lunedì 27 febbraio 2012

la pietra e la lacrima.


mentre leggi fai andare la canzone ma a 'sto punto avresti dovuto anche capirlo come funziona.


Artos è un mio amico. Artos è mio fratello. Artos vive nel cuore della Val Susa. C’è nato e ci è cresciuto e tutto si può dire tranne che Artos non sia maledettamente cresciuto, che da sempre sospetto che per farsi tatuare l’orso sul braccio abbia usato la sua fototessera come modello. Artos di mestiere traffica nella bocca della gente, s’è preso una laurea per farlo e poi è tornato in valle perché uno che è nato lì ha una bella idea di quanto si debba stringere i denti e quindi ha il suo bel da fare a rinforzare le zanne della valle. Artos è un dentista ma non ha la macchinona grossa o la villa con la piscina e son certo che ce ne sono altri come lui ma io conosco lui e gli altri si cerchino un amico che racconta. Artos quando l’ho conosciuto io e per farci una data dobbiamo guardare a diverse ere geologiche trascorse, aveva una Guzzi come la mia e non te lo raccontava neanche d’essere dentista, che lo scoprivi poi, magari quando decideva di darti un’occhiata in osteria e ti toglieva il tartaro con la forchetta.  No, niente da fare, se volevi parlare con lui dovevi passare dal suo bosco, dai suoi castagni. Artos gira con un furgoncino e dentro ha il decespugliatore e mille attrezzi e gli orari dell’ambulatorio sono in sincrono con le stagioni. I castagni stanno lì, sul fianco della montagna e lui la mattina si sveglia, guarda da casa sua, che ora ha cambiato paese ma sta sempre in valle, la montagna quell’altra, quella che spalancheranno, quella di una mattina all’alba che lui se la camminava per fare il pieno di risveglio e un grosso tasso l’ha incrociato e l’ha guardato quasi a chiedergli se avesse notizie su quella fottuta voce che gira in valle. Artos se lo ricorda bene che quel suo castagneto ha cresciuto generazioni e generazioni della sua famiglia e tutti gli anni tocca tagliare l’erba e tenere pulito e poi bagnare deviando al turno tuo il corso della bialera, e poi tagliare il ramo schiantato dall’inverno e ogni volta è un piccolo dolore perché quegli alberi secolari son gente di casa. Artos faceva tutto da solo, anche il frutteto con certe varietà di mela perduta alla memoria e al palato dei più. All’inizio ci incontravamo al bar con quegli altri motociclisti come noi e s’andava in giro e si parlava del più e del meno ma un po’ alla volta s’è scoperto che le nostre vite erano legate a prescindere dal trovarci in un bar. Tutti e due avvinti al bosco e a quell’attitudine al selvatico che è bella distinzione del nostro andare. Insomma prendevo la moto e andavo al castagneto e tagliavamo l’erba tutto il giorno e mangiavamo lì e lui si incazzava perché se mentre andavo di decespugliatore trovavo le fragoline selvatiche mollavo tutto e mi sdraiavo a mangiare. Poi si trattava di deviare l’acqua della bialera e si spostavano pietre e pietre e si bagnavano i campi e quando si bruciavano i rami raccolti in mucchi ordinati si faceva arrivare l’acqua da presso per stare pronti a controllare la fiamma pazza. Adesso a dirla così sembra un’arcadia felice e invece era sudore e bestemmie e puzzavamo come capre morte da un pezzo e per ricompensa Artos mi dava certi tocchi di formaggio che mentre li portavo via in moto c’erano decine di sorci che mi inseguivano ingolositi.
Un giorno mi chiama e mi chiede di andare in valle per un aiuto. Arrivo e lo trovo che si è caricato un pezzo di guardarail sul furgoncino. Un vecchio pezzo che gli stradini avevano smontato e che lui aveva chiesto di poter riutilizzare. Andiamo al castagneto, che è una porzione di montagna mica da ridere e che a seconda di come la guardi è tutta in salita o tutta in discesa. Quando siamo arrivati, maledetta lei, era in bella salita e ci siamo camallati il pezzo di latta pesante su per il sentiero. Con le pale abbiamo scavato e artos non voleva toccare le pietre dei muretti perché mi spiegava che da sempre quelle pietre son nello sguardo di tutti e, se ne sposti una, sposti la memoria di un’intera famiglia, il segno minimo di un passaggio di vita. Abbiamo ficcato il guardarail nel centro del sentiero, dentro la terra e abbiamo puntato a scendere nella bialera che correva sotto. Venite ora piogge che vi abbiamo fatto una maestra trappola e non  vi mangerete più il sentiero. Mentre scavavamo  ho visto una salamandra tra le pietre. Nel bosco mio le salamandre sono un’abitudine, un’invasione misteriosa in certi anni, e l’ho presa in mano per toglierla dal pericolo della pala. Artos l’ha appoggiata alla sua pala e a filo di sussurro e chi lo conosce se lo immagina grossissimo e con la faccia da guerriero preistorico, l’ha portata dall’altra parte del muretto, al sicuro.
Mani grosse per piccole meravigliose attenzioni. Quella cura lì, quel rispetto lì non li può toccare nessuno. Del resto se vedi Artos non ti viene in mente di toccarlo se non per una leggera pacca sulla spalla.
Artos lo incontro  spesso la sera nel cuore della valle, in una osteria tutta nostra, una cosa che se non la conosci non la trovi. Guarda tu. S’è deciso anche a mettersi su internet con un nome dei suoi ma basta e avanza per accordarci e vederci. In quel posto lì si parla, si canta, maledetto lui e la sua ossessione per “cimitero di rose”, si bevono certi esperimenti di erbe e radici con una gradazione variabile dal cimurro di cane al lanciafiamme, si gioca a carte. Una notte stavamo nella vietta lì, sotto il locale e eravamo tornati da un’inutile  esplorazione dei certe lande buie perché al culmine delle grappe Artos s’era messo a raccontare di un roccia che se la colpisci piange e si lamenta. Guidava Drac perché la macchina era sua e perché aveva il fegato oberato da un caffè al massimo. A scanso di ritorsioni, che qui tutto è possibile. Per tutto il tragitto scombussolato eravamo stati seguiti da altri che non sembravano interessati alla nostra curiosità scientifica ma che avevano un sacco di luci sul tetto. Tornati alla base nostra, in mezzo al paese ghiacciato, ce ne siamo rimasti lì a chiacchiera e a un certo punto, mentre ridevo forte della storia della pietra che piange, da un vicoletto è uscita una volpe e stava lì a fissarci, a due metri dai nostri duecento chili in due. Poi tranquilla se n’è andata e Artos m’ha sussurrato “non è bello ridere di certe cose”. Da allora ci credo che le pietre possono piangere. Sempre di più ci credo.

giovedì 16 febbraio 2012

I fatti che contano.

Fai andare la canzone mentre leggi





Vanni nella Udine degli anni Sessanta e Settanta si muove come padrone delle strade e della follia del suo branco. Vanni quei giorni in bilico su un terremoto che spazzerà via tutto, portando con la ricostruzione una ricchezza che nessuno sapeva spendere, li vive con una macchina fotografica in mano e le vene che giocano spade mentre tutti chiamano denari. Vanni comincia da ragazzo con quelli del borgo suo, che la città è divisa in piccoli microcosmi avvitati sul tempo battuto dai bicchieri sul bancone. Coi primi soldi da aiutante fotografo si compra una Gilera 125,  in una stagione in cui gli altri a stento potevano permettersi le scarpe, e per tre giorni fa il giro dell’isolato, giorno e notte, sempre in prima, che lui la moto non la sa guidare. Il terzo giorno il motore sbrodola e si fonde e la moto finisce chissà dove. Restano le rate ma Vanni ha già un’altra idea delle sue, insieme all’altro compare suo che chiameremo Gorilla perché ora, col cervello frullato dai trattamenti obbligatori, ancora se la gira per le strade ma il suo nome vero l’ha inchiodato alla porta della memoria da un pezzo. Comprano un registratore marca Gelosino e vanno in chiesa, a un tiro di sputo da casa loro, e si confessano col registratore acceso. Raccontano di efferatissimi delitti, riti satanici e orgiastici, cannibalismo parentale e canone della televisione mai pagato. La sera poi tutti insieme riascoltano le registrazioni e lo sgomento dei fraticelli e ridono con quelle fottute bocche spalancate e le facce come in un quadro di Ensor. Il lunedi vanno al cineforum che c’è il film horror e portano catene e campanacci e mantelli neri e urlano e si alzano in piedi quando la tensione della pellicola è allo spasmo e ballano e la voce si sparge e la gente va a vedere loro invece del film. Gorilla si infila i pomeriggi in un’edicola votiva ricavata in un muro del centro e quando passa la gente coi vestiti buoni allunga un braccio con la mano tesa, facendolo uscire all’improvviso dal muro, e fa un grido da belva morente. La chiama “richiesta cibo”. Vanni fotografa le facce inorridite. E ridono. Vanni intanto comincia a lavorare per i giornali importanti e fa il fotografo di cronaca. L’estate vanno in piazza e Gorilla si tuffa in mutande nella fontana. Il giorno dopo la foto pubblicata recita “ondata di caldo in città. I turisti cercano refrigerio”. Poi c’è la serie di “giovani eleganti in centro” e il protagonista è sempre Gorilla e il giornale non è mai stato consapevole che il soggetto di mille racconti fotografici era sempre lo stesso. Intanto Vanni insiste a farsi pulsare la roba nelle vene e all’inizio è una delle tante cose, poi rischia di diventare la cosa e basta. Continua a fare foto e a dipingere e vende le sue opere alla gente per strada, nei bar, agli amici. Ha una fottuta mano magica quando scatta e anche l’occhio non lo perde nemmeno quando i pensieri si ingolfano nei giorni di magra. Vanni rinasce mille volte. Trova una miliardaria vecchia e parecchio miliardaria, che lo ripeto così si capisce che è roba consistente, che si innammora di quel suo modo da principe della strada, lui che sta tra gli altri fattoni con un loden e gli occhialetti tondi. Se lo porta via in Svizzera e lo mette a capo di un hotel di lusso. Torna ogni tanto coi vestiti buoni e le valigie firmate e ridiamo e mentre cammina e mi racconta si spara un intera boccia di sciroppo per la tosse a canna, mi guarda e dice, a me mica a uno incontrato sul treno, di essere un po’ raffreddato. Non mi ricordo nemmeno se ho reagito in qualche modo. Poi i suoi ritorni dall’estero si fanno sempre più strampalati. Arriva ancora con i vestiti di pregio ma se li vende tra gli amici. La vecchia pare sia morta o comunque l’ha messo alla porta. Lo diamo per spacciato, che nel caso suo è una definizione parecchio sfaccettata. Poi un giorno a quello che gli è più amico, un altro che ora è sparito nel nulla inseguito dai debiti e per fortuna noi nel nulla ci muoviamo bene e un bicchiere insieme ogni tanto ce lo permettiamo, arriva una cartolna. Vanni ha vinto una cifra pazzesca al casinò di una città europea che non ricordo.  Manda regali assurdi. Torna e davvero gli gira bene. Poi lo beccano in Francia con una valigia di rischio e si fa qualche anno dentro. E non è finita. Lo aspettano anche da noi per presentargli un conto di condanne sparse mica da ridere. Noi lo sapevamo che avevano stritolato lui che era solo il fattorino mentre gli altri continuavano a camminarsela per strada con la faccia pulita e il locale avviato ma quella è la storia sua di sempre. Un giorno lo vediamo arrivare e nessuno ci crede che sia venuto a farsi prendere e gli diciamo levati dal cazzo subito. Non ci potrebbe proprio stare lì al bar, per strada, al cinema. Non è la cosa più salutare per lui ma in quel momento scopriamo che quello è il problema minore. Ha una bestia nei polmoni che se lo sta mangiando e vuole tornare qui a morire. Quello che succede nei mesi successivi non me lo ricordo. Non chiedetemi dove vive, chi lo aiuta, chi lo cura. Non ho nessuna notizia in merito, non sono persona informata sui fatti, come avrebbe detto lui ridendo sul gioco di parole. O forse non ricordo ma non è importante. Può essere che se ne sia stato in campagna a casa di qualcuno, può essere che scorazzasse tra una chemio e l’altra con un motorino trovato chissà dove per le strade, può essere che qualche medico non gli abbia mai chiesto la tessera sanitaria, può essere che qualcuno si sia venduto la tuta da motociclista per pagare certe spese. Vai a sapere. Tutto può essere. Una mattina sento uno strepitio di freni e è lui che a bordo del motorino mi grida “ti ho trovato una vecchia Harley militare in un granaio abbandonata ma non mi ricordo dov’è”. Un motivo per volergli bene ficcato a cuneo tra i mille vaffanculo di cui l’abbiamo caricato. Poi un giorno se lo sono bevuto. L’hanno fermato che era piuttosto fuori forma per via di quella sfiga che gli aveva cambiato il segno da sagittario in cancro e l’hanno messo in gabbia. Nel giro di tre giorni, era un finesettimana, è morto.  Può essere.

Fatti e persone descritti in questa storia sono frutto di invenzione e non esistono nella vita reale. Soprattutto i fatti.

Può essere. Tutto può essere.




mercoledì 15 febbraio 2012

il mattino ha cose in bocca




Entro nel bar per la colazione, che se non si è capito l’esperimento mio di questo periodo è circoscrivere i racconti al bar e al supermercato così da scardinare la trave portante che regge l’esotico che ci arriva a casa dalla televisione e ci giura che l’avventura, la tensione, la passione stanno sempre dall’altra parte del mondo.  Vado al tavolino mio e dal bancone Baffino mi guarda e ride. Che cazzo avrà da ridere questo qui con quattro figli piccoli, il cane morto avvelenato al parco e un tatuaggio del toro sul bicipite, penso io. “Giusto te” dice continuando a ridere “ti stavo aspettando”. Strizzo gli occhi e cerco di ricordare se ho colazioni da pagare. Niente. Pensieri azzerati dal sonno e dal freddo. “Indovina perché?” continua. “Baffino, ma ti pare che la mattina mi metto a rispondere ai quiz. Lasciami stare che la testa mi sta esplodendo e fammi un caffè”. “Caffè, caffè… aspetta… vediamo un po’, dimmi una cosa che ti piace da impazzire”:”Ma che cazzo t’è preso oggi… il giornale dov’è… fammi ‘sto caffè da bravo””Eddai rispondi, cos’è che ti piace da impazzire?” “Le femmine. Scopare Baffì, scopare mi piace da morire, ma non farti troppe illusioni. Mi piace andarmene in giro, il mare, il bosco, tutti posti dove puoi anche scopare in ogni caso, il blues mi piace, ecco il blues mi piace molto e pure andare in moto e leggere e scrivere e i cani e il cibo come dico io… scusa ma me lo fai questo cazzo di caffè o devo andare avanti a far sapere i cazzi miei a tutti”. Nel bar ci siamo io, Baffino e uno che gioca alle macchinette rubagrana che è vispo come un comodino nel camion dei traslochi. “Eddai, cos’altro ti piace” “Cazzo, ora attraverso la strada e chiedo a quelli del kebab di farmi un succo di kebab caldo… un caffè… oddio… il bar, stare al bar mi piaceva molto fino a oggi… leggere il giornale bevendo un caffè mi piaceva parecchio ma ci sto ripensando”. “E il caffè lo bevi da solo?””Ma che cazzo vuoi… ti devo offrire un caffè? Ma non sei il gran visir di questo popò di bar… mollami e fammi ‘sto caffè, peppiacere”. “Sono arrivate le ciambelle di Homer” e gli brillano gli occhi. “Scusa e tu per una cazzata così mi devi rincoglionire a prima mattina… ma anche quelle con la glassa rosa…” “Eh già...””...Mitico”.

lunedì 13 febbraio 2012

regime di pulizia




Da solo a casa. Me ne vado al parco a far correre i cani, che sguazzano in quella putrida polenta di neve fango e sale e merda e resti umani che è il nostro suolo d’abitudine in questo inizio di glaciazione. Ormai l’asfalto o i cubetti di porfido del marciapiede sono un’ipotesi, una possibilità, una antica credenza popolare, che qui è un pezzo che si cammina in un indistinto pastone. Sotto casa mia una signora è scivolata in terra di muso e hanno chiamato l’ambulanza e dal naso le zampillava in sangue alla spina che s’è impastato al sale e al ghiaccio e sono ormai sei giorni che quella memoria di sgozzo si conserva all’ingiuria del tempo grazie al gelo e al sale in un equilibrio perfetto. L’emocromo della vecchia verrà trovato pari pari tra seimila anni, come un mammuth siberiano ma coi trigliceridi più alti. Il parco è a un passo da casa ma io ci vado col magico picàp e non per pigrizia ma per far sgranchire il mezzo, che altrimenti resta spiaggiato sotto casa in attesa dei nostri viaggi, delle nostre partenze in cui ci portiamo giusto il necessario e in quella nozione comprendiamo canoe, chitarre e amplificatori, biciclette, affettatrici, infradito e anfibi, cappelli in numero minimo di duecentosei e di tutte le fogge. Di solito ci portiamo dietro anche l’asciugacapelli che di suo non sarebbe niente ma se dico che è il mio personale la cosa acquista un’altra luce. Ma come al solito state divagando e mi portate fuori tema. Insomma eravamo rimasti che andavo al parco coi cani. Ce li porto non perché abbiano bisogno di muoversi, che è cosa nota che me li porto in giro in ogni dove, ma per fargli ritrovare i loro amici e anche qualche bel nemico che averci dei nemici è sempre un bel vivere. Infatti appena arrivati scoppia una rissa che a dire il vero non viene innescata dai miei. Un grosso cane tardo va ad annusare Jack che per completezza dell’informazione è un cagnetto nero di una decina di chili col pelo tutto arruffato e la tendenza a fare sempre come dice lui. Il cane grosso preso da raptus s’avventa su Jack che non ha paura di nulla mai e che usa una tecnica ormai raffinata nel tempo. Si chiude a palla, scatta a molla e si aggancia alla gola dell’avversario enorme senza più mollare. Stiamo parlando di una cosa impari, un botolino e un enorme pastore tedesco coglione. Nulla di sanguinario ma tanto strepito. Per cui Sciumi che è decisamente più grosso e che di solito si occupa delle cose sue senza tanti penseri, sentendo l’amico gridare parte, e Sciumi che con le persone è timido e schivo coi suoi simili problemi non se ne fa per nulla. Parte una zuffa a dieci cani, tutti i padroni urlano ma senza convinzione. Lo sappiamo tutti che non sta accadendo nulla di grave e si ride. Infatti dopo un po’ ognuno ritorna a annusare l’albero di competenza e Jack cerca disperatamente di trombarsi una cagnetta screziata. La padrona è una ragazza simpatica che mi sorride e dice “quasi quasi le faccio prendere la pillola e che si divertano”. Il chiosco è chiuso e non posso offrire il caffè ma giuro che ci ho pensato. Vabbè, stiamo lì un’ora, mi leggo il giornale e gioco con Lucio che è un enorme schnauzer, stessa razza del mio ma con cinquanta chili di più.  La padrona mi racconta dell’allevamento dove hanno preso il loro schnauzerr gigante e io non mi soffermo su come uno schnauzer nano è entrato un giorno di inverno nel letto di mio figlio piccolissimo decidendo che quella era casa sua e di conseguenza noi i suoi sudditi. Il mio cane ha un concetto preciso del potere. Più sei grosso e meno vali nella sua piramide feudale. Io sono il più grosso di casa. Risaliamo in macchina e siamo tutto uno schifo di neve e fango e chissà cosa. Entriamo in casa e Sciumi nella foga di bere rovescia la ciotola.  Me ne vado in studio e mi metto a lavorare su un video che devo montare da un mese. Ogni giorno mi sveglio e dico “oggi devo montare quel video” e di conseguenza le sequenze giacciono in una cartella del computer in abbandono. Dopo un paio d’ore vado in cucina per farmi un panino, che è un modo lieve di raccontare come in queste circostanze mi regolo col frigo e con le cose varie, e inutili che contiene d’abitudine.  Ed è allora, nel tragitto verso la cucina, che detto così sembra che abito a Versailles e invece son due passi, tre se sei stanco, mi rendo conto che abbiamo ridotto il pavimento una merda. Come uomo domestico io sono un disastro e non vi conviene pensare che ci pensi la femmina domestica, che noi si vive come ci piace ma non necessariamente come piace a voi. Sta di fatto che quando è troppo è troppo. Quando vivevo nella campagna senese un giorno ho pulito con buona lena tutti i marmi della casa, eravamo come sempre in affitto, con un anticalcare riducendo i pavimenti a una sedimentazione di guano di gabbiani. Ora ho imparato la lezione e decido che ci vuole l’attrezzatura. Vado al supermercato solito e comincio a leggere le etichette, a soppesare spazzoloni e secchi e strofinacci. A casa ho già tutto ma decido di rinnovare l’attrezzatura di rigoverno. Compro un mocio enorme con il ricambio e un asta assurda, un secchio dedicato con rullo strizzastraccio e sgocciolatoio, cinque sei bottiglioni di qualcosa con la dicitura “non ingerire e tenere lontano dalla portata dei bambini”.  Chiedo lumi alle signore che si fanno intenerire da questo omone casalingo e sono prodighe di consigli e sorrisi e mi rimbambiscono e mi caricano di prodotti e mi ritrovo anche un bombolotto di qualcosa per lucidare i mobili. Balbetto e queste mi continuano a seguire verso le casse e si sono aggiunte un paio di addette del supermarket che già mi conoscono e ridono e mi chiedono come mai.  Arrivo alla cassa con passo dondolo che sembro le truppe cammellate alla conquista delle colonie. Non saprei dire esattamente qual è la dinamica ma sta di fatto che arrivato al corridoio della cassa mi intrigo con le attrezzature e i flaconi e le spugne e il secchio e cado rovinosamente a terra. Mi faccio un male cane alla spalla ma son troppo umiliato per lamentarmi e ripeto meccanicamente “non è niente, non è niente” mentre tutte le signore mi radunano le merci sparse e mi toccano le braccia e il collo e insomma mi toccano tutto, che qualcuna anche se non sono un pezzo di pregio coglie la palla al balzo per ripassare la materia. Pago e esco con le cassiere che ancora ridono e si raccomandano. Arrivo a casa e Ste è tornata. Quando mi vede e soprattutto quando vede il conto che m’ha asciugato il budget della settimana, vitto e alloggio e piccole spese compresi, lei che non si incazza mai e di solito ride stavolta non la prende benissimo. Allora le racconto la disavventura e dico che mi son fatto molto male a una spalla e a quel punto pare proprio che si stia incazzando e anche Jack va a ficcarsi sotto la credenza. A quel punto sorrido e le dico “Maddai, sto scherzando, figurati se davvero mi facevo una figura così al supermercato. Minchia ma davvero ci hai creduto. Ma lo vedi quanto sei scema”. Resta il fatto che ho comprato inconsulto un set per pulire lo stadio dopo il derby ma vabbè. Poi Ste mi dice che siamo a cena da altra gente e ci siamo presi l’impegno di fare la lasagna. Torniamo al supermercato e tutto subito non realizzo cosa sta per succedere. Appena entriamo le cassiere cominciano a trillare “Come stai? Ti fa ancora male la spalla? Ma che tenero, voleva pulire tutta la casa?”.  Ste mi guarda solo e in quello sguardo c’è concentrata la portata distruttiva di un uragano. L’incazzatura dura fino al reparto frutta e verdura perché è lì che mi inginocchio, tra le patate e gli ananassi e le chiedo scusa con le mani giunte e il guanto di plastica trasparente ancora infilato. Per drammatizzare afferro una clementina e me la batto sulla testa con gesto pesantemente autopunitivo. La gente guarda, le cassiere ridono ma quelle ridono sempre, a volte anche quando io non ci sono. Lei non si trattiene, scoppia a ridere a sua volta e dice “Smetti di fare il cretino” che a dirlo a me investi le tue parole in bond ellenici. Ci sono uomini di casa e uomini di casino.





giovedì 9 febbraio 2012

Da Timothy Leary ai puffi. Storie di funghi e di fango.




Ballavo tra i venti e i ventuno e vivevo insieme a un mucchio di gente. Un numero mai determinanto con picchi d’affollamento e altri giorni a misurare l’eco solitario dei passi miei su una scala di legno vecchia come un galeone. Un giardino che diventava orto e che dividevamo con una donna di quasi cent’anni che si chiamava Venere e c’è da dire che se ti chiami così puoi averci addosso i morsi del buono e del cattivo tempo ma ti resta un fascino che non son buono a dire. Venere tutte le mattine partiva con la bicicletta e quando dormiva nella casa accanto le tornavano agli occhi certe cose della vita sua e gridava e bestemmiava e combatteva i sogni e gli incubi con quella forza sua.  Poi c’era il canale, la roggia e oltre, dopo certe casette di marzapane e sudore, c’era e c’è Villaggio Metallico con le baracche e le roulotte e le grigliate e la musica e i cavalli a pascolare davanti al cimitero. Dall’altra parte c’era il campo di atletica e un numero impossibile di osterie e bar. Avevo una 127 verde che stava in piedi con il nastro adesivo e non per modo di dire, proprio grazie a vari giri di nastro passati nei punti vitali. La stanza nostra era quella di mezzo, che la casa si sviluppava come una torre e avevamo una terrazza enorme che era poi il tetto del piano di sotto. In quella stanza ci stavamo giorno e notte ficcati nel letto a impazzire di noi ma detto così sembra una canzone di Baglioni e invece era una cosa da misurare con la scala Mercalli, che il giorno dell’esame della patente son rimasto impigliato nelle lenzuola e non mi sono presentato ma rifarei uguale mille altre volte. Poi c’erano gli altri esami, quelli dell’università, e si stava la notte sbattuti sul divano verde sfondato da me medesimo un giorno che c’eravamo imbenzinati di ananas e non mi ricordo che alcolici. Libri e dispense aperti in giro, gente aperta in giro, casino sempre, senza tetto né legge e sigarette accese e latte e biscotti alle tre di notte e musica con le cassette. Sul campanello c’era scritto “Baudo Pippo”.  I soldi erano una cosa che più che altro intuivamo. Appena c’era odor di moneta in giro ce ne andavamo a cena e facevamo delle feste a bestia e poi si passava i giorni a organizzare dei pasti in bilico sull’esistenza, prendendo il pane dalle ceste della mensa universitaria e l’altro cibo in mille altri modi che non ho voglia di descrivere perché non mi è chiarissimo il concetto di prescrizione. Scherzo ovviamente. Ci hai creduto faccia di velluto. Ecco, ora che mi son messo in piedi un’alibi mica da ridere proseguo con il racconto. Un giorno di settembre stavamo facendo i conti con le bollette o forse con la cena, vai a ricordarti. Eravamo al bar che noi chiamavamo in confidenza Cicorione per la qualità del suo caffè che ricordava certi splendidi succedanei d’autarchia. Sul giornale leggiamo che cercavano gente per la vendemmia a Buttrio. La fame batteva alla porta e mica per scherzo. Si decide. Io e Jump, abili e arruolati tra i procacciatori di cibo in ragione della forza delle braccia, che nemmeno l’uomo di Cro Magnon aveva una struttura sociale così raffinata. Raccogliamo i soldi rimasti tra tutti per un fondo di benza da regalare alla 127 e partiamo alla volta delle vigne. Arrivati lì ci prendono al volo ma ci dicono di tornare dopo pranzo. Abbiamo due spiccioli, che poi è il capitale di tutta la comunità, e decidiamo di mangiare un boccone per metterci in forze. Entriamo in una casa osteria, con la famiglia che vive dove mesce il vino e affetta il salame per i clienti. Ci sediamo al tavolo e alla signora che ci sorride diciamo “Mangiamo quello che si può mangiare con milleottocento lire”. Ci porta due piatti enormi di penne al ragù, ci chiede se siamo lì per lavorare nelle vigne, ci porta il bottiglione del vino e un pezzo significativo di formaggio. Capisce che siamo intimiditi e ci dice di magiare quello che vogliamo. Praticamente ci regala un pranzo che ci convince ancora una volta che tocca vivere tutto quello che si può. Pure il caffè ci porta e pure la grappa per correggerlo. E ci sorride mentre ci alziamo e ci guarda andare via con una tenerezza che per me non è d’abitudine sentirmi addosso. Usciamo e c’è il sole e siamo felici oltre ogni lecita misura. Addormentarci nell’erba davanti alla chiesetta è un lampo. Ci svegliamo ore dopo. Proviamo anche a presentarci a quelli della vendemmia che ci mandano via di malo modo. Torniamo a casa e ci trattano come degli imbecilli. Come altro altrimenti. Descriviamo pure il pranzo con un entusiasmo che non ci si cancella.  Arrangiamo la cena e non voglio ricordarmi come. La notte son lì che ci penso a come sfamare la tribù, che mi figuro che faceva così anche l’uomo delle caverne e di colpo mi ricordo. La ceppaia dei pioppini. Ci sono andato mille volte con mio padre e mio fratello da piccolo. Sta in culo ai lupi la maledetta ceppaia ma il periodo è quello buono. In culo a quei lupi poi mi ci sono comprato la casa che a quel prezzo nel resto del mondo ci compravo un monopattino. Per arrivarci prendo la bici da corsa di Jump, una Bottecchia che un tempo fu di un suo zio. La bici aveva i suoi anni e se l’era vista alla pari con Girardengo e Bartali. Parto sotto un cazzo di sole che uccide per andare a raccogliere i funghi della ceppaia, i pioppini che per una vita hanno fatto la magia della cena a casa mia. Pedalo pedalo pedalo. Ancora, pedalo pedalo pedalo. Bevo da una borraccia militare che si ricorda le offensive con i gas sul Carso triestino nella prima guerra mondiale e infatti l’acqua è leggermente gasata. Pedalo pedalo pedalo. Arrivo alla fine sul posto e comincio a frugare sotto i tronchi, tra le vene a fior di terra delle radici. Niente. Vedo le basi dei funghi nel terreno. Un taglio preciso a coltello. Sono stato preceduto. Poi la trovo sul sentiero con un cesto pieno di funghi e è una cazzo di vecchia mammana che quasi quasi le rubo il paniere ma poi lei mi fa un sortilegio e divento un toporagno e allora lascio perdere che con certe cose non si scherza. Giro la bici e torno e pedalo pedalo pedalo. Pedalo pedalo pedalo. Arrivato a qualche centinaio di metri da casa un tizio m’afferra il braccio e io non sono tipo che mi afferri il braccio e resto lì a sorridere e penso che cazzo vuole e già lo afferro a mia volta ma questo sorride. “Ce la dai una mano, dai che sei grande e grosso”. Sta storia del grande e grosso non porrta vantaggi. Devono portare un pianoforte al terzo piano di una casa. Il pianoforte a sollevarlo mi immagino che dentro sia pieno di armi. Sono trafficanti internazionali di porfido e lo contrabbandano nei pianoforti penso ancora, che io quando penso faccio paura per intuito e raziocinio. Pesa come il carro di Matera prima dello strappo. Siamo in tre. Una puttana fatica. Arrivati a destinazione sorrido e saluto e quello mi insegue e mi ficca in tasca diecimila lire. Nessuno mi toglie dalla testa che è stata la mammana del bosco o la fata dell’osteria o una botta di culo, che io il culo lo venero da sempre come un dio. Alla memoria dei pioppini.

mercoledì 8 febbraio 2012

calzolai vogliosi per femmine diplomate

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Al supermercato ci arrivo come al solito verso le otto di sera. Un’ora buona prima della chiusura. Le cassiere sono allo stremo delle forze e le teste ricadono sul piano e il lettore legge le ciglia finte come codici a barre e tocca fare lo storno, che io una volta che una ha detto dobbiamo fare lo storno mi son messo a trillare che io so fare anche il merlo e il gabbiano e questa gli si è iniettata la pupilla d’odio e mi ha strappato la raccolta punti. I salumieri a fine giornata se gli chiedi il salame ti dicono “è finito” e dietro hanno seicento salami appesi e se gli chiedi ragione ti dicono che quella è una collezione privata non in vendita. Al banco del pesce di fanno delle offerte imperdibili proponendoti delle splendide decomposizioni di frutti di mare. Le donne delle pulizie si avvantaggiano passando dei solventi chimici sul pavimento mentre tu ancora sei in giro col carrello e se ti cade una monetina si scioglie subito. Un anziano l’altro giorno è scivolato e son rimasti solo i bottoni del loden e tutti a chiedersi in che cazzo di materiale son fatti ‘sti bottoni del loden. Il posto, il supermercato intendo, è vicino casa. Un grosso supermercato di una grossa catena di supermercati grossi che a vederlo a petto agli altri grossi che hanno piazzato per la grossa Torino è un piccolo supermercato. A confrontarlo con la bottega del signor Mezzelani dove facevo la spesa da piccolo è davvero enorme ma per l’onore del signor Mezzelani c’è da dire che la bottega del signor Coccolo Otello, cito come da insegna, era ancora più piccola ma pure sfamava mezzo quartiere. Le dimensioni non sono importanti. Ma fanno la differenza.



All’ingresso c’è uno sceriffo di gomma che mi guarda sempre male e chiede “Cosa c’è nel zaino”. La vita mia c’è nello zaino, e glielo ripeto tutte le volte. C’è la macchina fotografica e il computer e i quadernetti scritti fitti e le penne stilo e le matite e le gomme e le schede di memoria e la pinza leatherman che fa suonare tutti i metal detector  del quartiere ogni volta che esco di case, e Cip e Ciop che sono due pupazzetti che mi ha regalato Orso, e il cappello di lana e i guanti da moto e un accendino e un vecchio numero di Zagor e un libro a caso, spesso un Urania, da leggere un po’ qui e un po’ lì. Della pinza leatherman non gliene frega mai niente ma dice sempre “Minchia Cippe e Cioppe, e che ci devi fare, ci devi dare a manciare i biscottini” e ride muovendo le sopracciglia fatte dall’estetista. Non posso fare a meno di pensare che attaccato al cinturone gli penzola una Beretta. Me lo immagino la sera davanti allo specchio del cesso, in mutande e col ferro in pugno, muove il filo di sopracciglia e dice “stai pallando commè, no ci sta nessuno qua, allora stai a pallare a mme, ci sono pobblemi, no dico, dico  a te…”. Poi va di là e picchia la moglie. Indipendentemente.



Il carrello non lo prendiamo mai ma ci impossessiamo di certi cestelli con rotelle e manico telescopico che stanno alle casse. A quest’ora a far la spesa ci sono gli abituali, che ormai ci si conosce tutti ma non è certo un buon motivo per salutarsi. Tra gli scaffali frulla anche qualche frettoloso che sta accroccando la cena al volo. Ci sono gli operai romeni che comprano un paio di bistecche in offerta, che vuol dire che la bestia è morta da mesi e l’hanno tenuta sepolta in un terreno k, qualche merendina e diciannove bottiglie di birra di quelle grosse grosse colla birra schifa dentro che quando la apri invece di fare il sibilo fa un rantolo che è bella evocazione di morte. Ci sono i portoricani che abitano all’altro portone e hanno un numero biologicamente impossibile di bambini al seguito, che si sguinzagliano tra gli scaffali come la più efferata delle pandillas e cercano di convincere madri culone e sorridenti, alte come il carrello, a comprare confezioni enormi di patatine e ciclopiche scatole di qualsiasi cosa. Spesso i nanetti s’azzuffano e sembra il set di un film di Rodriguez ma più vero e si affrontano brandendo Mars e Bounty. Uno una volta ha scassato un barattolo di yogurth in testa al fratello. Gliel’ha scoppiato sulla testa con uno spettacolare effetto di colata. La madre quando se n’è accorta ha chiesto ragione e parlava incazzata che sembrava uno Speedy Gonzales horror ma quelli se ne restavano lì tostissimi nei loro sei anni e circa e nessuno accusava nessuno. Neppure quello ricoperto di yogurth si lamentava. Credo che la madre alla fine abbia rinunciato alle sberle per non imbrattarsi tutta ma nelle orecchie mi girava una frase che è stata uno dei cardini della mia infanzia: “Poi a casa avrai il resto”. A casa questi qui hanno anche tre cani razza pechinese e il mio cane è innamorato perso della pechinesa femmina. Ma questa è un’altra storia.

Stiamo girando tra i reparti cercando di fare il punto sulla cena. La proposta delle pappardelle con la salsiccia e i funghi è approvata all’unanimità, in culo al gelo che fuori se la tira da boss del quartiere. Il secondo è un’opzione da valutare di volta in volta ma il pane lo prendiamo che c’è il lardo da fare a fettine sottili e pure mezza forma di pecorino da lavorare in punta di appetito. Prendiamo pure i taralli che la nostra dieta base prevede i taralli un po’ come le foglie di eucalipto per i koala. Io continuo a guardare la gente. Prima la faccia poi il contenuto del carrello. Afferro frasi al volo e rubo microstorie. Una cosa compulsiva ma che non procura dolori né fastidio. E di colpo mi si palesano davanti. Stanno al centro del reparto macelleria che è una sorta di curva di Lesmo del circuito dei consumi e i carrelli ci arrivano coll’impeto delle acque minerali, altra curva celebre, appena passate in volata e cabrano per non piantarsi nel girarrosto dei polli che a quest’ora è vuoto e gronda il grasso pompato a ormoni e mangimi chimici di tutti i volatili che ha fatto girare nella giornata. Comunque loro, i miei personaggi del giorno, sono lì e li intuisco nella loro potente macchina narrativa già all’altezza dei dentifrici. Lascio il resto della ganga che punta verso il bancone della frutta, che due arance a scongiurare il raffreddore ci stanno tutte. Mentre punto, e i miei lo sanno che quando parto così non c’è nulla che può fermarmi, sibilo “A me prendetemi i fichi secchi” che è pur sempre frutta. Sono in tre i miei personaggi del giorno. Lui ha all’incirca una quarantacinquina d’anni sulle spalle secche secche. Siamo coetanei alla grossa che a ben vedere lui potrebbe anche avercene una paccata di meno ma portati malissimo. E ne ha ben donde. Ha le occhiaie scavate e dentro due occhi rabbiosi, uno di quelli che di colpo scattano e ti spaccano una sedia in testa dopo che s’è riso insieme tutta la sera. Che cazzo di gente frequenti direte voi. Fatevi i cazzi vostri dirò io. Ha un berrettino di lana calcatissimo fino agli occhi che guizzano sotto. Un bomber e pantaloni della tuta da ginnastica. Un pugile di strada di quelle catogorie magretti e cattivi. Un truzzo da chilo che parla con una voce baritonale che gli esce senza muovere le labbra. Le dita addobbate con certi anelli cianfrusaglia e un tatuaggio da casanza sul dorso della mano. Barba lunga, una di quelle barbe dure che ci puoi accendere i fiammiferi. Magrissimo. Ai piedi ha un paio di mocassini che non vedevo da un pezzo, neri con la frangetta di cuoio sulla mascherina. Si tiene per mano con una che sembra la fattucchiera di Colobraro fotografata da Franco Pinna, solo un po’ più giovane. Ora ho scritto Colobraro e se qualche lucano legge si tocca e fa le corna ma io non vi dico niente. Cercate in rete. Lei è davvero tremenda. Gli mancano un mucchio di denti, ha un naso adunco e gli occhi con un trucco pesantissimo a far coppia con le occhiaie. I capelli sono di colori diversi stesi in sovrapposizione e a casaccio. Mi fanno sospettare che sia un’istallazione d’arte contemporanea che non saprò mai capire. Ha un giacchetto blu impermeabile e una voce stridente e strascicatissima. Parole lentissime e acute che se rimani esposto a quei suoni per venti minuti ne riporti danni gravi e permanenti. Ma non sono loro il centro della scena. A spingere il carrello c’è una donna enorme, con un cappotto blu elettrico che sembra il tendone del circo e un paio di occhiali spessi. Nel carrello appunto c’è un carico che per spostarlo ci vorrebbe il muletto ma a lei basta mettersi di peso sulla maniglia e  via andare. Quando sono a portata di orecchio me li sono già studiati e ho capito che il cetaceo cappottuto è la madre di lui. Non è difficile arrivarci, lui si aggira tra gli scaffali e ripete come in un mantra “mamma, mamma, mamma” con quella voce profonda che già ho descritto. Ogni volta lei si gira e lui mostra una busta enorme di fondenti alla menta, una confezione di polaretti, una bottiglia di Zabov con in regalo un mazzo di carte. Lei lo guarda, piega la testa di lato con un sorriso e dice “Certo amore, se ti piace prendilo”.  Lui tutto felice trotta verso il carrello che è ormai uno ziggurath del superfluo domestico. Intanto la madre afferra dei pacchi di carne da sfamarci un condominio e dice a lei “questa la metti nel forno a duecento gradi che a Ezio con le patatine piace tantissimo e poi quando si fa la crosticina…”. Una cantilena che si incunea nei residui di crack che l’altra si porta nei pensieri e che la costringono a emettere dei monosillabi prolungati e acutissimi. Gli passo vicino decine di volte, sempre con una cosa diversa in mano, La mia guerra con quelli dell’antitaccheggio mi ha insegnato a sapere come si muovono, fingendo interesse per le ali di pollo e l’idrolitina. Sono ipnotizzato. Ste e Orso che son venuti a recuperarmi ridacchiando della mia faccia estatica, cadono a loro volta nel trappolone e restano lì imbambolati. A un certo punto Ezio, che ho scoperto anche come si chiama, spunta dal corridoio delle bibite e dice “mamma, mamma, mamma” mostrando un bottiglione di cedrata, di una sottomarca che nulla ha a che vedere con la mia adorata Tassoni. Lei sorride da copione e dice “prendila, prendila” e rivolgendosi all’altra “ma voi ce l’avete il forno a casa?” che mi fa intuire che a casa loro non c’è mai entrata. Appena riceve l’occhei della madre il signor Ezio da il giro al tappo della cedrata e se la spara in gola gorgogliando.  Si sbrodola tutto e poi si pulisce con la manica.  La madre sorride e capisco che in quel sorriso c’è concentrato il cancro del terzo millennio, la madre nutrice motore distruttivo dell’umanità che quell’altro ha cercato di esorcizzare fidanzandosi con un’antidonna, un surrogato di umanità minima da mettere al passo della sua inutile fuga dai sorrisi di mamma. Lui dopo aver bevuto la cedrata la chiude e la appoggia su uno scaffale, finalmente un gesto di buona umanità in tutto quel tragico zuccherino. La mamma scuote la testa e dice “Birbante, metti nel carrello”. Proprio così, dice birbante a un quarantacinquenne che normalmente quando sta in secca la cedrata se la spara in vena mischiandola coll’antigelo. L’altra sorride e non si ricorda perché. Arrivano alla cassa, sono proprio dietro di noi. Comprano anche due carrellini per portare la spesa e la madre dice “quando avete finito le cose mi telefonate e rifacciamo la spesa” dondolando il cappotto ipnotico. Lui dice “minchia, gli ovetti Kinder” e la madre ne prende due e dice “Uno per ciascuno”. Orso mi guarda e mi sussurra “chiedigli se mi danno la sorpresa”. Lo spingo avanti e ridiamo tutti e due. Orso è tutta la vita che arrivato alla cassa sogna che gli si compri l’ovetto Kinder e noi s’è sempre opposto resistenza ma senza nemmeno saperne il motivo recondito. Ora è tutto chiaro. Istinto di babbo. Se vi state chiedendo del titolo lasciate perdere, è una trappola tesa ai motori di ricerca. Sono un mago della comunicazione io.






giovedì 2 febbraio 2012

JUST IN TIMBERLAND che non è un attore ma se lo fosse reciterebbe coi piedi




Lettera aperta al signor Timberland."Egregio,come immagino lei sappia, in considerazione di questa mia vita nomade e in dispregio alle mode del momento, negli anni ho selezionato il suo marchio come riferimento invernale per i miei piedi perchè, se è vero che i prezzi delle sue scarpe sono alti è pur vero che, mi ripetevo, le stesse durano oltre ogni aspettativa. Spio dunque le svendite per fallimento, le cessioni d'attività, per comprare da venticinque anni scarponi della marca testè citata. Oggi c'è parecchia neve ma io ho un vecchissimo pick up e le mie Timberland e guardo alla calamità con il sorriso, che io vivo in calamità permanente e ora gioco in casa. Per l'occasione mi infilo le Timberlan PRO super imbottite, quelle alte da cantiere che non si vendono nelle boutique ma nelle ferramenta e che, me lo lasci dire, costano parecchio di meno di quegli altri modelli da aperitivo nella giungla. Serro bene i lacci, che nessun gelo possa penetrare. Porto Orso a scuola, che così si chiama mio figlio e questo dovrebbe farle intuire quato siam ben disposti nei confronti della glaciazione che incalza. Marcio nella neve come un allegro ritirando della sacca del Don e le sento tintinnare nel cuoricino mio le centomila gavette di ghiaccio e sento l’odore del grasso del bianco leviatano che brucia e sento lo scricchiolio del sale sotto i piedi che è metafora leggiadra del maschio pestello dell’umana specie che affonda nel mortaio di tutti i riti fertili possibili. Belle suggestioni dirà lei, grazie dirò io. Una vecchia quasi mi schiaccia con la Punto che scivola sul ghiaccio come la otto all’ultima buca. Mi vien voglia di spaccarle sulla testa colbaccata le centomila gavette di ghiaccio. In ogni caso arrivo davanti alla scuola e visto che stiamo entrando in bella confidenza le voglio raccontare, a lei che vive coi boscaioli in Oregon o magari sta mangiando un panino con la foca con la Sarah Palin, che dev’essere una bella peperina quella lì, che lunedì qui è nevicato per diciannove secondi e hanno chiuso le scuole. Ai bambini, per regalargli qualche bella suggestione, gli abbiamo sguazzato le finestre con la neve a spruzzo che si usa per il presepe ma poi si sono rotti i coglioni e son scesi a giocare in canottiera. Oggi la città è coperta da uno spesso strato di neve, ghiaccio e vecchi con il femore rotto ma le scuole le tengono aperte. In compenso hanno chiuso l’ospedale delle Molinette, che dicono è il terzo ospedale d’Italia, una medaglia di bronzo che mi fa cagare addosso pensando a come sarà il quindicesimo o il trentaduesimo, perché non c’è il riscaldamento. Questo intoppo nel sistema sanitario spiega l’ammucchiarsi di vecchi inerti col femore rottto a bordo strada. Le ambulanze sfrecciano ma portano carbone peggio della più stronza delle befane. Meno male che siamo entrati in Europa che era una bella giornata perché se la decisione la dovevano prendere oggi eravamo del gatto e sceglievano al nostro posto il Gabon, fosse solo per un fatto climatico. Insomma porto mio figlio e i suoi amici davanti alla scuola con Ste, che è mia moglie di fatto e che è una che quando ci sono queste cose tipo la neve ride con un ghigno che mi mette ansia e guarda la gente e dice “avete mangiato tutto, avete consumato tutto e non siete più buoni a reggere due fiocchi di neve sulle spalle”. Di solito Ste è una tranquilla, che fa un sacco di cose folli ma per conto suo, senza manifestare un astio spiccato per l’umano genere ma quando c’è la calamità prende ‘sta piega tipo “eccoci qua, ora ragioniamo da pari a pari” che le regala un occhio spiritato mica da ridere. Detto questo devo confessarle che Ste ha degli occhi bellissimi e ogni volta, a distanza di vent’anni, io resto davanti a quello spettacolo come la lepre davanti alla 127 di mio zio che s’era abbagliata e lui per farle capire come gira il mondo ha accelerato di botto e poi ce la siamo mangiata. A me ancora non mi hanno accelerato di colpo o forse l’hanno fatto ma non me lo dicono.  Sto cercando di non divagare per arrivre dritto al nodo del mio problema. Le Timberland che indosso oggi, le stesse che ho ai piedi in questo momento, dopo diciannove anni di onorato servizio, me li son contati all’indietro per farmene una ragione cronologica precisa e è come quando stai per morire perché s’è rotta la corda del bangingiampin e ti salvi e ti intervistano e ti chiedono cosa hai provato e tu dici “mi è passata tutta la vita davanti” e io che ti ho visto dal vero penso che se riesci a far passare tutta la vita in una bestemmia hai delle belle doti di sintesi. Non si distragga, torniamo al tema, le scarpe dicevamo, dopo diciannove anni mi hanno abbandonato oggi che è l’unico giorno della mia vita in cui erano realmente giustificate ai piedi. Diciannove anni di peso demenziale ai piedi, di caviglie serrate col nodo del sega abeti dell’Oregon, diciannove anni a giustificare la spesa sostenuta andando in spiaggia ad agosto con ai piedi queste scarpe che ti attivano la sindrome della lupara bianca perché ti senti colato nel cemento. E oggi che è oggi e l’avversità climatica finalmente giustifica la scelta di diciannove anni prima, la suola non si è limitata ad abbandonarmi ma si è letteralmente polverizzata, sbriciolata, dissolta. Cammino per la redazione lasciando una agghiacciante sabbietta nera, una sorta di fondo di caffè in cui se provi a leggere il futuro leggi morte per assideramento. Perché le suole procedono in questo inarrestabile e rapidissimo processo di dissoluzione, tutte e due insieme in un sincrono tragicamente magico e stasera, quando dovrò riaffrontare la strada e guadagnare il fidato pick up, altra suggestione boscaiola che ora guardo con sospetto, camminerò come il peggiore dei lazzari risorti a piedi nudi nella neve. I più attenti diranno che m’era già successso e ne avevo già parlato. Allora era a Venezia e ai piedi avevo un paio di scarpe in cartone pressato e andavo a un incontro di lavoro decisivo per il mio futuro d’economia d’arrangio e le scarpe si sono sciolte sotto la pioggia e ho fatto finta di niente e ho raccontato il tutto nell’introduzione al mio libro su De Andrè (edizioni Ricordi, signor Timberland, casomai fosse punto da curiosità e senza scopi pubblicitari). Quel giorno a Venezia, mentre camminavo per le calli con le scarpe sciolte in poltiglia ai piedi, era morto De Andrè. Da allora ho sempre calzato scarpe che non mi facessero ricadere in quell’imbarazzo e ora guardo desolato le mie Timberland PRO polverizzate e penso che forse farei bene a fare un paio di telefonate per accertarmi della buona salute di Guccini. Con immutata stima.