetemi perchè ma, se stavamo buoni la sera, a me e mio
fratello ce ne davano un bicchierino. Poi dice che in Friuli c'è la
piaga dell'alcolismo. Altro non c'era sugli scaffali. Biscotti al
cocco, budini alla fragola, vigliacco se li trovavi in Italia a quel
gusto lì e poi si andava alla cassa stringendo nelle mani piccole un
pugno di dinari. Già, era lì alla cassa che restavi paralizzato
davanti all'espositore delle PEZ. Si trattava di aggeggi di plastica
parecchio simili, uguali direi anche per concezione tecnologica, al
caricatore di una pistola. In cima avevano la testa di un
personaggio, e si spaziava dalla banda di Topolino e Paperino per giungere a Hanna e Barbera, passando da buffi spaziali e streghe e
mostri. Tu spingevi all'indietro la testa, come a sgozzare il
personaggio, e si apriva il caricatore e ci infilavi, proprio come
faresti con una Beretta o una Browning, delle caramelle proiettile
che si impilavano una sull'altra premendo su un aggeggio a molla.
Davvero educativo come gesto, da lì a fare una strage a scuola c'era
solo la distanza incolmabile dettata dal costo alto delle pistole
vere, ma tu potevi ben dire, dopo aver caricato cinque o sei PEZ, di
essere pronto a prendere la strada del bosco e a darti alla
clandestina lotta. Del resto quelli erano gli anni della guerra
fredda e quel confine lì era pesantissimo da questo punto di vista e
l'aria di tensione internazionale riverberava nei nostri giochi
ambientati nello spazio e sulla luna, cresciuti nella suggestione di
quella gara a chi aveva il missile più lungo, che vedeva confrontarsi
i due blocchi. Ma la malaeducazione che scaturiva dall'utilizzo delle
PEZ non si limitava alla dimestichezza che acquisivi nell'eventuale
uso di armi da fuoco. Ogni volta che ne prendevi una o la offrivi,
era figo offrirle generando stupore anche se ce le avevano tutti e a
stupirsi non c'era nessuno, il gesto era quello dell'accendino.
Enfatizzavi il gesto degli adulti, che all'epoca fumavano anche
quelli nel polmone d'acciaio e per anni ho creduto che certi film
fossero stati girati nella nebbia perchè al cinema si generava una
cortina spessa che rendeva oniriche le storie magre proposte sullo schermo dei cinema di terza visione.
Ma torniamo alle PEZ. Tiravi indietro la testa del personaggio e lui,
a spalancagola, offriva la caramella proiettile, che si generava
direttamente dalle sue viscere. Bellissimo. Poi potevi comprarti le
ricariche ma il gusto vero era conquistare il personaggio nuovo. In
auto ho sempre con me un caricatore di PEZ pronto all'emergenza.
Sempre carico. Gusto fragola.
Venerdì stavo andando in Francia da
strade secondarie. Sul passo del San Bernardino, tra Piemonte e
Liguria, proprio in cima, con le pale eoliche che risvegliano il
Quixote che è in me, c'è un albergo abbandonato. La suggestione
filmica e l'idiozia militante che mi caratterizzano m'hanno spinto a
curiosare dentro quelle stanze. C'era una soglia di marmo coperta di
ghiaccio e ho fatto un volo da bell'arte circense. Cadendo la mano se
ficcata in un tronco marcio e mi sono ritrovato con il dito medio
della sinistra totalmente disarticolato e deciso a rimanere in una
posizione davvero buffa e fuori dall'ordinario. Il resto della tribù
rideva a tenersi la pancia e mi sono steccato con un ramo, come una
giovane marmotta terminale. Ridevo anche io, fino alle lacrime. La
sera ci siamo fermati a dormire in Liguria a Cisano dove mi sento di
segnalarvi il Bar sport che non è un bar ma una clamorosa
trattoria dove vado a mangiare spesso. La mattina, mentre mi rifacevo
la stecca al dito medio, che persisteva nella sua posizione contro
ogni logica anatomica, m'è venuta l'illuminazione e al posto
dell'ennesimo ramo ho usato il caricatore delle PEZ. Me ne sono
andato in giro per la Costa Azzurra con una sorta di braccio bionico
che dal dito medio, sovrastato dalla testa di Pippo, mio personaggio
totemico, distribuiva caramelle. Sono belle soddisfazioni. Poi dopo
cinque giorni sono andato all'ospedale a Torino e ora ne ho per una
cinquantina di giorni e pregare che vada bene e mi sono fatto pure
coprire di insulti da medici e paramedici. Però è noto che io tengo
più al mio pubblico che alle mie dita. Per male che vada mi
toglieranno un PEZ.
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