E la distanza generazionale. Capita spesso che ci si scontri
tra padre e figlio e le incomprensioni crescono e fanno muro e la notte ritorni
da quella vita fuori che ti stai strappando a morsi e magari hai un dolore che
ti manda in risonanza la pelle o un’emozione che vorresti gridare e non hai
voglia di fare i conti con le maledizioni che arrivano da quella stanza da
letto al buio. Poi a tavola, quando ancora ci si incrocia, volano parole grosse
e ti sta stretta questa gerarchia del branco e cominci a girare al largo e le
tue passioni non pulsano più sull’accordo di un sorriso d’approvazione ma
piuttosto trovano altra identità tra quelli come te, stesso odore e stesso
guizzo. Capita anche spesso che il tempo restituisca vecchie pellicole della
memoria, la mia è prevalentemente in bianco e nero, è una scelta che ho fatto
andando su “impostazioni del cervello” e cliccando “scala di grigi” per cui c’è
consapevolezza. E allora cambi l’angolo visuale, e allora sei in altri panni e
non giustifichi tutto, almeno per la certezza che nessuno sarà mai disposto a
giustificare tutto di te, ma riguadagni alla tenerezza gesti e sguardi e
parole. Scopri che hai una casa, l’unica che ti sei permesso, perduta nel bosco,
che è stata l’arena delle nostre condivisioni, perduti dietro i funghi e
spiando gli animali e pescando di frodo. Scopri ancora che se ti guardi nelle
foto lo ritrovi. Scopri che sei padre a tua volta.
In età adolescenziale mio padre lo vedevo poco, come prima
del resto. Era stato un riferimento mica da ridere. Ancora me lo ricordo il
giorno che lo raggiungemmo ad Asiago e lui arrivò nella locanda dove ci eravamo
sistemati con mamma guidando una rumorosissima Guzzi Superalce. Ero timido, una
timidezza che mi fotteva. Con lui non avevo grossa confidenza. Arriva con il
giaccone di pelle nera e la Guzzi. Se lo sai che rumore fa quel monocilindrico
cinquecento sai anche che quando è acceso vibrano tutti i muri intorno. Mi
guarda, e io tutto il viaggio con i trenini locali m’ero dato ansia per questo
incontro in cui volevo fare bella figura e m’ero portato un cinturone con la
pistola da cowboy, come Zagor ma ancora non lo sapevo, e lui si presenta con
quella Guzzi e azzera tutta la mia macchina scenica. Che cazzo me ne facevo ora
di un cinturone di cartone pressato e una pistola finta a confronto con quella
potenza futurista di motore e olio e biella e muscoli grinta officina sole come
canta il bolognese di Pavana che scelsi proprio in adolescenza come riferimento
paterno e allora, direte, te le vai a cercare. Lui mi sorrise e mi disse “sali
che facciamo un giro”.Il mio rifiuto fu categorico. Per nulla al mondo. Alla
fine se ne andò, ingoiato dal sentiero di ghiaia bianca e quel battito del
motore. Dai diciotto anni a ora ho avuto una decina di Guzzi. Per dire.
Avevo la mia passione per la musica, una cosa ossessiva con
pochi mezzi messi in campo. Un giradischi mono a cui avevo collegato le casse
di un’autoradio procurate chissà come in quel quartiere di frontiera. Avevo un
registratorino per le cassette che mio padre aveva comprato nel nome della
santa tredicesima. Collegato con dei fili torti alle stesse casse. Registravo
le canzoni dalla radiolina della cucina, con tutti i rumori di sottofondo. Mia
madre che friggeva, mio fratello che giocava a pallone in corridoio, mia madre
che si incazzava, mio fratello che smetteva per un po’ di giocare a pallone in
corridoio. Facevo partire la registrazione e appena lo speaker riprendeva a
parlare fermavo. Per aver la suggestione di un disco. Di vinili ne avevo tre o
quattro, comprati usati dalla collezione del fratello di Gnagno, che viveva a
Bologna e quindi noi si approfittava. Il fratello di Gnagno faceva il Dams e
arrivava con certi vestiti fighissimi e la moto e il maggiolone e sempre un
giro di figa mica da ridere per cui averci un suo disco era vivere un po’ come
lui. Ora se legge ne approfitto per dirglielo. Insomma la mia stanza era una
canzone continua, sempre con l’impaccio delle tecnologie sghembe. Mi ero
registrato “Radici” di Guccini su una cassetta strausata e a un certo punto de
“la locomotiva” il nastro impazziva per qualche secondo, all’altezza di “sembrava
dire ai contadini curvi” e accelerava e per anni suonandola quella canzone
arrivato a quel punto mi scappava una voce alla Paperino e acceleravo. Mio
padre di musica si interessava poco. Cantava canzoni in auto in un linguaggio
inventato e culminava con “borgo
antico” che sapevamo tutti a memoria e quando leggendo “ragazzi di vita” ho
scoperto che c’era un ragazzino che tutti chiamavano “Borgoantico” e che
cantava rivolto al Tevere mi sono sentito che Pasolini ci aveva rubato una cosa
nostra. Insomma casa mia, grazie a me medesimo, era una continua proposta
sonora e solo ora che faccio i viaggi in macchina e mio figlio attacca l’ipod,
e bada che io e mio figlio condividiamo un sacco di musica e passione, e ci fa
da dj piazzando le sue scelte a volte mi prende un senso vago di vertigine e
guardo il mio di ipod che resta zitto nel cassettino con maledetta nostalgia.
La tecnologia viaggia veloce ma la vita ha sempre gli stessi tempi. Una sera
mio padre è arrivato a casa e ha varcato la soglia della mia stanza, una
branda, un tavolo e i dischi e i libri sparsi come in una cella da ergastolano.
Non mi ha detto niente ma gli si leggeva in faccia che sapeva di giocarsi le
carte migliori. Era stato a cena per lavoro da qualche parte e al ristorante
aveva incontrato un cantante famoso che gli aveva regalato un suo disco con la
dedica. Cito testuale “A Giorgio e Andrea con simpatia… Pupo”. Mio padre mi
porge il disco come una reliquia convinto di aver avuto accesso a quel cuore
nuovo incontrollabile che mi stava crescendo in petto. Lo guardo come il
peggiore dei mentecatti, come l’archetipo di tutti gli idioti proposti pure in
larga misura nel catalogo dell’umanità ma in lui distillato sapientemente. Pupo?
Ma che cazzo me ne faccio. Nell’altra mano ha due fasce di spugna da mettere
sulla fronte, siamo alla fine dei Settanta e usava, con scritto “Pupo fans”.
Poi il disco alla fine lo mettevo lo stesso, il pomeriggio da solo, e ho
imparato la canzone e certe sere la cantavo con gli amici che ridevano e
dicevano ma come cazzo fai a sapere Pupo a memoria. Però è risaputo tra gli
amici che ho questa maledizione della memoria e conosco centinaia di poesie e
milioni di canzoni e allora la meraviglia durava il tempo di attaccare a
cantare con l’arpeggio intimista “Il lungo, il corto e il pacioccone”.
Oggi è oggi e ho quarantasette anni e domenica ce ne siamo
rimasti io e mio padre e mi ha raccontato che la notte sogna di quando lavorava
e la fatica e la rabbia. Avevamo il caffè davanti e quante volte da piccolo
ripulivo il cucchiaino dallo zucchero residuo di quella bevanda nera che m’era
proibita. Ora siamo pari. Nel bene e nel male. E io mi sto preparando a fare un
viaggio per tutta la pianura padana a bordo di un Ciao, il motorino Ciao. Come
quello cdi quando ero ragazzo, quella possibilità d’essere liberi che ancora mi
sento addosso se sento odore di miscela. Non gliel’ho detto a mio padre del viaggio,
non gli dico nulla di quello che faccio, parliamo delle cose che possiamo fare
insieme e delle cose che abbiamo fatto. Delle botte e le urla parliamo poco.
Però mentre organizzavo questo viaggio m’è venuto in mente il mio motorino e
l’ho chiamato Dersu Uzala come il film che vedemmo proprio io e lui al cinema e
in cui lui rivide il padre suo nei gesti di quel vecchio cacciatore perché è
così che va con la memoria e lui con il padre non ci ha mai parlato troppo e a
diciassette anni, guarda un po’, era già fuori casa. Destino genetico il
nostro. E pensando al fatto che la musica è sempre la cifra solida dei miei
pensieri ho immaginato che per questa impresa ci voleva una canzone. “Ciao”
come la canzone di Pupo. Guarda un po’.